L’arte pittorica rinascimentale nasce a Firenze con il mecenatismo dei grandi signori del tempo e grazie a loro si sviluppa la ricerca di nuove espressioni artistiche tese alla riproduzione della corretta forma e proporzione della figura umana. E’ il periodo della ritrattistica del volto, dei minuziosi dettagli, ma allo stesso tempo, oltre alla centralità dell’uomo, viene data più attenzione alla natura che lo circonda, con i suoi paesaggi. In buona sostanza, la pittura inizia un periodo di rinnovamento o meglio ancora di rinascita verso un nuovo modello espressivo. Amo l’arte, non sono un grande esperto, ma ho i miei capisaldi nelle figure del Caravaggio e di Johannes Vermeer; il primo perché introdusse la novità assoluta dello studio del vero e l’impiego violento della luce che fu una vera e propria rottura col passato, rivoluzionando la pittura, il secondo, perché nei suoi dipinti ha sempre saputo evocare la luce attraverso sottili effetti che fanno appello alla nostra esperienza visiva, creando un senso di immediatezza fisica. La luce intesa più che mai come un senso di rinascita a tutti gli effetti. Non ho mai disdegnato, comunque, di apprezzare altri artisti rinascimentali, come ad esempio Benozzo Gozzoli, originario di Scandicci, dove nacque intorno al 1420, strettamente legato al rapporto di collaborazione con il Beato Angelico, del quale fu inizialmente discepolo ed in seguito socio di bottega, per aver condiviso lavori commissionati in quel di Firenze. Quando nel 1449 Beato Angelico è richiamato nel convento di Fiesole, Benozzo, che in quel periodo si trovava in Umbria, decise di restare e di mettersi praticamente in proprio. Una delle sue opere che ho avuto il privilegio di poter ammirare a Montefalco, in provincia di Perugia, è la pala d’altare “La Madonna della Cintola”, dipinta intorno al 1450, dove, nella parte superiore del dipinto, la Madonna, circondata da angeli, porge come prova della sua salita in cielo, la cintura a San Tommaso, il quale, non avendo assistito alla morte, alla resurrezione e all’assunzione di Maria, non volle credere a quanto gli altri apostoli gli avessero raccontato. E’ una pala di straordinaria bellezza, impreziosita nella parte inferiore da illustrazioni di episodi della vita della Vergine. Ma l’affresco più enigmatico, per gli appassionati di vino come me è datato 1451, quando il Maestro fu chiamato dai francescani di Montefalco a decorare l’abside della loro chiesa (oggi museo civico tra i più importanti del centro Italia) dove, in una scena dipinse una bottiglia di vino rosso sulla mensa imbandita del Cavaliere Celano, forse alludendo al Sagrantino, vino autoctono e pregiato di Montefalco e di pochi altri comuni limitrofi. Un vino straordinariamente apprezzato nel rinascimento tant’è che nel 1540 con un’ordinanza comunale si stabiliva la data d’inizio delle operazioni vendemmiali, data che doveva essere rispettata per non incorrere in pesanti gabelle e ancor di più, a seguito di numerose gelate, nel 1622, il Cardinale Boncompagni, Legato Pontifico di Perugia, aggravò di molto le sanzioni già stabilite nello statuto comunale di Montefalco, prevedendo la forca se qualcuno decidesse di tagliare la vite. Non si sa con certezza l’origine del vitigno Sagrantino; un primo accenno lo si trova nella “Storia Naturale” di Plinio il Vecchio, dove si parla di un’uva prodotta nel municipio di Bevagna (nell’antichità il territorio di Montefalco faceva parte del comprensorio di Bevagna), anche se si è più propensi pensare che sia stato importato dai francescani che qui venivano da ogni parte d’Italia e anche dall’estero per condurre una vita di espiazione e penitenza. Qualcuno ha ipotizzato che il nome derivi dal fatto che si bevesse nei giorni di festa, ossia nei giorni sacri anche se in tal senso non esistono prove sufficienti.
Se penso al Sagrantino, penso ad un’artista, a un Benozzo Gozzoli del vino che va sotto il nome di Paolo Bea, capostipite dell’omonima Antica Azienda Agricola, capace di dar vita a veri e propri capolavori al pari del Maestro di Scandicci.
La famiglia Bea affonda le proprie radici enologiche da almeno cinque secoli ed oggi la cantina è guidata dal figlio Giampiero che alleva le viti su 11 ettari di terreno calcareo-argilloso, alternato a strati di ghiaia. I suoi vini sono “estremi” come lo sono state le opere rinascimentali, dove il concetto “ il vino lo fa la natura” rappresenta il vero credo filosofico dell’azienda, in cui l’uomo non può permettersi di sostituirsi ai processi naturali, ma deve integrarsi nell’equilibrio dell’ecosistema. Da tutto ciò ne deriva l’unicità dei suoi vini uniti alla tradizione del Sagrantino, mai messa in discussione.
Per l’occasione, ho degustato il suo Montefalco Sagrantino “Pagliaro”, annata 2007 di 14,5° vol. bottiglia nr. 9565 di 14.100 , prodotto in un’estate secca, ma equilibrata, senza utilizzo di trattamenti sistemici, con macerazione sulle bucce di 40 giorni, nessun aggiunta di solfiti, poi 12 mesi di affinamento in inox e 28 mesi in botti grandi di rovere, con travasi senza l’uso frequente di solfiti per evitare disturbi alla salute del consumatore e preservare l’identità di origine del vino. Ma veniamo alle note di degustazione.
Stappato 6 ore prima di essere servito e versato nel bicchiere un paio d’ore prima di essere degustato, tappo integro di 5 cm.
Si presenta di un colore rosso cupo, impenetrabile con riflessi granati sull’unghia; al naso è un tripudio di frutta rossa surmatura, mora, cassis, mirtillo e prugna ed a seguire repentini profumi terziari di sottobosco, humus, terra bagnata, tostature di caffè e sul finale note di rabarbaro, ma è in bocca che dà il meglio di sé. E’ un vino che ha qualcosa di selvaggio e di bestiale, forse per via del tannino non ancora integrato completamento nonostante i 15 anni sulle spalle, ma allo stesso tempo rende tremendamente intrigante una beva a dir poco complessa e impegnativa. Decisamente un vino per palati allenati, con un’acidità tagliente che gli conferisce una bella freschezza e con un’alcolicità decisamente importante, che inaspettatamente si avverte ma non in modo tale da infastidire. Ottima la corrispondenza gusto/olfattiva con aggiunta sul finale di una decisa balsamicità e di liquirizia dolce, su di una persistenza gustativa che ha dell’eterno. E’ un cavallo di razza, ma ancora difficile da domare e che, a parer mio, avrà bisogno di ulteriori 5/10 anni per raggiungere la completa maturità. Che dire, il Sagratino avrà di certo ritemprato più e più volte, nei momenti di stanca, l’esimio pittore Benozzo Gozzoli riuscendo, nel contempo, a fornirgli quella ispirazione che l’ha portato a lasciare ai posteri vere e proprie opere d’arte come quelle summenzionate.