“ Bevo Champagne solo in due occasioni: quando sono innamorata e quando non lo sono….”

Coco Chanel


Ho sempre pensato che, nel corso della storia, ci siano state persone che siano entrate in contatto con alieni la cui tecnologia avanzata avrebbe ispirato il loro genio, al punto di essere trasformati in viaggiatori nel tempo, andando nel futuro e riuscendo poi a tornare indietro. Forse, più semplicemente erano degli autentici visionari, con un innato spirito di osservazione e di immaginazione fuori dal comune, capaci di scrutare a fondo il futuro anticipandolo al punto da rendere straordinario quello che oggi appare assoluta normalità. Persone a volte incomprese o nella peggior ipotesi addirittura perseguitate, ma anche idolatrate sino a diventare miti immortali.

Non sono un esperto di moda ed è molto probabile che non sappia adeguarmi  seguendo i dettami stilistici più in voga in ogni stagione, ma nonostante ciò, ho da sempre ammirazione per una donna  che cambiò il modo di vestirsi, ridefinendo il concetto di femminilità ed eleganza e che, a mio modo di pensare, rientra nella categoria di quelle menti geniali anticipatrici del futuro.

Gabrielle Bonheur Chanel (1883-1971), nel mondo conosciuta come Coco Chanel, rivoluzionò il settore moda del XX secolo, fondando l’omonima Maison, ma soprattutto insegnò al mondo femminile a vestirsi in modo più libero, facendole sentire più donne. 

Una donna eccezionale che ha saputo creare nell’accessorio, un’opera d’arte senza uguali, un evergreen che resiste al tempo, alle mode, all’evoluzione generazionale, quel “Chanel nr.5”, fuoriuscito dall’alchimia olfattiva di un campo di rose di maggio e dalle essenze di tal Ernest Beaux, il più grande profumiere al mondo. 80 ingredienti che nel 1921 scelse di mescolare nel bouquet originale del profumo contenente migliaia di fiori di gelsomino e dozzine di rose coltivate esclusivamente a Grasse, con la collaborazione della famiglia Mul, storica produttrice locale di fiori e partner di Chanel dal 1987. Non solo. In un istante Chanel spazzò via le pompose ed opulente bottiglie di Lalique (famoso mastro vetraio del XIX° secolo) progettando un flacone minimalista, di forma piatta, simile a quella di una fiaschetta, con un vetro limpidissimo dove il colore ambrato del profumo potesse prendersi la scena e in più comoda e pratica da portare in borsa e nel proprio kit da viaggio. 

Si narra che Beuax trovò l’ispirazione per crearlo al Circolo polare artico durante il solstizio d’inverno e che il numero cinque sia legato alla scelta della stilista che optò per la quinta boccetta tra quelle proposte da Ernest. In quel lontano 1921, nel sceglierla, Mademoiselle Coco avrebbe sentenziato: “Presento le mie collezioni il 5 maggio, il quinto giorno del quinto mese dell’anno, lascerò che questo numero gli porti fortuna”.

Coco Chanel nacque nel piccolo villaggio di Saumur, nella Loira occidentale e il suo lungo viaggio evolutivo non poteva che condurla a Parigi, città simbolo della moda e del suo amato ed immortale nr. 5: ed è proprio a Parigi che potremmo tracciare una sorta di linea retta che unisce Rue Cambon, dove nel 1910 la stilista inaugurò il suo atelier e l’Hotel Ritz a Place Vendome, in cui scelse di trasferirsi e dove il 10 gennaio 1971 morì alla veneranda età di 87 anni. Place Vendome, fu talmente amata ed ispiratrice al punto che il tappo ottagonale del profumo ne riprende le proporzioni e soprattutto la forma. 

