Oggi 14 febbraio, San Valentino, è per antonomasia il giorno degli innamorati, anche se in origine era una festività religiosa che prendeva il nome dal santo e martire cristiano Valentino di Terni e venne istituita da Papa Gelasio I nel 496 d.C., andando a sostituire la festa pagana dei lupercalia.
Probabilmente l’associazione di San Valentino agli innamorati si deve al fatto che, quando venne istituito il suo culto, si era vicini alla primavera e ben si sa che la primavera è la stagione del risveglio dal lungo letargo invernale e della ripresa dell’attività amorosa negli animali.
Allo stato attuale non è una ricorrenza che mi tocca, visto che sono unicamente innamorato della mia vita, ma se faccio riferimento a questa data (banalizzata dal più esasperato consumismo), non posso non pensare a Verona e alla tragedia shakespeariana di “Romeo e Giulietta” avendo come immagine la coppia di innamorati più famosi al mondo. Non tutti sanno però, che la loro storia non è la sola vicenda amorosa dai risvolti nefasti ambientata nella città scaligera, ma ne esiste un’altra che ha ben diritto di essere ricordata ed è la cosiddetta “Leggenda del Pozzo dell’Amore”.
Si tramanda che al tempo dell’imperatore Massimiliano, un soldato veronese di nome Corrado di San Bonifazio si innamorò di una giovane e leggiadra fanciulla che apparteneva al casato dei Donati e che per nome facesse Isabella. La donna, un po’ per pudica ritrosia e un po’ per gli usi e costumi del tempo sembrava rifiutasse l’amore di Corrado, respingendo le avances ed ogni tentativo di seduzione del giovane soldato, che, ammaliato dalla donna si prodigava in veri e propri slanci amorosi.
Un giorno, i due si incontrarono nei pressi di un cortile posto a fianco della piccola Chiesa di San Marco, non lontano da Piazza delle Erbe e Corrado manifestò a più riprese il suo Amore per Isabella, finchè esasperato dall’indifferenza della sua amata, l’accusò della sua freddezza glaciale al punto di paragonarla all’acqua gelida del pozzo presente in quel cortile.
Nonostante ciò, Isabella non si scompose, ma contrattaccò il povero Corrado lanciandogli l’ultima sfida dicendogli: “Corrado, provate a saltar nel pozzo e forse vi troverete più freddo che ghiaccio”.
Di fronte a ciò, il giovane innamorato, ascoltando il suo cuore e non la ragione si lanciò di getto, andando incontro in pieno inverno alle gelide acque; Isabella, che fino a quel momento non aveva mai manifestato apertamente alcun sentimento nei confronti del soldato, nonostante in realtà ne fosse innamorata, venne presa da sgomento nel vedere che quell’uomo, per amore, avesse osato tanto e decise di buttarsi per raggiungerlo nelle profondità di quel pozzo, unendosi con lui a morte certa.
Sono sicuro che se al posto dell’acqua ci fosse stato vino rosso , le sorti sarebbero cambiate e probabilmente anche il finale e se questo vino fosse stato il Valpolicella di Romano Dal Forno, allora i due piccioncini avrebbero trascorso l’intera giornata a mollo, godendo di un soave nettare che ha pochi eguali nel panorama veronese.
Romano Dal Forno, figlio di viticultori da generazioni, se oggi può considerarsi un grande nel panorama nazionale ed internazionale per i vini da lui prodotti, in gran parte lo deve all’incontro, quando aveva 22 anni, con il grande vecchio della Valpolicella, quel “Bepi” Quintarelli, punto di riferimento del vino Amarone e più in dettaglio del territorio ampelografico veronese. Come discepolo prediletto, ha puntato tutto sulla qualità e su un’attenzione maniacale tra i filari e poi in cantina affinando negli anni anche tecniche di appassimento delle uve senza mai venir meno, comunque, alla tradizione che è il baluardo ed il caposaldo della viticultura del territorio. Per Romano, la vigna non riposa e va sempre lavorata, ogni vigna è diversa dall’altra, va conosciuta, vezzeggiato ogni tralcio, accarezzato ogni grappolo e depositato con cura nel morbido letto dell’appassimento.
Oggi, coltiva dodici ettari di proprietà, più altri dodici in affitto e le etichette prodotte si possono considerare vere e proprie italiche eccellenze, come il suo Valpolicella Superiore “Monte Lodoletta” annata 1998, di 15,0° vol. che ho amabilmente degustato abbinandolo a un succulento stinco di maiale.
E’ un vino ottenuto da uve corvina, rondinella e molinara coltivate sul monte Lodoletta e leggermente appassite, nella valle d’Illasi , ad est di Verona in un territorio magico per la coltivazione della vitis vinifera.
Ma veniamo alla degustazione.
Stappato 4 ore prima di essere servito e versato nell’ampio ballon tipo Burgundy, si presenta cromaticamente di un caratteristico color tonaca di monaco uniforme e impenetrabile.
Lasciato ossigenare a dovere emana iniziali sentori di frutta rossa e nera surmatura, quasi cotta, di ciliegia, amarena e prugna; roteato più volte per far emergere le sensazioni olfattive avverto un mix di terziarietà veramente notevole, dal sottobosco, alla terra umida, a note di cuoio, tabacco dolce, caffè e sul finale tanto cioccolato fondente. Che il vino abbia una elevata alcoolicità lo si nota dal bellissimo effetto Marangoni degli innumerevoli archetti che costellano in un’artistica greca tutto il contorno del bicchiere.
In bocca sembra quasi più un Amarone che un Valpolicella Superiore e nonostante i 23 anni sulle spalle entra deciso, con una profondità impressionante, con una suadente viscosità , con un tannino decisamente vellutato e con una complessità gustativa non indifferente. E’ un vino che ha una corrispondenza naso/bocca da manuale e una beva impegnativa ma decisamente appagante. Nonostante i 15 gradi, non si ha la sensazione di calore anche se il vino è complesso, ottimamente strutturato e lascia una bella sensazione di pulizia.
Non c’è che dire, Romano Dal Forno è una garanzia e penso che dopo un paio di bicchieri di questo Valpolicella, se fossi con la mia innamorata (ma non lo sono…) potrei fare solo scintille!!!. In sua assenza, mi consolo degustandolo e comunque è un gran bel bere!!!.