….Passa una mano qui, così
Sopra I miei lividi
Ma come piove bene sugl'impermeabili
E non sull'anima….
(Paolo Conte- “Gli impermeabili”-1984)
Sono cresciuto musicalmente (grazie a mio fratello maggiore) a pane e Hard-Rock e a volte faccio fatica a comprendere come possa stravedere per Paolo Conte, probabilmente il più grande innovatore tra i cantautori italiani. Due correnti musicali diametralmente opposte che esplicitano fortemente quella che potremmo definire, secondo Eraclito, la dottrina dei contrari. Il filosofo greco sosteneva che la legge segreta del mondo risiede proprio nella stretta connessione dei contrari che in quanto opposti, lottano fra di loro, ma nello stesso tempo non possono fare a meno l’uno dell’altro, dato che vivono solo l’uno in virtù dell’altro. Difficile poter trasferire questo concetto in chiave moderna su quelli che potremmo definire due estremi melodici, ma di sicuro molto facile sostenere che non ho mezze misure nelle scelte che accompagnano la mia vita. Per me è da sempre o bianco o nero, due colori estremi ma decisi, non sopporto il grigio, un colore intermedio, acromatico, un colore “senza colore”, perché può essere composto da bianco e nero. Il grigio è il colore dell’indecisione o ancora peggio dell’attendismo, che alla lunga diventa opportunismo. Ho sempre scelto la coerenza, cercando di non scendere mai a compromessi e questo mio modo d’essere mi ha portato, nel tempo, a raccogliere meno di quanto avessi seminato e soprattutto a riempirmi di lividi che mi hanno segnato l’anima, a volte intensi quanto una porcellana andata in frantumi. Ci vuole coraggio a mantenere quello che pensi. Ho guarito i lividi dell’anima, anche se le cicatrici restano e ti rimangono dentro e meno male, perché sono li come tatuaggi tribali, come talismani contro i demoni interiori.
Paolo Conte, astigiano di nascita, geniale chansonnier, musicista poliedrico, poeta e pittore, ha la capacità di imprimere sulla carta testi attualissimi che raccontano con discrezione la realtà, ma soprattutto le sue canzoni (riduttivo chiamarle in questo modo) sono quasi sempre una sorta di cortometraggio cinematografico, dove ci si identifica e ti inducono quasi sempre a riflettere. Quanto vorrei essere bravo come lui a scrivere!
I versi riportati all’inizio della recensione sono uno spaccato della canzone “Gli impermeabili” del 1984, dove pur in un cointesto diametralmente opposto al tema svolto dal cantautore piemontese, mi ci ritrovo.
La vita ti mette davanti a prove che ti presentano il conto e sono continue come l’intensità della pioggia che ti colpisce incessantemente, ma l’anima, quella non si bagna e il desiderio di rinascere e ricominciare non viene scalfitto.
C’è un altro piemontese, istrionico e testardo che, senza mezze misure né compromessi, per non essere “sconfitto dalla vita” (come dice lui) è andato avanti sulla propria strada portando alla ribalta un territorio, ma soprattutto un gran vino: il territorio, i Colli Tortonesi, il vino, il Timorasso, l’uomo Walter Massa. Si è sempre definito “un proletario del vino” al pari del più noto conterraneo, quel Pellizza da Volpedo, pittore, autore del famoso quadro “Quarto Stato”, divenuto simbolo della questione operaia.
Un vignaiolo rivoluzionario, ma coerente nel suo incedere per la valorizzazione di un vitigno dimenticato, a discapito del più prolifico ma meno qualitativo Cortese, tra l’altro, come dice lui non adatto ad essere allevato nel Tortonese.
Diretto, senza peli sulla lingua, poco diplomatico, non si è mai attirato le simpatie dei suoi conterranei, definiti da lui stesso “piemontesi per caso, sembrano davanti perché stanno per essere doppiati, ma si sono fermati agli anni ’60.”
Massa, negli anni è stato travolto da “una pioggia incessante” ma ha conservato quell’animus pugnandi che l’ha catapultato nel gotha enologico, ottenendo rispetto e diventando un punto di riferimento per i giovani vignaioli, non solo del suo territorio, ma dell’Italia intera.
Sono andato a visitarlo due volte, la seconda a distanza di 10 anni dalla prima, ed in entrambe il tempo era uggioso, piovoso di quella pioggia sottile, ma incessante che ti tramortisce come le prove della vita ma che non ti mette al tappeto, perché l’anima tende sempre a rinascere, così come è rinata questa uva bianca autoctona agli inizi degli anni ’80, quando Massa ne intuì le potenzialità ed insistette caparbiamente a coltivarla e a sperimentare tecniche diverse in cantina.
La riprova sono le etichette prodotte dall’eclittico vignaiolo tortonese e scendendo in cantina, ho voluto omaggiarlo stappando il Timorasso “Montecitorio” annata 2016 di 14,5° vol. ; un vino che ha dell’evocativo con un nome “Montecitorio” che, escludendo la toponomastica della vigna in cui viene prodotto, non può non ricordarmi la sede della Camera dei Deputati e di una politica spesso piena di compromessi e questa bottiglia ne esorcizza la sua peggiore accezione ricordandoci di rifuggire tali comportamenti e nel caso specifico un inno alla qualità e alla coerenza di un vino fatto nel modo più naturale possibile. Ma veniamo alla degustazione di questo vino prodotto con frutto proveniente dal Cru Montecitorio esposto a est, dove le uve maturano lentamente e vengono raccolte a stagione inoltrata. Macerazione a freddo con le bucce per circa 60 ore prima della fermentazione, fermentazione spontanea, affinamento per 12 mesi sui lieviti in vasche di acciaio inox.: stappato 1 ora prima di essere servito, tappo Stelvin, questo Timorasso, conosciuto ormai in tutta Italia sotto la denominazione Derthona, si presenta cromaticamente di un bellissimo color oro antico limpido e brillante con leggerissime velature appena accennate; versato nell’ampio balloon, non occorre avvicinarsi più di tanto perché è il vino che viene a mostrarsi con una soave brezza fruttata di ananas maturo, di pesca melba e a seguire composta di mele; lasciato ulteriormente ossigenare emergono chiari sentori minerali e sbuffi balsamici di matrici mentolate.
In bocca, entra con un’ampiezza di sicura personalità, sorretto da una freschezza e da un’acidità da manuale, dove i rimandi fruttati già avvertiti all’olfatto, trovano la giusta dimora in compagnia di una decisa sapidità e sul finale emergono leggere note amarognole che riprendono il carattere speziato di questo vino. 14,5° vol. di alcool si avvertono (per dirla alla Vasco Rossi) come un brivido che vola via, in equilibrio sopra la follia geniale di un artigiano visionario.
Degustando questo Timorasso, rivedo in Massa la genialità di Conte ed in questo caso dovrei dire: “Quanto vorrei essere bravo come lui a fare vino!” e allora mi vengono alla mente le sue parole in cui mi disse che per poter fare vini buoni occorrono tre ingredienti: l’uva, il tempo e il buon senso…. e intanto, mentre scrivo, riascolto in sottofondo “Gli impermeabili”…..
“…..e ricomincerà…
come da un rendez-vous….
Parlando piano tra noi due….
Questo è l’inizio della mia rinascita, il giorno che mi ha salvato la vita. Non si è felici in base a dove siamo, ma in base a dove stiamo andando….. ma questa è un’altra storia……….