Il mondiale di calcio è alle porte e in assenza della Nazionale Italiana, per la seconda volta consecutiva non qualificatasi per la rassegna iridata, mi induce ad attenzionare le mie simpatie verso quella squadra che sin dall’infanzia è riuscita a suscitarmi ammirazione per un calcio rivoluzionario e per taluni suoi giocatori, veri e propri campioni. Sto parlando della Nazionale Olandese, gli “Orange”, gli artefici negli anni ‘ 70 del secolo scorso di quello che va sotto il nome di “calcio totale”, preso in prestito dal grande Ajax, i cui componenti per la maggior parte, contribuirono alla causa pedatoria olandese.

Tra di essi un vero fuoriclasse, probabilmente il mio primo mito calcistico, ancor prima (da buon rossonero) di Gianni Rivera, capitano della prima stella milanista, mi riferisco a Johan Cruijff, che annovero nella top five dei migliori giocatori di calcio di tutti i tempi.

Superfluo e limitante parlare delle sue gesta, dei trofei calcistici conquistati a livello personale e di squadra, ma vorrei soffermarmi su un numero che ha contrassegnato la sua vita e l’intera carriera di questo meraviglioso giocatore: il 14!!

Nacque nel 1947 alle ore 14:00, abitava a Viknkeeven (provincia di Hutrecht) nel quartiere di Scholeksteriann al civico 14, guidava un auto targata 14-14-TS e il suo numero di telefono terminava con il 14 e addirittura se sommiamo le cifre della sua data di nascita e della sua morte otteniamo 14 (25/04/1947 + 24/03/2016) 2+5 +4 + 1 + 9 + 4 +7 = 32 e 2+4+3+2+1+6= 18 ovvero 3+2+1+8= 14. Un numero forse come un altro, ma su un rettangolo verde, a quel tempo era un numero che raramente si vedeva se non per i panchinari che subentravano a partita in corso. Ebbene sì, la magia di Cruijff sta anche nel numero di maglia che indossava, davvero strano per l’epoca dove i titolari gareggiavano con l’1 partendo dal portiere per arrivare all’11, ossia all’ala. Il giorno in cui indossò per la prima volta la maglia n., 14 fu il 30 ottobre 1970; ancora oggi non si sa bene quale sia la versione ufficiale, forse fu colpa di Gerrie Muhren, suo compagno di squadra che confessò di aver smarrito la sua casacca prima della partita tra Ajax e Psv Eindoven, Cruijff gli cedette la sua nr. 9 e si impossessò della 14, o forse l’Ajax in quell’anno decise di introdurre la numerazione fissa e Johan, rientrando da un infortunio, trovò libero unicamente il nr. 14 o ancora, qualcuno sostiene che fu proprio Cruijff a non trovare più la sua nr. 9 e nel conciliabolo pre-partita raccolse dal cesto la maglia con il nuovo numero. Inutile dire come finì quella partita, ma sta di fatto che da quel momento quel numero non lo abbandonò più e quella partita fu l’inizio di qualcosa mai visto prima, un calcio avveniristico come furono avveniristici quei tempi tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 segnati dalla sbarco lunare, da futuristici film come il capolavoro di Stanley Kubrick “2001 Odissea nello Spazio” e nel mondo calcistico dal binomio Cruijff/Michels, il giocatore e l’allenatore, prima nell’Ajax e poi nella Nazionale Olandese, che spazzarono via le barricate centenarie di uno sport con una velocità talmente virale assimilabile ad un sorta di onda tsunamica arancione, inarrestabile e travolgente al punto tale da immolare sull’altare degli onori quel ragazzo (Johan Cruijff) che in breve tempo sarebbe diventato un vero e proprio profeta, “il profeta del goal”. 

Ho da sempre una predilezione per la numerologia e per quella branca dell’esoterismo che attribuisce ai numeri non solo un valore meramente quantitativo e matematico, ma anche soprattutto una qualità, mettendoli in relazione con aspetti della natura e degli esseri umani. 

Il numero che mi porto dietro dall’infanzia è il 7, il numero della completezza dato dal 3 (la Trinità) e dal 4 (gli elementi naturali, terra, aria fuoco, acqua). 

