“……Ogni artista non è mai povero. “

(Il pranzo di Babette- 1987)



Nell’ultimo decennio, il proliferare, a volte abusato, di decine di trasmissioni televisive di stampo culinario, darebbero adito ad un ipotetico marziano, che per la prima volta fa visita in Italia, nel pensare che forse siamo ossessionati dal cibo. In parte potrebbe essere vero, al punto che è aumentato a dismisura il numero di persone che pensano di replicare piatti di “haute cuisine” , come direbbero i francesi, sentendosi dei piccoli chef, ma in parte è anche una sorta di consapevolezza, figlia del voler perseguire una corretta alimentazione. Al centro di tutto la cucina, intesa ancora tradizionalmente come focolare domestico, legata alla famiglia e agli affetti, in cui il preparare i cibi diventa il pretesto per ritrovarsi insieme, oggi più che mai indispensabile, in una società che ti fagocita e che scandisce tempi e ritmi che non governi, ma talmente accelerati e temporalmente violenti che distolgono da tutto ciò che è veramente vitale per il corpo e per lo spirito. 

Prova provata è la necessità, almeno la domenica di pranzare insieme o di ritrovarsi in qualche ristorante per poter addentrarsi in una convivialità e in un piacere, vero e proprio ricostituente medicamentoso. Se penso alla cucina e al cibo, occorre necessariamente considerare alcuni film che sono rimasti nella storia cinematografica, partendo da “La grande abbuffata” del 1973 con gli indimenticabili Michel Piccoli, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Philippe Noiret, ai più recenti “La cuoca del Presidente (2012)”, “Amore. Cucina e curry (2014), “Il sapore del successo (2015)”, ma quello che ho preferito in assoluto è “Il pranzo di Babette”, trasposizione cinematografica del 1987 del regista danese Gabriel Axel dell’omonimo racconto di Karen Blixen. E’ un cult-movie, vincitore del premio Oscar come miglior film straniero, diventato fonte di ispirazione per professionisti e semplici appassionati al punto di riportarne il nome a ristoranti in giro per il mondo, libri e blog culinari.

Non mi soffermerò sulla trama, ma su quello che ho reputato la pura essenza che si può trarre da questo capolavoro cinematografico.  La spiegazione di Babette, quando le fu chiesto il perché non scelse di tornarsene in Francia, dopo aver vinto una fortuna ad una lotteria, rimanendo su un’isola norvegese inospitale e spendendo tutto per il pranzo è emblematica e lungimirante allo stesso tempo: “Ogni artista non è mai povero.” In queste poche parole viene espresso il concetto di arte, ovvero non è il cercare a tutti costi di perseguire fama e successo, ma quello di nutrire o forse ancor meglio sfamare il proprio spirito e la propria anima. Un concetto universale e senza tempo che ho fatto mio nella serata del 29 ottobre, quando il mio grande amico William (chef per diletto) mi ha riportato alle atmosfere del lungometraggio di Axel, rivestendo idealmente i panni della bravissima Stephane Audran (Babette) e dando vita ad un pranzo che resterà di imperitura memoria.

Certo che emulare quanto servito nel film sarebbe stato anacronistico, nessun brodo di tartaruga, né quaglie en sarcophage, né tantomeno Clos de Vougeot del 1846 e Champagne Veuve Clicquot del 1860, ma un vero e proprio viaggio sensoriale utilizzando un alimento base, riconosciuto da tutti come un vero e proprio status symbol, che edonizza quel piacere dell’esclusività, facendolo assurgere a prodotto raro e di classe: il caviale.

Più precisamente il Caviar Premium Selection Malossol della Maison Malakhoff, caviale nero raccolto da uno storione di 12 anni e con diametro della granella di 3,2-3,3 mm, specie Kaluga Huso Hybrid (correlato al Beluga). 

In origine il termine Malossol era utilizzato per distinguere il caviale pregiato da quello comune. Quando il caviale era prodotto più di duecento anni fa, non esistevano conservanti per conservarlo adeguatamente ed estenderne la scadenza. L’unica soluzione consisteva nell’aggiunta di sale, tuttavia troppo sale rovinava il sapore e la qualità del caviale, danneggiava le pareti delle uova e privava il caviale del suo caratteristico “scoppiettio”. Fu quindi coniato il termine "Malossol” per indicare ai compratori e ai rivenditori che il caviale non era stato salato troppo (tra il 3-5%), era di prima qualità e di sapore superiore. Oggi il termine Malossol non indica più la qualità del caviale, né la sua origine, poiché tutto è trattato con il sale per conservare adeguatamente le uova e migliorarne il sapore, ma in questo caso, comunque, indica una lieve salatura per mantenerne appieno le caratteristiche organolettiche. Ma veniamo alla degustazione. 

Abbiamo iniziato con il classico caviale al cucchiaio su un letto di ghiaccio; un buon caviale si riconosce dall'odore e dal sapore: un prodotto di qualità non deve avere un odore di pesce o un sapore piccante. Le uova devono essere ben definite, presentarsi uniformi e non pressate e questo Malakhoff incarna tutte queste caratteristiche. 