C’è assonanza tra Chanel nr. 5 e il vino? Molto di più di quanto si possa pensare; innanzitutto incarna due sensi comuni imprescindibili che sono la vista e soprattutto l’olfatto e poi i fiori sono simili al vino nel senso che un’ottima annata è legata alla semina, al terroir, all’esposizione solare, agli eventi climatici, così come accade per la vigna. Manca solo il gusto, ma solo in apparenza, perché se nel vino il gusto è qualcosa di tangibile a livello di palato, nel profumo è qualcosa di indiretto, ossia ha la capacità di insinuare a livello cognitivo dei ricordi legati di solito alla nostra infanzia, per esempio all’aroma e al gusto dei croissant di una patisserie parigina, tanto per stare a tema.

Come detto, il villaggio di Saumur ha dato i natali ad una donna che ha saputo creare immortali opere d’arte, ma a Saumur c’è chi sta ricalcando le gesta della ben più nota concittadina dando vita ad altrettante opere d’arte e mi riferisco al Domaine Guiberteau, dedito nella produzione di vini austeri, che si concedono con diffidenza, ma capaci di aprirsi meravigliosamente col tempo e dopo averli conosciuti a fondo. La storia del Domaine ha inizio nel  secolo scorso, 17 ettari vitati con vigne che vanno dai 5 anni (le più giovani) agli oltre 80 anni ( le più vecchie), coltivate in regime biologico dal 2003: i terreni sono lavorati sotto i filari ed inerbiti naturalmente. Sono vietati tutti i prodotti di sintesi: si usano solo zolfo, rame, oli essenziali e decotti di piante. Vendemmie manuali, fermentazione e affinamento in tini di acciaio o legno, o in botti a seconda della cuvée (bianca e rossa) ed incorporano solo la quantità minima di zolfo necessaria prima dell'imbottigliamento. Non vi è aggiunta di lieviti, enzimi, stabilizzanti.

Se lo Chanel nr.5 rappresenta il cult del profumo, a Saumur e dintorni l’attore principale è di certo il Cabernet Franc che nei vini di Giberteau è talmente iconico al punto da renderlo immortale, offuscando molti chateaux bordolesi, come ad esempio il Saumur “Les Arboises” Monopole Brèze annata 2014 di 12,5° gradi degustato con devozione ed ammirazione. Bottiglia che al pari della boccetta di Chanel nr. 5 si presenta elegante ma soprattutto sobria nella sua etichetta essenziale, pulita e visivamente conciliante e che, stappato 6 ore prima di essere servito, tappo sano di ben 5,5 cm, si presenta di un bel colore rosso rubino intenso, uniforme e quasi impenetrabile.

Al naso, si viene assaliti da una caratteristica nota varietale di peperone verde davvero unica ed a seguire un caleidoscopio di sensazioni olfattive molto intriganti, a cominciare dai frutti rossi dai toni dolci dell’agrume a quelli più intensi della tostatura del caffè e fava di cacao, a quelli ancor più cupi e speziati del pepe nero, oltre ad effluvi fumosi e sul finale un chiaro sentore di pietra focaia. 

In bocca incarna un’alternanza di contrasti quasi contraddittori ma in un’accezione positiva, nel senso che è potente ma allo stesso tempo raffinato, è sauvage ma anche elegante, è austero e passionale allo stesso tempo. 

I rimandi olfattivi ben si integrano osmoticamente con quelli gustativi ed il palato è avvolto da un tannino setoso e da un’acidità talmente glamour da rasentare la perfezione di un abito di haut couture di Chanel. 

Un vino che ha come punto di forza un equilibrio perfetto, decisamente sorprendente; un Cabernet Franc che non risulta mai opulento e pesante, anzi, al contrario ha una leggerezza e una facilità di beva talmente snella al pari delle migliori mannequines di Mademoiselle Coco. 

A fine degustazione, preso da ammirazione e da trance enoica, con un gesto quasi automatico, non ho potuto fare a meno di imitare la divina Marylin mettendomi due gocce di questo nettare celestiale, al pari del profumo più famoso al mondo.