Ogni inizio anno mi pongo degli obiettivi possibilmente da raggiungere. Uno di questi è la vacanza. Per il sottoscritto non esiste il fatidico dilemma “mare o montagna” perché amo da sempre la montagna e il mare mi annoia non poco, oltre al fatto che soffro il caldo, che al mare bevo come un cammello e non mi vien fame, al contrario della montagna dove mi diverto a fare escursioni e l’appetito non manca mai.
Quando penso alla vacanza in montagna, non ho dubbi nel dirigere il mio sguardo verso le Dolomiti, patrimonio universale dell’Unesco e meta di incantevoli e spaziose valli incastonate tra le vette più belle del mondo.
Ma non solo. Quando penso alle mie amate Dolomiti, dove, tra l’altro ho trascorso un anno di militare nell’ormai lontano 1986, mi sovviene sempre e comunque Karl Felix Wolff.
Chi non è montagnino non può conoscere questo personaggio nato in Croazia nel 1879, figlio di un ufficiale austriaco e di una donna della Val di Non. Da bambino, con la sua famiglia si trasferì a Bolzano, in Alto Adige, dove durante una lunga malattia ascoltò le leggende ladine locali dalla sua tata. Diventato adulto, quale scrittore e giornalista trascorse molto tempo viaggiando per le Dolomiti, raccogliendo dalle persone anziane dei piccoli villaggi montani le leggende locali che registrò su un taccuino e poi le pubblicò.
Fu una sorta di discepolo dei fratelli Grimm, continuando quel percorso fiabesco e di leggende che rappresentavano vere e proprie saghe di elfi, gnomi, castelli incantati e montagne invalicabili, come quella più famosa del Re Laurino.
La leggenda racconta che Re Laurino regnò in Alto Adige su un popolo di nani adibiti a scavare nelle viscere della montagna alla ricerca di cristalli, oro ed argento. Il re possedeva due armi magiche : una cintura che gli forniva la forza di 12 uomini ed un cappello che lo rendeva invisibile. Un giorno, il supremo Re di tutto l’Alto-Adige decise di sposare una meravigliosa fanciulla chiamata Similde; per l’evento invitò tutti i nobili del regno, tranne Re Laurino. Adirato, decise di parteciparvi comunque come ospite invisibile. Quando Laurino vide Similde, colpito dalla sua avvenenza, se ne innamorò alla follia, la rapì e la portò via con sé.
Il promesso sposo della principessa, chiese aiuto al Re dei Goti e alla testa dei suoi guerrieri salì il Catinaccio.
Re Laurino, per difendersi indossò la cintura che gli dava la forza di 12 uomini ed iniziò a combattere, ma nonostante ciò, nel momento in cui capì di soccombere, indossò il cappello e si mise a saltellare qua e là nel giardino di rose, convinto di non essere visto. I cavalieri, osservando il movimento delle rose, sotto le quali Laurino cercò di nascondersi, lo individuarono, gli tagliarono la cintura e lo catturarono. A quel punto si girò verso il Rosengarten (letteralmente giardino di rose, oggi Catinaccio) che lo aveva tradito e gli mandò una maledizione: ne di giorno, ne di notte nessuno lo avrebbe più ammirato, ma Re Laurino si dimenticò del tramonto e dell’alba e così, da allora accade che le rocce del Catinaccio si colorino di un magnifico rosa al sorgere ed al morire del sole.
Rileggendo questa fiaba mista a leggenda la mia mente inizia a fantasticare e ad immaginare cime innevate, natura impressionante e silenziosa, elfi, gnomi, dame e cavalieri e anche l’inevitabile castello incantato ed incastonato sulle rupi più impervie ed è allora che, quasi inconsciamente, scendo in cantina e tolgo dallo scaffale una bottiglia di Castel Juval e più precisamente un Blauburgunder Riserva (Pinot Nero) annata 2018 di 13,5° vol. di per sé accattivante e con un’etichetta che quasi incute timore e mistero, in cui campeggia, arroccato su un’arcigna rocca un castello o meglio il Castel Juval ed ai suoi piedi un piccolo agglomerato di baite e una croce, verso la quale si stanno dirigendo alcune persone in ossequiosa preghiera.
