Nota bene: su richiesta espressa di Aubert de Villaine non vengono pubblicate fotografie inerenti al Domaine.
Quando nel 1999 iniziò la passione per il mondo del vino, che ancora oggi è viva più che mai, non avremmo mai immaginato che un giorno saremmo riusciti nell’impresa di poter visitare la più importante azienda vinicola al mondo, ovvero il Domaine de la Romanèe-Conti. Una visita corredata dall’incontro con il co-proprietario Aubert de Villaine e con lo chef de cave Bernard Noblet (ora ritiratosi in meritata pensione).
E’ superfluo dare qualsiasi spiegazione su questo Domaine che ogni appassionato di vino conosce perfettamente.
Ancora oggi fatico a credere che 3 appassionati come noi siano riusciti ad arrivare così in alto, tanto è vero che ricordo con un po’ di emozione e con una vena nostalgica l’attesa snervante di una risposta alla nostra richiesta di visita, che nel giro di una quindicina di giorni, si è tramutata in una splendida realtà, capace di farmi sobbalzare dalla sedia, travolto da una improvvisa e debordante felicità che, per qualche istante, è stata capace di togliermi il fiato. Adrenalina pura che mi ha pervaso le vene e la mente ha galoppato sin da subito ad immaginarne la visita, forse per un milione di volte.
Siamo a Vosne-Romanèe, nella Cote d’Or, villaggio divenuto leggendario grazie ad un piccolo vigneto di 1,8 ettari vitato a pinot noir che ha creato, nel tempo, le fortune di tanti altri produttori. Il nome del vigneto è il leggendario Romanèe-Conti.
Chi si approccia al Domaine de la Romanèe-Conti non deve pensare, a livello architettonico, di trovarsi al cospetto di una residenza fastosa al pari dei magnifici chateaux bordolesi, né tanto meno ricercarne la scritta a caratteri cubitali delle più rinomate maisons in Champagne. Adiacente alla piccola chiesa centrale del paese, un anonimo cancello con un semplice citofono indicante una minuscola scritta: “Societè Civile Domaine de la Romanèè-Conti” ci separa da una costruzione di dimensioni ridotte, pulita, sobria ed efficace allo stesso tempo. Anche in questo si intravede la grandezza di un domaine che non ha bisogno di ostentazioni, incurante di qualsiasi indicazione pubblicitaria; se hai passione la strada te la indica il cuore. Alle 10.00 in punto del 22 aprile 2013 (per noi data storica) entriamo in una corte lastricata con ghiaia finissima ed al centro una statua di una vittoria alata, linda ed affascinante. Ci accoglie con un suadente savoir-faire una donna sulla trentina, ben vestita e ben curata, dai tratti delicati, che ci prega gentilmente di accomodarci in una sala attigua in attesa di altre 3 persone che faranno visita con noi. Sto coronando il sogno di una vita e nonostante lo stia vivendo, quasi stento a crederci, mi sembra di vivere in un’altra dimensione, quasi irreale. Dopo una decina di minuti ci raggiungono 3 americani, una coppia di colore originaria di Miami con al seguito un accompagnatore di conoscenza del domaine. Facciamo subito amicizia. A seguire giunge il padrone di casa, monsieur Aubert de Villaine. E’ un grande privilegio poter colloquiare con lui facendoci guidare nella visita; pur speranzosi, non ci eravamo fatte grosse illusioni, pensando che un collaboratore avrebbe assolto il compito di guidare ed istruire tre appassionati italiani. L’inizio è qualcosa di veramente emozionante, in quanto il de Villaine rappresenta più di un personaggio famoso a livello enologico, di sicuro un fervido esempio da imitare e seguire per la lungimiranza e per l’esperienza nel settore, oserei dire un punto cardine della viticoltura borgognona e mondiale. Estremamente gentile e conviviale, ci da professionalmente il benvenuto senza alcun tipo di ostentazione e ci pone nelle mani un calice da degustazione. Monsieur de Villaine, che si destreggia egregiamente anche con l’inglese, ci avverte che potrà rimanere con noi per una quarantina di minuti, perché impegnato in seguito con un appuntamento di lavoro, lasciando il posto allo chef de cave Bernard Noblet, che continuerà la visita sino al suo epilogo. Usciamo dal corpo centrale dell’abitato dirigendoci verso un’altra struttura nella quale entriamo tramite un’anonima porta di legno. Ci viene aperta e scendendo una quindicina di scalini ci immettiamo nella cantina, talmente bramata da spiazzarci alla sola vista. E’ una cave estremamente semplice, con allineati una serie di tonneau da 225 litri contenenti i migliori vini al mondo. Leggiamo a chiare lettere marchiate a fuoco sulle botti i nomi di Romanèe-Conti e La Tache e la degustazione inizia proprio da lì. Vorrei tempestare di domande il nostro padrone di casa, ma l’emozione di trovarmi nella condizione di poter degustare vini che ho sempre mitizzato e che definirei immortali, mi paralizza le corde vocali e momentaneamente preferisco rimanere attento ad ascoltare le parole proferite in parte sulla storia ed in parte