Credete all’amore a prima vista?? Io sì, ed è quello che mi è successo quando nel 2001 ho visitato per la prima volta l’unica regione italiana non situata ai confini politici o marittimi dello Stato Italiano. L’Umbria.
Piena di fascino naturale, di borghi medioevali, di mistici luoghi di francescana memoria e non ultimo di vini pregevolissimi.
Il più bel libro che abbia mai letto sul vino, l’ha scritto il compianto Mario Soldati che, nel suo “Vino al Vino”, ripercorre i suoi tre viaggi lungo lo stivale risalenti al ’68, al ’70 e al ’75 del secolo scorso e precisamente nel terzo viaggio, relativamente all’Umbria, recita quanto segue:
“…..forse il segreto della bellezza che tanto mi commuoveva era in questa composizione compatta dove rigore prospettico e fantasie di masse si incastravano armoniosamente, senza intervalli inerti. E’ l’Umbria mi son detto….cioè qualcosa di chiuso, calmo, ordinato, apparentemente aggraziato ma nascostamente simmetrico e quasi ispirato dal sentirsi il tranquillo centro ovale di una figura allungata, agitata, stretta tra le montagne, l’Italia!”
Ogni tanto, vado a rileggermi queste parole che rendono l’idea di cosa sia questa amena regione e con la mente ritorno a ricordare l’armonia dei suoi paesaggi, la calma e la sensazione che il tempo, qui, scorra meno velocemente e la vita sia vissuta ai giusti ritmi che ti consentono di meditare e farti del bene, sempre.
Queste sensazioni le ho percepite visitando l’Azienda Vinicola Collecapretta di proprietà della famiglia Mattioli, agricoltori e viticoltori dal 1870, situata a una decina di chilometri dal rinomato centro di Spoleto, in località Terzo la Pieve.
L’Umbria, è l’emblema di molti vitigni autoctoni, uno su tutti il Sagrantino, ma esiste un altro vitigno dimenticato nel tempo che negli ultimi anni, grazie a uomini lungimiranti, sta facendo parlar bene di sé: il Trebbiano Spoletino.
Le sue origini sono quasi leggendarie e si perdono nella notte dei tempi. Alcuni lo fanno risalire alla città di Trevi (a 25 km da Terzo la Pieve), dal latino Trebia e quindi Trebbiano, con in aggiunta Spoletino per distinguerlo dagli altri trebbiani (abruzzo e toscano); città così struggente da indurre il Leopardi a dedicargli una poesia “Trevi la città d’aerei tetti”. Altri, si spingono ancora più indietro nel tempo, scomodando Plinio il Vecchio, che nella sua opera “Naturalis Historia” (77-79 d.C.), nel XIV° libro, dedicato alla vite e al vino, indica “vino Trebulanum” come vino di nobili origini, anche se, scorporando il termine Trebula, la sua traduzione dal latino è “fattoria”, quindi vino del fattore o meglio ancora, secondo il mio modesto parere, vino naturale. Io propendo per la seconda ipotesi.
Ed è proprio la naturalezza, da non intendersi con i termini inflazionati di bio-dinamica e biologico, che oggi sono tanto di moda, che contraddistingue i vini dell’Azienda Collecapretta.
Avevo sentito parlar bene di questa piccola realtà famigliare, ma vi assicuro che incontrarli e conversare amabilmente con loro è stato un vero toccasana.
La parola d’ordine è senza dubbio “ospitalità”; mi sono sentito a casa ed accolto come un amico da sempre. Ringrazio pubblicamente Anna, vera padrona di casa, che dopo averci fatto accomodare (io, mia moglie e mio figlio) è ritornata con un vassoio colmo di pancetta, salame, salsiccia e lardo nostrani e poi, Vittorio che, con estrema naturalezza ci ha spiegato la semplicità del loro vino. Ricordo che alla mia domanda: “chi è il vostro enologo???”, mi rispose seraficamente: “non ho enologo. Vendemmio, pigio, lascio fermentare a temperatura libera e la natura mi regala il vino che ha in serbo per noi”. Spiazzato!!!!
Ma veniamo al Trebbiano Spoletino “Vigna Vecchia” annata 2016 di 12,5° vol. degustato in abbinamento a dei ravioli di zucca e a del salmone al forno.
Vino che nasce da vigneti di oltre quarant’anni, posti alle pendici dei Monti Martiani; in vigna, come ci disse il Mattioli, non vengono utilizzati prodotti chimici, ma solo all’occorrenza verderame e poltiglia bordolese. Uve raccolte a fine settembre e quindi, per certi versi, a maturazione tardiva e una volta pressate, il mosto fermenta per dieci giorni a temperatura non controllata. Subisce un solo travaso e viene imbottigliato in calar di luna, senza aggiunta di solforosa.
Stappato alla temperatura di 11 gradi, si presenta di un color oro luminoso e brillante ed alla vista è molto appagante. Al naso è per così dire camaleontico, in quanto emergono in sequenza erbe della macchia mediterranea, quali timo e maggiorana, oltre a lievi nuances di erbe officinali, che ben presto si amalgamano con note mielate ed agrumate di lime. A tratti effluvi sulfurei molto particolari.
In bocca è sapido, ampio, fresco e parzialmente salivante e pervaso da una media acidità sublimata da una mineralità che non ti aspetti, se paragonata all’olfatto e da una naturalezza di beva veramente disarmante. E’ persistente ed invidiabilmente serbevole.
Avessi fatto una degustazione alla cieca avrei detto di trovarmi in Francia!!!
E’ uno di quei vini che mi porterei via se dovessi andare a vivere su Marte!!!
Degustarlo, in una domenica fredda e uggiosa di questa pazza coda d’inverno, mi ha riportato mentalmente sulle colline spoletine, beatamente sdraiato su di un pascolo verde, fiore di campo in bocca, il sole primaverile che scalda il giusto ed il belare delle caprette a far da sottofondo al lento passare del tempo.