…Black night, black night,
I don’t need black night,
I can’t see dark night….
(Black night- LP Deep Purple: In Rock 1970)
Per quelli come me, che musicalmente si sono fermati agli anni ’70, periodo d’oro ed irripetibile marcato da vere e proprie rivoluzioni musicali che avrebbero segnato inevitabilmente il futuro generazionale di ogni artista, due sono le band caposaldo che troneggiano su tutte le altre, i mistici e sperimentali Led Zeppelin e i Deep Purple, l’equilibrio perfetto fra un suono grezzo e partiture raffinate.
Quest’ultimi, composti tra gli altri da un paio di componenti di elevata preparazione classica, il tastierista Jon Lord e il talentuoso chitarrista Ritchie Blackmore, uniti a Roger Glover al basso, a un genio della batteria, Ian Paice e all’eclettico vocalist Ian Gillan, dotato di un estensione vocale fuori dal comune, diedero vita nel 1970 a un disco manifesto dell’hard-rock, diventato pietra miliare e autentico “totem” immancabile, imperdibile e irrinunciabile per gli appassionati. Una sorta di opera iniziatica alla quale ogni fedele adepto non può rinunciare, né tantomeno sottrarsi, quasi fosse un lasciapassare, un ideale stargate per entrare in una nuova dimensione, una linea di demarcazione tra “il prima” e “il dopo” musicale. Deep Purple- In Rock, è emblematico ed ispiratore a cominciare dalla copertina, che ha fatto epoca, raffigurante un simil Monte Rushmore, dove scolpiti nella pietra, anziché i volti dei presidenti americani, campeggiano i componenti della band, quasi a voler certificare che con questo disco volessero scolpire il loro nome e i loro volti come una sorta di imperitura memoria che, unita alle conoscenze musicali, alla verve rivoluzionaria ed al talento dei suoi esponenti, partorirono una musica che potremmo definire “rocciosa”, aggressiva, sfrontata ed “hard”, dove dura sta a mio parere come fatta per durare. Ed è proprio, così, visto che dopo oltre 50 anni è ancora lì, granitica, solida e soprattutto incurante del tempo e delle mode che passano, proprio come le rocce, attraversate dalle stagioni, dagli agenti atmosferici, ma sono ferme, imperscrutabili, misteriose e segrete. L’album raggiunse la vetta delle classifiche britanniche, ma la sua influenza si estese e continua ancora oggi ad aprire sound a nuovi sottogeneri musicali.
Il reef riportato all’inizio del testo è tratto dal brano “Black Night”, singolo che venne incluso nella versione del 25° anniversario dell’uscita dell’album ed a giusta ragione in quanto rappresenta un monologo interiore, sullo sfondo di una notte scura, dove il protagonista cerca di affermarsi sentendosi libero di essere com’è, intraprendendo un viaggio per comprendersi, anche se lontano da casa. Un viaggio di conoscenza e di ricerca di quella luce che si contrappone con forza alla notta buia.
Ecco cosa sono i Deep Purple, roccia e luce, solidità e vita.
Ci sono vini che incarnano questi due concetti e quando ti imbatti in uno di loro non puoi fare a meno di fermarti in una contemplazione degustativa davvero unica, rallegrandoti interiormente per aver avuto la fortuna di incontrarli.
Mi è successo dando ascolto a un enotecario di lungo corso della Val di Fassa (Dolomiti), che dopo un abbrivo iniziale un po’ in sordina è proseguito con uno slancio enoico e passionale al punto dal concretizzarsi con la comparsa, quasi mistica e magica di una bottiglia iconica a partire dall’etichetta, sobria ed a tratti inusuale, con i margini superiori ritagliati a mo’ di creste dolomitiche.
La prendo in mano e leggo “Vigneti delle Dolomiti I.g.t. Bianco 2021da viticoltura sostenibile ottenuto da viti resistenti WHITE ROCK un dono di natura e purezza fatto al pianeta e all’umanità tutta”.
Innanzitutto è un vino che nasce da uve autoctone Bronner, Solaris e Muscaris, vinificate con pressatura soffice, con una fermentazione in acciaio e una maturazione in vasca per 5 mesi.
E’ definito vino Piwi i cui vitigni sono più resistenti ai nemici della vigna: oidio, botrite, ma anche temperature rigide e piogge abbondanti. Tutto ciò, come descritto in etichetta, lo rende più sostenibile in quanto si riduce la necessità interventistica in vigna relativamente ai trattamenti. La produzione Piwi richiede minor utilizzo di macchinari, acqua e carburante consentendo di risparmiare risorse ed energia per un pianeta più sostenibile.
Questo tipo di coltivazione in Trentino viene definita “eroica” poiché le viti resistenti crescono aggrappate alle rocce in alta montagna, in un ambiente incontaminato, dove ogni operazione di viticoltura e di raccolta sono estremamente difficili e manuali. Da qui il nome White Rock.
L’azienda Vivallis, nata nel lontano 1908, raccoglie e trasforma le uve provenienti da oltre 800 ettari di vigneti, posti in zone altamente vocate e coltivati da ben 850 soci guidati da un team tecnico di agronomi ed enologi che vogliono essere la vera espressione enologica della Vallegarina.
Veniamo alla degustazione. Tappo di 4.5 cm sano ma abbastanza anonimo, versato nell’apposito bicchiere si presenta di un bel colore giallo paglierino limpidissimo e luminoso; al naso, un’iniziale nuance floreale di sambuco e glicine, lascia ben presto ad una matrice fruttata con netti sentori di pompelmo bianco e uva spina e sul finale un retronasale di erbe aromatiche, di melissa e un tocco di noce moscata.
In bocca si contraddistingue con la classica freschezza dei vini di montagna, è pulito e sostenuto da una bella acidità che lo contraddistingue. E’ ampio al palato e il corredo aromatico è simbiotico con quello olfattivo.
Persistente quanto basta, richiede un immediato secondo sorso. Bevendolo non puoi non associarlo alla luce, al candore delle vette innevate, alla maestosità delle rocce dolomitiche.
Un vino che rispecchia una naturalità ed un’inaspettata vitalità, associata ad una solidità granitica come le montagne in cui viene prodotto, un vino d’antan quasi rivoluzionario, come lo furono i giganti del rock.