Se oggi la famiglia Frescobaldi può annoverarsi come una vera e propria potenza in capo enologico, molto di tutto ciò lo deve a Vittorio degli Albizi, pioniere, visionario e lungimirante personaggio nel panorama vitivinicolo toscano nel XIX° secolo.

La famiglia Albizi, di origine teutonica, le cui radici risalgono al Sacro Romano Impero di Ottone III, fece fortuna dapprima importando e vendendo lana francese ed in seguito come banchieri. Nel XII° secolo, si trasferìrono a Firenze per motivi commerciali e divennero ben presto influenti in tutta l’odierna regione, finchè il potere accumulato venne eroso dalla storica famiglia rivale dei Medici, al punto che dovettero sgombrare il campo trasferendosi in Francia. Nel 1838, Amerigo degli Albizi, ultimo esponente italiano della famiglia, che non aveva eredi diretti, richiamò in patria i discendenti del ramo della famiglia che i Medici avevano bandito nel 1523 e più precisamente Alessandro degli Albizi, la consorte Vittoria La Caruye ed i loro figli Vittorio e Leonia. Quattro anni dopo il loro ritorno, Amerigo morì lasciando in eredità i possedimenti della Val di Sieve, tra cui Nipozzano e il suo castello, Pomino e Poggio a Remole oltre a Montefalcone nei pressi di Lucca. In questo periodo, Alessandro e la sua famiglia vissero a Firenze, trascorrendo però l’estate al loro castello di Labreuille, nei pressi di Auxerre, in Borgogna.

Ben presto, il figlio Vittorio assunse la direzione dei poderi, diventando amico del barone Bettino Ricasoli, che tanto fece per la causa del Chianti. 

Grazie all’esperienza accumulata in Borgogna, sia in vigna che in cantina ed inoltre vero e proprio precursore di una moderna attività di marketing, Vittorio stravolse, per il contesto di quel periodo, le certezze dei viticoltori legate ad una coltivazione promiscua e di alta quantità a discapito della qualità. Fu il primo a pensare e a mettere in atto la coltivazione di vitigni a bassa resa e nonostante gli ostacoli e le critiche piovute a grappoli dai concorrenti e dalla critica del tempo, continuò imperterrito il suo progetto.

Tra il 1860 e il 1877 piantò un vigneto a Pomino, introducendo per primo vitigni francesi come Cabernet, Pinot Noir, Semillon e Roussanne, antesignano e precursore di quei vini che in seguito sarebbero stati denominati “Supertuscan”. Vittorio lasciò questa terra troppo presto, all’età di 39 anni per una polmonite, senza lasciare né moglie né figli. Tutto quanto andò alla sorella Leonia, che nel 1863 sposò Angelo Frescobaldi, e da questo istante, i Frescobaldi iniziarono quell’ascesa che li ha portati sino ai giorni nostri ad essere una realtà indiscussa a livello vitivinicolo.

Sono certo che uno dei vini che sarebbero enormemente piaciuti a Vittorio degli Albizi è senza dubbio il Luce, blend di Sangiovese e Merlot prodotto nel territorio ilcinese (loc. Castelgiocondo) meglio conosciuto per il Brunello, ma che con le peculiarità del suo terroir diviso in tre zone principali, dotato di argilla in quella inferiore, sabbioso-scistoso in quella superiore e sabbioso-arenarie in quella mediana, può albergare oltre al Sangiovese, vero leader indiscusso a queste latitudini, anche  un vitigno come il Merlot che ben si presta ad ammorbidire, a dare corpo e amabilità anche ai vini più difficili e scontrosi.

Così come Vittorio degli Albizi è stato un faro, una vera è propria luce, una fonte di impulso di una nuova energia in un panorama vinicolo in cui erano più le ombre ad emergere, così anche questo vino rispecchia nel suo nome una vera e propria fonte luminosa composta da un mix di tradizione vinicola toscana, associata a una modernità di gusto e ad un cammino evolutivo e costante nel tempo. Il sole riportato nell’etichetta, ha sempre occupato in Toscana un posto di rilievo nell’iconografia civile e religiosa; la raffigurazione è ispirata al sole dell’altare maggiore della chiesa di Santo Spirito a Firenze, costruita su un terreno donato dalla famiglia Frescobaldi alla fine del XVI° secolo. 

Ma veniamo alla degustazione di questo LUCE della vite 2008 di 14,5° vol. prodotto in un’annata contraddistinta da una primavera per abbondanza di pioggia e temperature al di sotto della media e da mesi estivi, fino a settembre, caldi e assolati, con i grappoli arrivati a maturazione per la vendemmia in condizioni ottimali. Vino fermentato per 12 giorni e con macerazione delle bucce per 4 settimane; affinamento di 24 mesi in barriques di rovere, 90% nuove e 10% di un passaggio ed imbottigliamento a gennaio 2011.

Posto in posizione verticale 24 ore prima di essere servito, stappato 4 ore prima di essere degustato e versato in ampio balloon, si presenta di color rosso intensamente scuro e concentrato con lievi riflessi granati sull’unghia. Al naso, un iniziale approccio di matrici tipicamente fruttate di mora, amarena e ciliegia marasca, viene ben presto soppiantato da sentori terziari di humus, sottili note fungine, tabacco, cuoio e cioccolato fondente. Il finale è pervaso di balsamicità di eucalipto e liquirizia. In bocca si avverte una notevole freschezza su di una sottile trama tannica che allappa, ma con leggiadra setosità. I rimandi fruttati sono nitidi e ben bilanciati da eleganza e acidità armonica. Bella profondità e concentrazione su di un finale meravigliosamente lungo e appagante. L’alcolicità (14,5°vol.), seppur notevole, non infastidisce e la beva risulta scorrevole, ma impegnativa e mai banale, sorso dopo sorso. Un vino dal corpo generoso e potente che lo annovera tra i grandi rossi di Toscana.

Di certo Vittorio degli Albizi se lo sarebbe degustato a lungo sentendosi orgoglioso e con buona parte di merito per aver tramandato ai posteri le linee guida per una viticoltura ragionata, ambiziosa e di assoluta qualità.