Ci sono 2 sport che amo su tutti; l’atletica che pratico ancora oggi, iniziata con i 1.500 metri in età scolare e proseguita via via su distanze più lunghe portandomi ad inanellare almeno 50.000 km e mettendo all’attivo 7 maratone e una miriade di mezze maratone, ed il ciclismo, che ho praticato per un breve lasso di tempo, conclusosi in un’assolata domenica primaverile del 2008. Era il 13 aprile, giorno della Parigi-Roubaix. Devo ringraziare un autista scellerato che mi ha investito e ha distrutto la mia bici Carrera in alluminio/carbonio che tenevo come una reliquia, lasciandomi qualche strascico fisico, terminato positivamente con un’operazione al ginocchio destro.
Quando penso al ciclismo, sono quasi sempre ancorato al passato e non mi limito a ricordare le gesta del mio campione preferito, Francesco Moser, ma vado ben più a ritroso e mi rammarico di non aver potuto sentire dalla viva voce radiofonica di Mario Ferretti quella frase rimasta leggendaria: “Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste: il suo nome è Fausto Coppi.”
Quegli anni eroici, vissuti sul dualismo Coppi/Bartali proposero anche altre figure entrate nella storia e nell’immaginario collettivo.
Poteva un corridore essere ricordato per arrivare ultimo anziché primo? La risposta è affermativa ed il ciclista in questione porta il nome di Luigi Malabrocca, nato nel 1920 a Tortona e conterraneo del campionissimo. La sua fama divenne nazionale perché per due anni consecutivi al Giro d’Italia indossò la maglia nera, la maglia dell’ultimo in classifica. Molti lo ritennero un corridore scarso, ma non era proprio così visto che nel suo palmares poteva vantare la vittoria della Parigi-Nantes nel 1947, la Coppa Agostoni nel 1948, la classifica finale del giro dell’attuale Croazia e Slovenia del 1949 e 2 campionati italiani ciclocross, nel 1951 e nel 1953.
Nel suo primo Giro d’Italia del 1946, Malabrocca è cosciente di non poter ambire alle prime posizioni e combatte per i traguardi volanti per cercare un po’ di notorietà. In una delle tappe però arriva all’ultimo posto e scopre che non è poi così male, visto che i tifosi e gli sponsor, per solidarietà, gli danno mance e generi alimentari. Da quell’istante cercherà di sfruttare il momento cercando sempre di arrivare ultimo.
Non sarà semplice, sia per la concorrenza degli avversari, sia perché occorreva calcolare e studiare come perdere tempo per chiudere in fondo al gruppo senza uscire fuori tempo massimo ed essere squalificato. Fu così che arrivò la prima maglia nera della sua carriera al Giro, ultimo a 4 ore 9 minuti e 44 secondi da Gino Bartali. L’anno seguente arriva il bis, stavolta a 5 ore 52 minuti e 20 secondi da Fausto Coppi; una maglia nera epica come quella rosa e la notorietà al pari dei due campioni, che in quegli anni si sfidavano in leggendarie battaglie sportive. Nel 1949, Malabrocca, a seguito di un calcolo errato rimase vittima del suo stesso gioco e la maglia nera venne assegnata dai giudici a tal Sente Carollo, un carneade che si ritirò presto dalle competizioni. Da quel momento decise di smettere di concentrarsi sempre per l’ultimo posto, ma il mito del corridore tortonese non tramontò mai.
Malabrocca non fu l’unico tortonese che indossò una maglia nera, ma la stessa, per un certo periodo di tempo venne gettata addosso a quello che potremmo definire il padre putativo di un vitigno semisconosciuto, che solo un eretico del vino avrebbe potuto riportare in auge, mediante una vera e propria rivoluzione culturale. Il vitigno è il Timorasso, l’uomo è il mitico Walter Massa.
L’ho conosciuto in due visite distanti 10 anni una dall’altra, ma questo vignaiolo, nemico della burocrazia, vero istrione, anticonformista, testardo ma schietto e assolutamente imprevedibile è il David Crockett delle Colline Tortonesi e del suo terroir che difende come una Fort Alamo, a costo di rimetterci, ma senza mai scendere ad alcun compromesso di sorta.
Quando anarchicamente ed incurante della “maglia nera”, riservatagli dagli altri viticoltori ancorati alla produzione in grandi quantità di Barbera e Cortese, si prodigò ed investì tutto quel che aveva per riportare a nuova vita il Timorasso, venne considerato un pazzo, uno da cui stare alla larga. Ma la caparbietà dell’ enfant terrible di queste colline meravigliose che sanno donare un bianco d’eccellenza in una terra di rossi (il Piemonte) è stata col tempo ripagata con gli interessi.
Oggi Massa è indiscutibilmente il faro a cui traguardare per attraccare a un porto sicuro, a una viticoltura tesa ad un’impronta esclusiva di qualità assoluta e dietro di lui una serie di vignaioli, suoi discepoli, si stanno facendo largo a livello nazionale.
I vini di Massa parlano da soli e sono veri e propri capolavori assoluti, come il Timorasso (Derthona) Sterpi annata 2016 di 14,0° vol, acquistato direttamente nella sua cantina, dopo un monologo di almeno un’ora. Gli anni non l’hanno ammorbidito ma resta sempre e comunque un vero combattente.
Ma veniamo alla degustazione.
Da alcuni anni Massa si sta convertendo al tappo Stelvin (a vite) e ho potuto constatare direttamente in loco che lo stesso vino tappato con sughero, ha denotato connotazioni differenti. Per quanto attiene a questo 2016 ho optato per lo Stelvin che mi ha suscitato migliori sensazioni.
Versato nell’ampio balloon, si presenta cromaticamente con una splendida veste dorata e brillante su tutta la superficie; al naso, in una degustazione alla cieca, lo si potrebbe scambiare per un Riesling della Mosella perché emerge nitidamente un sentore idrocarburico intenso ed accattivante allo stesso tempo. Atteso pazientemente nel bicchiere, offre alle cavità nasali un ricco bouquet floreale seguito immediatamente da note fruttate di pera e di ananas molto maturo, per poi virare su una sensuale nuance mielata ed il finale è caratterizzato da un tripudio di erbe aromatiche miste ad una balsamicità davvero sorprendente. In bocca, come direbbe il mio amico Emanuele Spagnuolo di Grandi Bottiglie, fa tutta la differenza del mondo; è intenso, strutturato, ma allo stesso tempo piacevolissimo e dotato di una morbidezza davvero notevole. Ha una freschezza e una mineralità impressionante e quel che lo rende un vero fuoriclasse è quella sferzante sapidità che amo e ricerco sempre nei vini bianchi di un certo spessore. Persistenza lunghissima su di un finale leggermente amaricante. A mio parere uno dei pochi bianchi italiani che potrebbe tener testa ai blasonati vini borgognoni.
Sono certo che se Malabrocca avesse potuto corroborarsi con questo nettare, non dico che avrebbe vinto il Giro d’Italia, ma quanto filo da torciare avrebbe dato ai due fuoriclasse del nostro amato ciclismo e magari, la maglia nera sarebbe diventata rosa!!
Alla prossima.