Il numero karmico quattordici rappresenta la libertà, l’esplorazione e il costante cambiamento e se lo rapportiamo al numero di Cruijff calza davvero a pennello, visto il radicale cambiamento nel gioco del calcio che l’asso olandese riuscì ad imprimere con la collaborazione dei suoi compagni di squadra. 

Quel numero è talmente magico che lo ritroviamo anche in altri ambiti e mi riferisco ad una landa francese in cui si alleva il vitigno Chardonnay, dal quale vengono prodotti vini che possono definirsi dei veri fuoriclasse; mi riferisco a Chablis.

I vigneti in collina con le migliori esposizioni sono classificati Chablis Premier Cru, 780 ettari vitati, che rappresentano il 14% della denominazione e Grand Cru, 101 ettari, l’1%. Tra l’altro, caso strano, nonostante esistano 40 vigneti appartenenti alla denominazione Chablis Premier Cru, solamente 14 di questi sono considerati di maggior prestigio: Beauroy,Cote de Lechet, Fourchaume,Forets, Les Fourneaux, Les Beauregards, Mèlinotes, Montèpe de Tonnerre, Montmains, Monts de Milieu, Vaillons, Vaucoupin, Vaudevay e Vosgros. 

Al pari del fuoriclasse calcistico, i vignerons di Chablis sono profeti in patria, perché pur dovendo affrontare un clima davvero mutevole, riescono a dar vita a veri e propri miracoli naturali, nonostante durante la stagione meno fredda i vigneti ricevono sole e pioggia in quantità diverse, mentre nei periodi più freddi, il rischio di gelate è praticamente continuo. Soprattutto in primavera, quando le piante tornano a vivere dopo il letargo invernale e i viticoltori si ritrovano spesso, durante la notte, ad accendere stufe per riscaldare i propri vigneti, onde evitare che i germogli possano gelare. 

E nonostante tutto, sanno creare uno dei migliori vini bianchi al mondo. 

Estremamente affascinato da tutto ciò, non posso fare a meno di scendere in cantina, appropriandomi di una bottiglia di Chablis del Domaine Louis Michel et Fils, più precisamente uno Chablis Grand Cru “Le Clos” annata 2011 di 13,0 vol. acquistato direttamente alla cave nella mia visita datata aprile 2013. 

Diretta da Guillaume Michel, questa tenuta fondata nel 1850 ha sempre sostenuto Chablis molto puri e molto puliti, senza l'uso del legno. Discreti nella loro giovinezza, questi Chardonnay sono costruiti per evolversi per dieci o vent'anni in bottiglia. La tenuta sviluppa uno stile di Chardonnay abbastanza diretto nell'espressione del frutto, a volte fin troppo rigoroso e con note vegetali. 25 ettari vitati a Chardonnay, età delle vigne 50 anni, vendemmia manuale e 140000 bottiglie prodotte all’anno. 

Ma veniamo alla degustazione.

Si presenta nel bicchiere di color oro antico tenue; al naso è decisamente espressivo con iniziali sensazioni fruttate di matrice citrina, lime e pompelmo e a seguire mela verde, per poi virare verso una sottile nuance vanigliata, che ben presto viene offuscata da nitidi sentori di erbe aromatiche, per poi propendere, sul finale, in una chiara sensazione salmastra di ostriche e di pietra bagnata.

In bocca è verticale, caratterizzato da purezza aromatica e precisione, sostenuto da una spalla acida e da una sapidità in bella evidenza; il corollario gustativo è di pura eccezione, dove i rimandi fruttati amplificano la cavità orale e le papille gustative sollecitate e solleticate da una persistenza davvero lunga e sul finale un retrogusto inaspettato di mandorla amara che lo caratterizza e non poco. Uno Chablis figlio della tradizione, per certi versi aristocratico ed elegante allo stesso tempo, ma che incarna una certa dose di imprevedibilità, come le finte del fuoriclasse olandese.  

Felice di averlo stappato in ricordo di Johan Cruijff, indimenticato campione e del suo numero di maglia, davvero davvero magico.


p.s.//   Rileggendo il testo mi sono accorto che il nr, 14 compare 14 volte……un caso???