Nella storica rivalità tra Beatles e Rolling Stones ho sempre parteggiato per Jagger e compagni, anche se devo ammettere che negli ultimi anni ho rivalutato i 4 Fab Four di Liverpool e non grazie a Lennon o a McCartney, ma a George Harrison, che ho sempre considerato la vera anima del gruppo ed il collante di una formazione che, senza di lui, si sarebbe sciolta quasi subito, come neve al sole. Penso che Harrison abbia composto i due migliori brani dei Beatles, vale a dire “Something” inclusa nell’album “Abbey Road” del 1969 e “While my guitar Gently Weeps” edita nel 1968 con “The White Album”.
Quest’ultima, che preferisco, venne alla luce in una calda estate del ’68, quando Harrison si trovava a casa dei genitori a Warrington e dalla libreria prese un libro a caso e sfogliando le prime pagine venne attratto da due parole : “Gently weeps” (trad. “piange dolcemente”).
Nacque così la canzone che all’inizio vide “piangere dolcemente” la sua chitarra, ma in seguito fu quella dell’amico Eric Clapton (mica uno qualunque), invitato da Harrison a completarla con un assolo degno del suo nome.
Nel tempo sono state fatte parecchie versioni, ma quella per me insuperabile venne eseguita quale tributo ai Beatles superstiti (Paul e Ringo) da Joe Walsh, istrionico chitarrista degli Eagles dal 1976 al 2016, da Gary Clark Jr, chitarrista texano dallo stile particolare e dal suono graffiante e sporco al contrario del suo stile vocale influenzato dal blues e da David Eric Grohl, batterista dei Nirvana fino al 1994 e poi fondatore e frontman dei Foo Fighters. Vi consiglio di ad andare ad ascoltarvela su youtube.
“While my guitar…..” è una sorta di riflessione che Harrison fa sulla disarmonia e le forti tensioni dell’epoca tra i membri dei Beatles, dopo il loro ritorno dall’india, dove avevano studiato la meditazione trascendentale sotto la guida del Maharishi Mahesh Yogi.
Il brano è intriso di una malinconia tipicamente occidentale e a livello globale esprime una sorta di rassegnazione per la condizione umana e per la mancanza di amore e di pace nel mondo, come se lo stesso Harrison fosse inerme ed impossibilitato a cambiare le cose ed intanto il tempo scorreva implacabile. Forse, intimamente, avrebbe voluto fermare il tempo, conscio di trovarsi nella scomoda posizione di spettatore, incapace di sovvertire un destino che si avvicinava come un cavallo imbizzarrito e al galoppo. La storia fece il seguito, visto che il 10 aprile 1970 i Beatles si sciolsero definitivamente.
Chi invece, da par suo, ha saputo essere attore e spettatore allo stesso tempo, incurante della condizione umana, dei repentini cambiamenti socio-politici ed economici degli ultimi sessant’anni è il vitigno principe del terroir italico, il Nebbiolo e me l’ha dimostrato con la degustazione del Barolo annata 1964 degli Antichi poderi di Barolo dei Marchesi di Barolo (già Opera Pia) di 13,0°vol. Azienda che trasuda di storia da 200 anni e che ha annoverato due dei padri putativi del Barolo, vale a dire Giulia Colbert di Maulèvrier andata in sposa nel 1806 al Marchese di Barolo, Carlo Tancredi Falletti, Guardia d’Onore a Cavallo e Ciambellano di Napoleone Bonaparte.
Questo vino nasce in piena epoca Beatlesiana, quando era ancora un vino da tavola senza la Doc ricevuta nel 1966 e la Docg nel 1980, ma in particolare l’annata 1964 del Barolo venne definita grande e questo vino quando si presentò al mondo venne argomentato in questo modo: vino maestoso nella sua struttura e complessità, dai profumi nobili ampi e persistenti; tannini evidenti che gli conferiscono una certa durezza, che nel complesso di tutti gli altri elementi prelude ad una grande longevità.
Al contrario dei Beatles e con buona pace per Harrison, questo Barolo è ancora sulla breccia e la degustazione effettuata è stata un’ennesima esperienza gustativa davvero particolare ed affascinante.
Quando mi approccio ad un Barolo che ha sulle spalle quasi 58 anni di vita, il mio atteggiamento è ossequioso e di estremo rispetto.
Bottiglia posta verticalmente in cantina due giorni prima di essere stappata; stappato 24 ore prima di essere servito e versato delicatamente nell’apposito balloon 3 ore prima di essere degustato. Non l’ho decantato perché seguo sempre i consigli che mi diede il compianto grande vecchio di Langa, Beppe Rinaldi, che non amava il decanter e rispettava sempre e comunque la tradizione.
Tappo ancora sano ed una volta estratto con cavatappi a lamelle si è sbriciolato in parte (poco male); si presenta di colore piuttosto denso, tendente al “tonaca di monaco” con riflessi brunastri sull’unghia. Ben saldo e scorrevole nel bicchiere.
Al naso impatta da subito un inconfondibile sentore di polvere di caffè ed a seguire matrici fruttate di ciliegia surmatura, quasi sotto spirito e di cassis. Non una frutta pronunciata, ma come se fosse sfumatura di un acquarello, che nel breve viene soppiantata da un caleidoscopio di terziarietà che fa emergere in sequenza, muschio, terra bagnata, tartufo, cuoio e pellame, per poi virare quasi sterzando di scatto su netti sentori balsamici e mentolati. Un vero tripudio.
Ho atteso molto nell’assaggio, ma con un naso così non avrei dovuto trovare sorprese. La prima cosa che si avverte è che un vino tanto longevo abbia ancora un tannino in evidenza che si aggrappa intorno alle guance, dandoti una strana sensazione di gioventù e serba ancora un bel vigore al cospetto di un’acidità ben presente, in un corollario gustativo davvero impressionante, dove la frutta la fa da padrona sottoforma di amarena e mirtillo ed il finale è ulteriormente rafforzato da una bella sensazione gustativa di cioccolato fondente e da una sottile tostatura di caffè leggermente amara.
La persistenza è davvero lunga ed è tipica di un nebbiolo ben invecchiato.
Che dire. Non capita tutti i giorni di poter degustare un vino così vintage ma ancora così vivo, che ha saputo resistere al tempo, alle mode e alle brutture di questo mondo malato.