Di recente, disquisendo con l’amico francese William, esternavo il desiderio di riprendere, post covid, i nostri viaggi nel vino, che mi mancano davvero tanto; l’ultimo è stato in Mosella e Nahe nel 2019 e negli anni seguenti abbiamo effettuato bellissime serate di degustazione oltre a visite a produttori italiani, che si sono esaurite in giornata o al massimo in un week-end. Non sto disdegnando quanto fatto, però poter trascorrere 3 / 4 giorni di full immersion nelle aziende e tra i vigneti, gustando nel contempo la cucina tipica e la cultura dei luoghi visitati, ha tutto un altro fascino.
Quanto fatto negli ultimi 4 anni ha il sapore di una toccata e fuga, mentre i viaggi hanno un rituale da seguire, ad iniziare dallo loro preparazione, allo studio dei contesti climatici/morfologici, alla conoscenza storica delle zone vitate, alla scelta mirata dei produttori e banalmente a quella dei ristoranti e degli alloggi strategici per le visite, senza perdite di tempo.
Ecco perché, con la mente mi sono catapultato nei bellissimi viaggi iniziati nel lontano 2006 e non ho potuto fare a meno di ricordare quello più lungo in terra bordolese, nel 2010, che mi ha visto impegnato in una settimana intera. Solo il viaggio di andata e ritorno ha coperto due giorni.
Non sono un grande fan di Bordeaux, forse perché non sono stato mai un fan di Robert Parker, famoso critico del vino che ha fatto le fortune di questa terra, a mio avviso oltre misura, creando una bolla speculativa sui prezzi che ancora oggi stenta a sgonfiarsi. Sia ben chiaro, lungi da me screditarne i vini, che apprezzo e rispetto, ma come ben sapete il mio cuore è altrove.
Forse sono fatto male, forse sono strano o forse mi lascio solo influenzare, ma solo l’accenno di quel pensiero, mi ha telepaticamente invogliato a scendere in cantina e magicamente la vista si è fissata senza indugiare su una bottiglia di Pessac-Leognan Grand Cru Classè di Chateau Olivier, non rouge ma bensì blanc. Una bottiglia acquistata alcuni anni fa, perché da buon bianchista mi ero ripromesso di iniziare la degustazione dei vini bianchi in una terra di vini rossi, vocata quasi esclusivamente al Cabernet Franc, al Cabernet Sauvignon e al Merlot. Vi capita di aprire cassetti della memoria oramai chiusi da tempo? A me sì.
Questa bottiglia l’ho acquistata d’istinto senza troppo pensarci, ma prendendola dalla cantina e guardandola bene ho avuto come un flash, come se cerebralmente mi apparisse davanti agli occhi un’istantanea.
Ricordo che la prima destinazione d’arrivo del primo giorno zona Bordeaux, fosse nella cittadina di Gradignan e che da lì, sarei andato il giorno seguente a Leognan in visita allo Chateau Seguin. Leognan distava pochi chilometri dall'hotel in cui alloggiavo e la strada che mi avrebbe portato a destinazione era zona densamente boschiva, intervallata da ampie distese a prati verdi ben curati. E’ qui che rivedo in quell’istantanea lo Chateau Olivier; ci sono passato in auto e seppur guidando, ho visto le indicazioni e la strada semi sterrata di accesso allo Chateau. Non mi sono fermato, ma forse l’aver acquistato questa bottiglia è frutto del lavoro del mio subconscio o di una certa subliminalità.
La storia di Château Olivier, una delle sei Grand Cru Classè delle Graves sia in bianco che in rosso, è un esempio degli effetti collaterali del sistema economico dei grandi vini di Bordeaux. Con eccezionali risorse naturali, questo cru non ha mai raggiunto la notorietà dei suoi vicini per un semplice motivo: i suoi vini sono stati a lungo assenti dal sistema di mercato bordolese.
Tuttavia, il cru è radicato nella storia della regione fin dal Medioevo. All'inizio fu adibito a casino di caccia e si dice che il Principe Nero amasse cavalcare lì. Poi una roccaforte sulla strada che conduce a Bordeaux, costruita da Arthus d'Olivey, signore di Léognan, alleato dei La Lande, signori di La Brède e antenati di Montesquieu.
Le fondamenta di questo castello circondato da fossati sono ancora in piedi, con il suo parco, la sua fontana, i suoi specchi d'acqua, il suo fiume, il tutto avendo subito molteplici trasformazioni e abbellimenti. Dopo i Fossiers de Testard, i Werther, è la famiglia Bethmann che, dal 1886, ne è la proprietaria.
Ma a veniamo alla degustazione di questo Pessac-Leognan Grand Cru Classè annata 2016 di 13,5° vol. aperto in un pomeriggio assolato per ritemprare le fatiche mattutine di un allenamento podistico di 20km.
Si tratta di un blend di Sèmillon, Sauvignon e Muscadelle che alla vista si presenta di color oro, limpido e brillante al pari dei dobloni di un immenso tesoro; roteato a dovere nel bicchiere ed atteso, sprigiona chiari sentori idrocarburici, in un mix di gas e kerosene che gli donano una connotazione davvero particolare e un po’ inconsueta a queste latitudini, ma ben presto si manifesta di prepotenza la parte fruttata di pesca nettarina, limone maturo, un accenno di ananas, un leggerissimo tocco di miele e sul finale lievi sbuffi vanigliati.
In bocca sbalordisce ed è una meraviglia allo stesso tempo perché caratterizzato da un’acidità esplosiva e da una freschezza di beva fluente ed invitante ad un continuo sorso, dove gli evidenti rimandi fruttati di limone invadono l’intera cavità orale lasciando un interessantissimo finale persistente e donandogli un retrogusto in parte asprigno e amaricante.
Davvero un ottimo vino che sono certo avrebbe potuto restare tranquillamente in cantina per almeno altri 10 anni.
Se ritornerò un giorno a Bordeaux, non è dato sapersi, ma se i bianchi sono tutti come questo Chateau Olivier, allora non mi resta che farne incetta per provare nuove emozioni e per immergermi in nostalgici ricordi.