sull’evoluzione dei vini. Quello che stupisce e che aumenta la stima che nutro per quest’uomo e che nel suo incedere, sempre misurato, non magnifichi mai i propri vini, né tanto meno esalti a tutti costi il domaine, ma in lui traspare sempre l’orgoglio e la passione per il terroir, la vigna ed i vini prodotti, che sente come propri figli senza fare distinzioni, non prediligendo un’annata in particolare ma specificandone le diverse caratteristiche per poterne cogliere anche le più sottili sfumature. Presa la pipitre ed usata con dovizia, viene pescato direttamente dalla botte il La Tache 2012 che ci viene servito nel bicchiere da degustazione ed apertosi, già dai primi profumi hai la sensazione di approcciarti ad un vino fuori dal comune. Avvicinando lentamente il naso al bicchiere, si resta pervasi da una sensazione molto forte, difficile da descrivere. Avverto come un’esplosione di profumi intensissimi di piccola frutta rossa, matura. Non ancora messo in bottiglia, ha già una morbidezza ed una rotondità entusiasmante. E’ allo stato attuale un vino che ho trovato molto femminile, al pari di una gran dame, sì voluttuosa ma allo stesso tempo dotata di una personalità spiccata, tale da influenzarti sin dal primo sorso. Lasciati senza parole dalla degustazione del La Tache ed ammaliati dal nostro interlocutore vero e proprio gentleman del vino, nonché estremo conoscitore del pinot noir, continuiamo il nostro percorso, quasi irreale, con l’assaggio del Romanèe-Conti 2012. Descrivere un capolavoro assoluto è impresa assai ardua ed ogni singola parola potrebbe essere riduttiva. Ci troviamo di fronte ad un’eccellenza mondiale a cominciare dal colore di un bel rosso rubino intenso ma non impenetrabile, limpido senza sbavature sull’unghia; inizialmente un po’ chiuso (quasi l’avessimo disturbato nel suo lento e dolce riposo), in brevi attimi rilascia profumi intensi ma delicati che iniziano ricordando la frutta rossa, virano dopo poco a sentori di piccoli frutti neri ed a seguire nuances di lievi tostature, impreziosite da accenni di spezie dolci. In bocca è qualcosa di indescrivibile! Ho avuto come la sensazione di aver bevuto il vero vino per la prima volta nella mia vita, un elisir di giovinezza con una pulizia in bocca veramente impressionante, accompagnato da tannini setosi e da una persistenza aromatica eterna. Rappresenta quello che potremmo definire il punto di non ritorno, ovvero superatolo, si resta come immersi in un oblio catartico di eterno appagamento, tale da non desiderare il ripristino della realtà. Centelliniamo ogni sorso di Romanèe-Conti annata 2012 a tal punto che intimamente vorremmo che il vino non sparisse mai dal bicchiere e che miracolosamente riappaia come fosse una fonte inesauribile, ma purtroppo è impossibile e la magia scompare in breve tempo. Staremmo molto volentieri, per ore ed ore, ad ascoltare monsieur de Villaine, che conversando, ad una mia specifica domanda, mi conferma di aver degustato annate di Romanèe-Conti prima che venisse completamente trapiantato nel 1947 causa fillossera e le sensazioni gustative, con le radici a piede franco, assumono dei connotati e delle caratteristiche differenti dal vino prodotto oggigiorno. Purtroppo il dovere viene prima di tutto e ben presto il padrone di casa ci deve lasciare, affidandoci alle sapienti mani dello chef de cave Bernard Noblet. Prima di abbandonarci, approfittiamo della sua grande disponibilità per strappargli alcune fotografie insieme (vds foto), facendoci autografare nel contempo 3 cartoline acquistate il giorno prima a Beaune raffiguranti il vigneto di Romanèe-Conti, che in seguito, saranno vergate anche dal buon Bernard. Ci raccomanda allo chef de cave dicendogli che noi, siamo gli italiani dotati di una smisurata passione per il vino e all’udire quelle parole mi sono sentito così orgoglioso e rispettato, tanto che, spesso, mi ritornano alla mente e fanno fatica ad andarsene, come se il ricordo fosse ancora lì, presente. Penso che avremo per sempre un un’altissima opinione di monsieur Aubert, un vero e proprio signore, dai modi garbati, dotato di grande competenza in materia e allo stesso tempo di una dialettica tale, da lasciare all’interlocutore un certo alone di mistero che aleggia sulla qualità impressionante dell’intera gamma dei vini prodotti. Quello che comunque traspare in modo evidente è che nulla è lasciato al caso, che anche il più piccolo dettaglio non sia sottovalutato e che il rispetto per la natura sia alla base di tutto. Pur ritenendosi molto fortunato ad avere un terroir strepitoso che ne facilita la qualità, ci tiene a sottolineare che alla base di tutto è il lavoro rispettoso dell’uomo, quel traid-union imprescindibile che fa da collante tra la vigna e il prodotto finale. Con nostra grande felicità, le degustazioni continuano. Ci trasferiamo in un’altra cantina, in compagnia dello chef de cave, col quale, lungo