Lo abbiamo accompagnato con una bottiglia di Champagne Vadin-Plateau di 12,0° vol., 40% Chardonnay, 30% Pinot Noir, 30% Pinot Meunier, molto gastronomico, che si presenta di un bel colore dorato con perlage fine e persistente ed al naso sentori di crosta di pane, cremosità ed a seguire accenni agrumati che col tempo, con una maggior ossigenazione e con un lieve innalzamento della temperatura di servizio, virano su frutta disidratata, canditi, albicocca e dattero. In bocca è decisamente morbido ma deciso allo stesso tempo, con una bella persistenza aromatica, ma soprattutto sgrassa didatticamente la bocca invogliandoti a riprendere un nuovo assaggio di caviale che, servito da solo, provoca non poche sensazioni gustative davvero esaltanti. 

A seguire, per rimanere nel range degli antipasti, tartare di storione marinato con zucchine e lacrime di caviale. Ottimo davvero con il gusto del caviale ben amalgamato con la marinatura dello storione.

Per servire le successive tre portate, abbandoniamo lo Champagne e stappiamo un Riesling Wiltinger Brune Spatlese 2011 di Egon Muller, 9,5°vol.; il produttore non ha bisogno di presentazione visto che parliamo del Top della Mosella. Conosciuto più per il suo vigneto principe, lo Scharzhorfberg, detiene anche la tenuta ”Le Gallais” con il vigneto Wiltinger che da vita a questo Spatlese, che si presenta di color oro antico, limpido e uniforme. Al naso è una goduria, con un tripudio di sentori idrocarburici che vanno dal kerosene, al gas e al petrolio, per poi virare, una volta apertosi, verso nitide nuances agrumate e di frutta tropicale, dove primeggia ananas e passion fruit. In bocca è taumaturgico, morbido, ampio e sorretto da una sferzante spalla acida su di una lunghezza gustativa che ha dell’eterno. Il corollario gustativo è di quelli che non ti scordi dove prevale una dolcezza mai stucchevole, ma mai doma, con una corrispondenza naso/bocca da manuale e con accenni di miele davvero gradevolissimi.  Ben si addice con i successivi assaggi andando a far da contrasto e a bilanciare le sensazioni salmastre/iodate del caviale. 

Partiamo con alici marinate con aceto di mele, vino bianco e pepe, condite con olio EVO, sale, un pizzico di pepe del Madagascar e caviale. Segue, fettina di pomodoro tipo “cuore di bue” marinata con olio EVO, maggiorana e basilico sul quale è adagiato salmone Red King, spolverato con scorza di limone e pepe del Madagascar e caviale e per finire il trittico, crostino di pane ai cereali con uova di quaglia in camicia, pepe del Madagascar e caviale. 

Tre piccole portate dai sapori contrastanti ma decisi, dove il caviale gioca un ruolo da protagonista, senza mai togliere o coprire i sapori dei singoli alimenti caratteristici di ogni singola portata.

Per affrontare il successivo trittico di portate, optiamo per stappare uno Spigau Crociata- Rocche del Gatto 2006, di 13,0°vol. , da vitigno Pigato, vino macerato dal colore leggermente ramato che a livello olfattivo stupisce anch’esso per immediati sentori idrocarburici, per poi virare su interessanti note balsamiche, per poi chiudere con frutta candita e una parte agrumata di cedro; in bocca è austero ma elegante allo stesso tempo e lascia una sensazione di pulizia davvero notevole. Un vino impegnativo, ancora sorretto da una bella acidità e con un corredo gustativo davvero particolare e lungamente persistente. Un vino che ha tenuto testa, senza soverchiare le ultime tre portate, partendo da vellutata di patate con zafferano e caviale, in un bel mix di dolcezza e sapidità ed a seguire linguine Masciarelli con cacio e caviale, un ottimo piatto, ma a parere di tutti il meno riuscito in quanto il cacio è risultato troppo aggressivo coprendo il caviale che quasi non si sentiva. Per finire filetto di storione su crema di pesto di zucchine, pomodori confit e caviale, davvero notevole per la qualità dello storione e per la delicatezza dei sapori.

Ultimo ma non ultimo quello che potremmo definire il “coup de coeur”, “il colpo di teatro”, il dolce e che dolce!!! 

Gelato al cioccolato dark al profumo di whisky e caviale. Non amo i dolci né tantomeno il gelato al cioccolato, ma ho dovuto ricredermi. Un abbinamento pazzesco creato dal genio culinario di William dove ha saputo far convivere il dolce del gelato con l’amaro del cioccolato, la torbatura del whisky ed il salmastro del caviale, In apparenza sensazioni gustative contrastanti e disarmoniche, ma che in bocca diventano una vera e propria goduria alimentare. Il whisky utilizzato, un Gordon & Macphail Single Malt distilleria Caol Ila annata 2004, imbottigliato nel 2013 di 46,0°vol. , dal colore oro zecchino tenue con nitidi sentori affumicati di torba, di stecca di vaniglia e sul finale una parte agrumata. In bocca, caldo, avvolgente, decisamente torbato con un retrogusto sempre agrumato. 

Siamo arrivati alla fine e senza volerlo la cena si è protratta dalle 20.30 sino alle 02:00 del giorno successivo, ma come dico sempre io quel che conta è il viaggio e non la destinazione finale e intanto la mente galoppa al 2023, quando William compirà 60 anni e allora saremo testimoni di un nuovo capitolo sensoriale e gustativo da incorniciare come questa meravigliosa serata. 







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