Ho un rapporto conflittuale con il tempo e di conseguenza con la pazienza. Alla mia età scatta inevitabilmente il momento di fare il punto della propria esistenza, a livello affettivo, professionale e personale e quello che più mi rattrista è constatare di aver buttato via tempo che avrei potuto impiegare diversamente, canalizzando le mie energie verso qualcosa e qualcuno che mi facesse stare veramente bene. Le esperienze vissute, le gioie e i dolori mi hanno portato oggi, uomo cinquantaseienne, a trovare un equilibrio che mai avrei pensato di poter ottenere, ma la vita a volte stupisce per quel che riesce a regalarti, quando dopo aver toccato il fondo, pensi di non poter risalire….
Per scrivere questo articolo ho dovuto avere la pazienza necessaria per guardarmi dentro in modo approfondito, cercando di esprimermi liberamente, sgombro da qualsiasi remora e condizionamento esterno.
Già, la pazienza, quella che non ho, da sempre, ma che negli ultimi anni ho dovuto ricercare con forza per poter risorgere dalle ceneri come l’araba fenice.
Forse non sono un uomo virtuoso, visto che definisco la pazienza come la più alta delle virtù, ma lo scopro solo ora, perché è quella che fa lavorare su noi stessi, è una autentica alleata e questo mio padre lo sapeva davvero bene. Non ho mai visto persona più paziente di lui e la sua saggezza è sempre con me e viaggia a braccetto attraverso il lungo e tortuoso percorso che si chiama vita….e meno male che non mi abbandona.
Al giorno d’oggi, allenare la pazienza è davvero difficile perché viviamo in una società progettata per rincorrere (a nostre spese) la massima soddisfazione istantanea, quel tutto e subito che tende a standardizzarci e a fagocitarci in quella globalizzazione che non gradisco e che mira ad uniformare le nostre identità, che sono patrimonio personale e inviolabile di ogni individuo.
Per fortuna, c’è la realtà che è l’ostacolo per ottenere qualsiasi cosa (lecitamente) il più presto possibile e quella condizione che ci permette di dar valore al tempo e di capire che occorre fare un certo percorso per ottenere quello status di grazia, che ci può far dire con soddisfazione “sono arrivato a destinazione”.
Non sempre riesco ad essere così paziente e penso sia più che normale, ma su di una cosa riesco ad avere tutta la pazienza del mondo: il vino.
Quando si parla di vino, so sempre aspettare che si compia il tempo giusto per poterlo apprezzare ed assaporarlo al meglio, anche se a causa della sua conservazione e delle differenti annate, non sempre è possibile parlare di momento giusto.
Scopro che tra le nuove generazioni di produttori borgognoni, c’è una donna, Agnes Paquet, che ha avuto tanta pazienza per assurgere oggi come astro nascente della Cote d’Or, dopo essersi fatta da sola, dopo un lungo e paziente percorso enologico. Mentre i suoi genitori svolgevano altre professioni e vendevano le uve degli appezzamenti di proprietà ai negociant di Beaune, lei, invece, ha studiato al Lycee Viticole e ha fatto un apprendistato in California, prima di fondare nel 2000, a soli 21 anni, la sua piccola azienda, che tutt’oggi produce non più di 10.000 bottiglie da vigne condotte in regime biologico. Molto riservata, ma sicura di quel che fa, a partire dalla sua filosofia viticola sintetizzabile in uva diraspate per il 70% circa, il resto a grappolo intero, no lieviti aggiunti, filtrazioni leggere, affinamento in botte da 350 a 500 litri e soprattutto tanta pazienza, in vigna e in cantina.
Scoperta grazie all’amico Emanuele Spagnuolo di Grandi Bottiglie (grandibottiglie.com) acquisto subito un paio delle sue opere. Ho pazientato tutta l’estate per stapparle ed ora, felice, parto con il suo Auxey-Duresses Patience nr.12 annata 2019 di 13,0° vol., dal nome evocativo, prodotto su di una parcella denominata Les Hoz , quasi confinante con il terroir di Meursault, con più di 90 anni d’età. Affinato in botti di 350 litri per 12 mesi oltre a 4 mesi in vasca prima di essere messo in bottiglia. Solo 2079 bottiglie prodotte e 100 magnums.
Si presenta di color giallo paglierino, tendente all’oro zecchino, limpido e uniforme su tutta la superficie. Al naso i primi sentori sono di matrice fruttata, di pesca ed a seguire quelli agrumati di cedro e bergamotto. Lasciato ossigenare ulteriormente nel bicchiere, tipo Burgundy, emergono tocchi di noce moscata e stecca di vaniglia. L’esame olfattivo fa presagire una bocca altrettanto interessante ed è con molta impazienza e difficoltà, dover attendere quella che poi si è rivelata un’autentica magia. L’entrata è qualcosa di straordinario che sconvolge magnificamente le papille gustative alle prese con una certa sinuosa cremosità, ma soprattutto con una tensione acido-sapida avvertita in pochi altri Chardonnay; un’iniziale verticalità viene soppiantata da un’esplosione in ampiezza quasi incontenibile, dove la sapidità e la mineralità sono davvero di impatto, in un corollario gustativo simbiotico con quello olfattivo e con un magnifico retrogusto in un mix di noisette e burro salato, persistentemente lungo.
Questo vino è una meraviglia, il miglior Chardonnay sin’ora in questo 2022, al punto di pensare onestamente che se me lo avessero fatto degustare alla cieca avrei pensato più a un Meursault che a un Auxey-Duresses.
Nei prossimi mesi mi getterò sul suo Pinot Noir.
Segnatevi questo nome, Agnes Paquet, ma soprattutto acquistate una bottiglia e se non riuscite subito, portate un po’ di pazienza…….