L’Amore viscerale per la Borgogna enologica potrebbe essere frainteso o sopravvalutato da
chi non ha la mia stessa passione o ancor di più da chi non ha avuto la fortuna e il privilegio di poter visitare una delle zone più vocate al mondo, che ti entrano nell’anima al punto tale da provocarti un vero e proprio “mal d’Africa”. Il richiamo costante a ritornare e a rivedere luoghi che nel tempo sono diventati veri e propri cult, sia per gli appassionati come me, sia per i professionisti del settore, è anno dopo anno sempre più virale, come una sorta di malattia che non riesci a debellare, ma che si propaga lentamente in tutto il corpo. Quello che più mi affascina è il respirare la Storia, che una volta immerso nel territorio, senti trasudare da ogni poro della pelle ed è estremamente affascinante ripercorrere gli inizi dei monaci, veri e propri progenitori dell’enologia moderna borgognona, passando attraverso i racconti dei vecchi vignerons, per arrivare alle realtà attuali che vivono giornalmente in una commistione di tradizione e di modernità. Conoscere il passato aiuta a capire il presente per porre le basi per il futuro.
Negli ultimi mesi, per cercare di essere ancor più sul pezzo nel mondo Borgogna, mi sono abbonato alla rivista bimestrale “Bourgogne Aujourd’hui”, che attendo sempre con l’ansia di un fanciullo e che divoro letteralmente, cercando nel contempo di mantenere in allenamento il mio francese scolastico che, nel gli anni di peregrinazione vinicola in terra d’oltralpe, ho riesumato da uno dei tanti cassetti della memoria riuscendo a rinverdirlo.
Mi sono imbattuto recentemente in un racconto scritto da Jean Bart, viticoltore di Marsannay-la-Cote, nato nel 1900 e che racconta uno spaccato di vita contadina in un misto di religiosità, pregiudizio e rivalità che val la pena essere raccontato.
Per chi non lo sapesse Marsannay-la-Cote, con Chènove e Couchey rappresenta il limite nord della zona vinicola della Cote d’Or. E’ sul territorio di questi tre villaggi che si snodano gli oltre 220 ettari dell’appellation Marsanny, la cui produzione è divisa per il 70% a Pinot Noir e il restante 30% a Chardonnay.
Jean Bart (capostipite dell’odierno Domaine Bart) racconta che a Chènove veniva fatta una processione per le rogazioni; nel cattolicesimo sono considerati dei riti propiziatori sulla buona riuscita delle seminagioni, arricchite di preghiere e atti di penitenza. Hanno la finalità di attirare la benedizione divina sull'acqua, il lavoro dell'uomo e i frutti della terra.
Il percorso si snodava lungo i vigneti più vocati del tempo, il Clos du Roi, il Longerois e il Valendons, un piccolo chierichetto portava la croce ed altri cantavano il Te Deum. Il sacerdote aspergeva le vigne chiedendo a San Vincent (celebrato in Francia come protettore dei vignaioli e celeberrima la festa di Saint Vincent Tournant in Borgogna) di portare in tutti questi luoghi acini grossi e lucenti. A quel tempo c’erano i grandi vignerons in prima fila, quelli che avevano le annate migliori e che guardavano dall’alto verso il basso i piccoli viticoltori meno abbienti, fino agli ultimi, quelli chiamati “bombis”, i più poveri che andavano di giorno a potare, affilare i paletti d’inverno, legare e spazzolare d’estate, sempre calati, molto vicini al suolo. Tra questi, la vecchia Fanny, tutta rugosa che aveva solo un giardinetto, cantava le litanie con il tallone deridendole al pari dei vignerons in prima fila…..
Uno spaccato di vita contadina che contraddistingue una denominazione particolare che ha vissuto una storia prestigiosa ma tormentata da un episodio di produzione intensiva nell’Ottocento (il Pinot Noir aveva ceduto il posto al Gamay più produttivo); una svolta che nel tempo ha lasciato il segno, ma i viticoltori odierni conoscono il potenziale del loro terroir e con caparbietà sono riusciti definitivamente nel 2020 a vedersi assegnati ben 14 Premier Cru. Parliamo dunque di un territorio e di un appellation un po’ snobbati, a torto, e che vede tra i suoi miglior interpreti il Domaine Joseph Roty, meglio conosciuto per i suoi Gevrey Chambertin ma che a livello di Marsannay, sa il fatto suo, come per il Marsannay Blanc annata 2013 di 13,0° vol. degustato in una domenica tardo primaverile.
Stappare la 2013 è sempre un azzardo in quanto è risaputo che sia stata un’annata difficile in Borgogna, attraversata da un inverno freddo ed umido con il 30% di precipitazioni in più rispetto alla media stagionale e meno sole di quanto non sia la norma. Primavera fresca e molto piovosa con maggio che ha visto inondazioni diffuse e sporadiche gelate. Estate calda ed asciutta ma con un settembre meno buono e con ritorno di condizioni fresche e umide e vendemmia inevitabilmente tardiva iniziata quasi per tutti ad ottobre, Domaine Roty compreso.
Confido nell’abilità di Philippe e Pierre-Jean che conducono l’azienda secondo i principi dell’agricoltura biologica e sulla loro proverbiale lungimiranza.
Versato nell’apposito balloon tipo Burgundy, si presenta di color giallo paglierino limpido e uniforme su tutta la superficie e tendente all’oro zecchino.
Inizialmente rimango un po’ dubbioso perché olfattivamente il vino mi è parso un po’ stanco ma dopo 90 minuti circa il miracolo….
Al naso emerge con immediatezza la parte fruttata di pesca ed a seguire una leggerissima nota di miele selvatico, ma lasciato ulteriormente ossigenare e roteato nel bicchiere prendono il sopravvento matrici di erbe della macchia mediterranea, salvia e timo, davvero interessanti.
In bocca è strepitoso, per essere un village, perché oltre ai rimandi fruttati ci senti il miele e una nota un po’ burrosa molto particolare perché ti sgrassa il palato e ti invoglia ad una continua beva, supportato, tra l’altro da una spiccata sapidità in deglutizione, che lo rende anche intrigante ed estremamente godibile, in un corollario di notevole eleganza. E’ un vino dalla beva semplice, solo in apparenza, più per palati allenati ed è spettacolare in un’annata davvero difficile e se non sapessi che si tratta di un Marsannay penserei di degustare uno Chardonnay della Cote de Beaune, un Meursault o un Saint Aubin. Roty, nei suoi vini, come direbbe il mio amico Emanuele Spagnuolo, fa tutta la differenza del mondo perché incarna quella magia particolare, quel canto delle sirene ammaliatore che ti induce a raggiungere una terra eroica e leggendaria allo stesso tempo.