il tragitto intavoliamo un discorso di comparazione tra i diversi climats e terroirs francesi e italiani e le similitudini tra la Borgogna e le Langhe, che Noblet ha visitato alcuni anni fa. Bernard Noblet, collabora al domaine da 35 anni, prima di lui, il padre, che si è ritirato dall’attività a 84 anni. E’ un uomo corpulento, dall’andatura incerta, probabilmente a causa di qualche malanno fisico. Di poche parole, professionale, molto equilibrato, allo stesso tempo semplice, diretto, con pochi fronzoli, ma dotato di estrema sensibilità olfattiva e gustativa. La cantina, costruita circa 300 anni fa, può contenere 300.000 bottiglie suddivise tra l’intera gamma di produzione. Ci accomodiamo in un’ampia sala di degustazione, dove, in un angolo, compare un cancello in ferro battuto delimitante quella che per definizione è detta “cave du tresor” ovvero la cella contenente la riserva famigliare dei proprietari del domaine. Ci avviciniamo e ai nostri occhi compaiono bottiglie datate 1911/1923/1925/1929/1952 etc… vere e proprie opere d’arte dal valore inestimabile, che qualcuno avrà la fortuna di poter degustare. Dal 1978, per ogni annata, i proprietari si tengono una scorta personale di almeno 50 bottiglie e all’interno di essa è custodita gelosamente la bottiglia più antica della proprietà, ovvero un Richebourg annata 1911. Conversando, lo chef ci dice che, in compagnia di Monsieur de Villaine, ha avuto il privilegio nel 2012 di degustarne una trovandola ancora estremamente viva; una bottiglia che è rimasta coricata per 100 anni, immobile al trascorrere del tempo e degli eventi e che stappata è come si fosse risvegliata da un lungo letargo, mantenendo un’inalterata giovinezza. Pur essendo di poche parole, ci vuole sorprendere con tre degustazioni epiche, per certi versi intriganti, visto che lascia a noi l’arduo compito di indovinarne vino ed annata. Si parte con un Grand-Echezeaux annata 1999, dal colore rubino mediamente più carico, puro cavallo di razza, splendidamente profumato, con sentori iniziali di frutta rossa che virano ai petali di rosa e a nuances finemente mentolate. In bocca si rivela estremamente giovane, fresco, giusta acidità e persistenza aromatica davvero lunga. E’ un vino che non tradisce e che ha davanti a sé tanta vita, pur essendo bevibile da subito. Ancora più entusiasmante è il secondo Grand-Echezeaux annata 1990, semplicemente grandioso. Profumi accesi di ciliegia marasca alternati a piccoli frutti neri, in bocca è sontuoso, fresco, armonico con una rotondità ed una finezza tannica che colpisce, equilibrato e con una mineralità che lo impreziosisce, per non parlare della persistenza aromatica estremamente lunga. Personalmente, per assurdo l’ho trovato ancora più giovanile del 1999. Ci stiamo imbattendo in vini che sbalordiscono per la pulizia e la loro estrema giovinezza, nonostante si parli di annate che hanno sulle spalle dai 14 ai 23 anni e tra l’altro ti lasciano la netta sensazione che possano tranquillamente resistere per decenni. Come ultimo cadeau di una giornata che passerà alla storia, la nostra, chef Bernard ci vuole stupire con un bianco e che bianco. E’ un Batard Montrachet Grand Cru annata 2007 prodotto ad uso e consumo dei proprietari, dal colore oro fino ed al naso con sentori iniziali di mela cotogna, per virare quasi subito su nuances floreali, ma è in bocca che diventa una meraviglia con la sua acidità perfetta, la notevole struttura, l’estrema pulizia, la ricchezza aromatica, la cremosità mai stucchevole e con una vena minerale che lo attraversa donandogli eleganza e finezza allo stesso tempo. In poche parole un grandissimo vino bianco, anzi il miglior bianco della mia vita ! Siamo all’epilogo di una visita perfetta, agognata da una vita e come sempre, volata via in breve tempo, ma con la consapevolezza di averla vissuta pienamente, cercando di gustarne anche il più insignificante particolare. Ci sentiamo vivi, pervasi da una soddisfazione indescrivibile. Usciamo dalla cantina e ci riportiamo all’interno della corte, di fronte alla statua della vittoria alata che ci guarda e sembra quasi compiacersi della nostra impresa. Il tempo di salutare gli americani e più calorosamente lo chef de cave, che tiene in mano, gelosamente, i tappi e le ultime tre bottiglie degustate contenenti ancora qualche centilitro di prezioso vino e poi ci dirigiamo verso l’uscita. Per un istante ho come l’istinto di non chiudere il cancello di entrata perché in quel momento è come se rappresentasse un ideale stargate che ci ha dato la possibilità di visitare un mondo nuovo, fantastico e chiuderlo significherebbe ritornare alla realtà. Guardo negli occhi i miei compagni, tiro un sospiro di rassegnazione e poi….inevitabilmente chiudo. Paolo ed io ci abbracciamo e quel gesto, che dice più di mille parole, descrive il nostro stato d’animo, il coronamento di un sogno che sembrava impossibile.