Capita sovente che per dar forza all’esposizione di un concetto si parli per metafora, ovvero quella figura retorica di significato molto utilizzata sia in letteratura, sia nel linguaggio parlato. Si tratta di un’analogia che non viene resa esplicita, ovvero di un termine che viene utilizzato al posto di un altro, con un significato diverso da quello espresso solitamente, senza essere introdotto da espressioni del genere “come, “tale a”, “simile a”. 

L’analogia risulta talmente espressiva ed evocativa che non occorre esplicitarla e il suo significato è chiarissimo. 

Una di quelle che non vorremmo mai pronunciare è: “….è stato un vero Calvario”.

Metafora talmente ovvia che riconduce all’episodio della salita al Calvario di Gesù, usata per indicare una dura sofferenza, dove anche l’espressione “che croce….” tende a ribadire la gravità di una situazione particolarmente penosa.

La stessa Via Crucis diventa a questo punto una vera e propria metafora; essa venne percorsa salendo il crinale che portava al Golgota percorrendo sentieri scoscesi e ripidi gradini. Salire non è mai semplice e risulta il più delle volte faticoso, ogni passo è un sacrificio che risulta doloroso ed è la metafora della nostra esistenza, dove, soprattutto ai giorni nostri si cercano (invano) scorciatoie da percorrere con strade apparentemente più facili e sicuramente più veloci, dove il miraggio di ottenere tutto e subito è alla portata di mano, ma mai raggiungibile. Potremmo dilungarci su le mille sfaccettature evocative del significato della Via Crucis, infarcita di così tante metafore, ma basta soffermarci sulla prima incontrovertibile che esce così evidente dalla prima stazione della stessa: “ Gesù viene condannato a morte”

Come non pensare che la prima stazione della Via Crucis esplicita metaforicamente il concetto che ogni essere umano che nasce su questa terra è destinato alla morte. Siamo condannati alla fine, nell’esatto istante in cui vediamo la luce. Per non pensarci troppo, ci consoliamo autoconvincendoci che è una legge della natura e andiamo avanti percorrendo, ognuno come può, il proprio personale Calvario, portando appresso quella Croce di cui faremmo volentieri a meno.

Mio padre mi ha insegnato che la vita è piena di sacrifici e di sudor di fronte se si vogliono raggiungere i propri obiettivi e non esistono scorciatoie, ne mezzucci ingannevoli per arrivare al risultato. Ben venga il sacrificio e il duro lavoro e questi concetti sono anche il credo della famiglia Pieropan, vinificatori dal 1880 nella zona di Soave, veri e propri pionieri di quella viticoltura eroica fatta di fatica contadina e di personalissimi calvari, iniziata con Leonildo, medico condotto del paese, passando dai figli Gustavo e Franco, per arrivare ad un altro Leonildo, che nel 1966 dopo aver concluso gli studi di enologia presso la scuola di Conegliano, apportò cambiamenti radicali e innovativi, acquisendo nel contempo nuovi vigneti nelle zone più vocate del soavese. Insieme alla moglie Teresita, condividerà l’amore per la terra, il valore della tradizione, il duro lavoro e il sacrificio. Oggi i figli Andrea e Dario, dopo la sua scomparso avvenuta nel 2018 continuano a percorrere la strada tracciata dal padre.

Tra i Soave prodotti, spicca il “Calvarino”. Il vigneto Calvarino è situato nel cuore della zona classica di Soave e rappresenta, per l’azienda, l’antico fondo di famiglia, acquistato nel 1901. Il nome “Calvarino” ( decisamente evocativo) deriva, nella vulgata veneta,  da piccolo Calvario per la difficoltà estrema di lavorazione del terreno e del percorso tortuoso per raggiungere il vigneto. La prima etichetta risale al 1971 e rappresenta l’espressione più fedele e autentica del vino Soave. 

L’ho degustato una prima volta direttamente in azienda, in una sosta a Soave dove la visita non era programmata ed ora, sicuramente con più attenzione e con un giusto stato d’animo, ossequioso della tradizione e della storia famigliare che è talmente palpabile da riuscire quasi ad immedesimarcisi. 

Ma, come sempre veniamo al clou della degustazione.

Versato nell’apposito bicchiere questo Soave Calvarino 2020 di 12,5° vol, si presenta di un bel colore giallo paglierino tendente al dorato, limpido ed uniforme; al naso emergono con immediatezza profumi floreali di gelsomino, glicine e nuances di lavanda del Plateau de Valensole e a seguire decise note fruttate di mandarino, scorza di limone maturo e sul finale un tocco erbaceo di salvia.

In bocca entra con una certa verticalità, apparentemente fragile, ma dotato di una finezza senza tempo, dove si distingue per mineralità e per una decisa sferzata sapida, in un corollario gustativo armonico ed il finale è decisamente teso su di una lunga persistenza gustativa e su un retrogusto amarognolo frutto di un mix di eleganza e sensualità. 

Un blend di Garganega e Trebbiano di Soave, espressione autentica e tradizionale del vino che, nella fattispecie, viene esaltato dal terroir di argilla e di tufo basaltico e sfrutta appieno la caratteristica minerale dei suoli vulcanici. 

Difficile pensare a qualsiasi metafora, ma forse è molto più semplice esclamare “….davvero un buon vino!!”, anche se il degustatore (me compreso) non potrà mai capire fino in fondo il significato etimologico del nome riportato in bottiglia, visto che “Calvarino” rappresenta (data l’estrema difficoltà di lavorazione del vigneto) una vera e propria sofferenza enologica che sublima però la vera essenza del Soave.