“…..and i hope you’ll find your freedom

for eternity, for eternity……”


(Eternity/The Road to Mandalay- Robbie Williams)


Recentemente ho guardato sulla piattaforma Netflix la miniserie dedicata al cantante pop inglese Robbie Williams, ex enfant-prodige della boy-band Take That, che spopolava tra i teen-agers negli anni ’90 del secolo scorso. Un docu-film a tratti crudo e struggente che ne ripercorre l’ascesa esplosiva ed una volta staccatosi da Gary Barlow & Company, la discesa vorticosa all’inferno della dipendenza da alcool e droga, per poi risorgere, per ben due volte, prima di ritrovare il successo planetario da solista, ma soprattutto quella maturità di  uomo alla soglia dei 50 anni, ottenuta con l’affetto e l’amore della moglie e dei quattro figli. 

Tra le sue tante canzoni, quella che da giorni mi risuona nella testa è: “Eternity”.

Già, l’eternità…..

Chi mi conosce davvero bene, sa che ho un rapporto conflittuale con il tempo e non è assolutamente la paura di invecchiare. Troppo spesso ho la sensazione d’averne sprecato molto nella mia vita, forse perché quello che mi resta da vivere è molto meno rispetto a quello che ho già vissuto, o forse perché è insita nell’uomo la costante ricerca di poterlo fermare, di governarlo. 

Il tutto è condito dal pensiero di cosa avrei potuto o dovuto fare e dall’ineluttabilità del non poter tornare indietro e allora non mi resta che guardare avanti, continuando quel viaggio che chiamiamo vita e che può  riservarmi la possibilità di esaudire quel che ancora cerco.

Sarò banale nel pensare che l’ideale sarebbe vivere in eterno.

Ma cos’è realmente l’eternità? Un battito di ciglia come cantato in una canzone da Jovanotti o un limite del nostro intelletto?

E’ una temporalità illimitata come asserivano Platone ed Aristotele, o come scriveva Sant’Agostino è uno stato in cui non esiste alcun intervallo di tempo?

Da persona umana e materiale forse mi è più facile comprendere la prima ipotesi, anche se gli scienziati e i filosofi moderni propendono per la seconda. 

Se ci si pensa bene, l’eternità è uno stato immobile, qualcosa che c’è da sempre e che sempre ci sarà e se devo pensare all’eterno immagino un tramonto, quando il sole scende lentamente all’orizzonte ed il cielo si colora di rosso.

In questa sorta di istantanea vedo da sempre frammenti di eternità ed ho la sensazione che il tempo si fermi o ancora meglio che non esista,….

….forse non è così strano che in casa mia abbia due quadri che raffigurano entrambi un tramonto con il cielo tendente al rosso.

La stessa sensazione, quasi infinitesimale di uno stato temporale e metafisico bloccato l’ho avvertita nell’assaggio di un vino davvero iconico; mi riferisco al Vin de France Chenin “Ciel Rouge” annata 2019 di 13,5°vol. di Michel Autran, produttore del quale precedentemente ho già recensito il suo “Les Enfers tranquilles” del 2015.

Ex medico di base che ha smesso il camice per dedicarsi alla viticoltura alla fine del 2006 e quindi rappresenta una vera e propria figura atipica. Dopo una formazione vinicola, fa apprendistato nell’azienda di Francois Pinon per poi avviare la propria nel 2011. Da allora, ha lavorato con passione il suo primo ettaro, prestando collaborazioni stagionali a Vincent Careme , Les Jousset, Frantz Saumon e all’amico Mathieu Cosme.

Oggi gli ettari di proprietà sono saliti a 3,6 con una piccola produzione di 10.000 bottiglie di altissima qualità. Chenin Blanc da viti che vanno dai 50 agli 85 anni d’età, piantati su terreni argillosi e silicei. Trattamenti effettuati solo con rame e zolfo insieme a preparazioni di ortica, di equiseto e silice. Il suolo è lavorato con l’ausilio dello scavallatore; vendemmie manuali, mosto sgrassato e poi fermentato con lieviti indigeni e blande solfitazioni. 

Questo vino è classificato come vino francese, dato che Michel ha deciso di abbandonare la denominazione Vouvray, probabilmente in disaccordo col disciplinare. Le Ciel Rouge prende il nome dalle argille rosse in cui le viti di 80 anni hanno affondato le loro radici, sui pendii argillosi-calcarei nel comune di Noizay nella Loira occidentale. 

Ma come sempre, veniamo alle note di degustazione.

Versato in ampio balloon si presenta cromaticamente di un bellissimo giallo paglierino carico tendente all’oro zecchino, uniformemente limpido e brillante; al naso, si avverte nell’immediato qualche nota di riduzione che scompare abbastanza velocemente e si apre su sentori di limone e di frutta gialla matura, per poi virare su miele selvatico, cera d’api, leggere nuances caramellate e sul finale in evidenza una distinta nota erbacea.

In bocca è spettacolare! Entra leggermente oleoso e a tratti salivante, decisamente morbido e dotato di un bel equilibrio con un’acidità quasi gessosa e con ritorni gustativi citrini, per defluire su un finale lungamente persistente, al ritorno delle note erbacee davvero complesse ma piacevoli, ad una sensazione di autolisi con un tocco di lievito  e con una nota di sapidità accattivante che ti invita a riversare altro vino nel bicchiere. 

Un vino che a tratti lascia come sospesi nel tempo, in una dimensione quasi ultraterrena….

Non so se Michel Autran fosse un buon medico, ma ringrazio Dio per avergli fatto sentire il richiamo della terra e per avergli donato il talento, l’umiltà e la convinzione di poter arrivare ad ottenere vini come questo Ciel Rouge.

Posso solo dire che le sensazioni che ha suscitato mi lasciano il ricordo di un vino sottratto al dominio del tempo al punto da rappresentare una vera e propria istantanea d’eternità!