Siamo in Val Venosta e parliamo di un castello della metà del XIII° secolo, la cui storia è documentata dal 1278, quando era di proprietà di Hugo von Montalban. Nel XIV° secolo il maniero appartenne invece ai Signori di Starkenberg. Dopo i restauri, oggi è sede del Museo “Il mito della montagna” (Mythos Berg), da quando nel 1983 è divenuto proprietà del celebre alpinista Reinhold Messner, che ha voluto coltivare la vite nelle terre circostanti, e produrre vini di montagna puri come acqua di sorgente. Insieme a Gisela & Martin Aurich dal 1992 promuovono l'attività dell'azienda agricola Unterortl, dove cinque ettari di terra si fanno voce espressiva del carattere unico del colle Juval.
Le viti, sono situate su un ripido pendio del colle di Juval, ad un’altitudine compresa tra i 600 e gli 850 metri; tutta l’area gode di un particolare microclima con temperature diurne elevate grazie all’orientamento a sud-est e con forti raffreddamenti notturni, a causa di correnti di aria fredda provenienti dall’attigua Val Senales. Inoltre, il terreno è facilmente riscaldabile grazie alle rocce di gneiss, ricche di quarzo e feldspati e povere di silicati ferro-magnesici.
30.000 bottiglie all’anno prodotte nelle varietà di Pinot Bianco, Riesling, Muller Thurgau e Pinot Nero, tra cui una riserva.
Vendemmia manuale e non potrebbe essere altrimenti visto le condizioni impervie, fermentazioni spontanee senza utilizzo di lieviti selezionati, vinificazione in acciaio inox ed affinamento in botti. Limitato utilizzo di solforosa e gran rispetto della natura e della biodiversità. Vini con un ottimo potenziale di invecchiamento.
Ma, come sempre veniamo alla degustazione.
Come spesso accade a queste latitudini, tappo Stelvin e vino che si presenta cromaticamente di un bel rosso rubino mediamente carico con tenui riflessi rosacei sull’unghia.
Al naso, iniziali sentori di frutta rossa, ribes, ciliegia sotto spirito ed amarena, si intervallano con delicate nuances floreali di rosa canina. Lasciato ulteriormente ossigenare nell’ampio balloon da degustazione e roteato più volte, prosegue emanando profumi di terziarietà, quali il sottobosco, il tabacco dolce ed un sottile sentore di funghi.
In bocca è il classico vino di montagna, caratterizzato da una notevole freschezza e da una decisa mineralità. La beva è scorrevolissima, molto gourmand, gioiosa e giocosa allo stesso tempo. Tannino completamente svolto ed a tratti elegante e femminile nel suo incedere.
Al palato i rimandi fruttati olfattivi si ripropongono correttamente al gusto ed il finale chiude con una discretissima vena amarognola su di una persistenza non troppo lunga. Un vino ben fatto, decisamente gastronomico, ma che comunque rimane ben impresso nella memoria cerebrale.
Karl Felix Wolff muore nel 1966 (mentre io nascevo….) e tutta la vita ha mescolato storia e mitologia per promuovere una narrazione al culmine della quale tutto precipita nelle viscere della terra lasciando i lettori ad attendere la rinascita di un regno dimenticato tra le montagne. Mi auguro che nel suo peregrinare tra le Dolomiti, ogni tanto si fermasse a rifocillarsi a dovere e volgendo lo sguardo verso il Catinaccio riuscisse a contemplare i riflessi rosa del sole, magari sorseggiando allegramente un buon calice di Blauburgunder, alla salute di Re Laurino.