I was born in a cross-fire hurricane
And I howled at my ma' in the driving rain
But it's all right now, in fact, it's a gas
But it's all right, I'm jumpin' Jack Flash
It's a gas, gas, gas
( Jumpin' Jack Flash- Rolling Stones 1968)
Sono nato negli anni ’60, periodo leggendario a livello musicale che ha dato i natali a gruppi che sono diventati vere e proprie pietre miliari del rock e che hanno segnato la strada per la nascita di nuove correnti artistiche. Ero troppo piccolo per poterli apprezzare sin dagli inizi, ma con l’adolescenza a fine anni ’70 ho potuto appassionarmi al punto tale che musicalmente è come se mi fossi fermato, come se dopo tanto peregrinare abbia trovato il mio porto sicuro e ancora oggi non riesco ad ascoltare niente altro. Alcuni di loro, come i Led Zeppelin, i Pink Floyd e i Beatles stessi si sono sciolti, altri ci hanno lasciato troppo presto, come Jimi Hendrix, ma qualcuno è ancora sulla cresta dell’onda, come se avesse fatto un patto col diavolo, entrando in un cono di leggenda, al limite dell’immortalità. Mi riferisco ai Rolling Stones, agli inossidabili Mick Jagger e all’iconico chitarrista Keith Richards sulla breccia da 62 anni e che recentemente, con l’altro componente rimasto, Ron Wood, hanno pubblicato il loro ultimo album, che ho subito acquistato in vinile, “Hackney Diamonds”.
Nell’immaginario collettivo, se pensi ai Rolling Stones pensi a “Satisfaction” forse la loro hit più famosa, ma personalmente, la canzone che ascolto di più in assoluto è “Jumpin' Jack Flash”, pubblicata come singolo nel 1968, avendo “Child of the Moon” quale lato b.
Questa canzone ha qualcosa di magico, al punto di farmi sempre saltare quando l’ascolto e può darsi che l’onomatopea del suo titolo (Jumpin') influenzi e non poco il mio subconscio. Come spesso accade, anche questa canzone ed il suo riff nascono da una casualità e Richards l’ha confermato dopo molti anni dalla sua uscita; in un’alba grigia a Redlands (la tenuta inglese del chitarrista), lui e Mick , rimasti svegli tutta la notte, mentre fuori pioveva, sentivano il rumore degli stivali del giardiniere, tale Jack Dyer. Quando Mick chiese cosa fosse quel rumore, Richards rispose: “Oh, quello è Jack. Jack che salta”. Come per incanto iniziò a lavorare con la chitarra elettrica intorno alla frase, cantando “Jumpin' Jack” e Mick ci aggiunse “Flash” e in poco tempo compose un riff indimenticabile. Inutile dire che divenne presto un successo al punto che sia stata la canzone più suonata dal vivo degli Stones, ad aprire o a chiudere ogni concerto, per almeno 1.700 volte. Qualcuno, analizzando il testo ha pensato che “Jack” fosse Jagger, altri che “Jumpin' Jack Flash” fosse il nome di una creatura che molestava le donne nella Londra dei primi dell’800 e che aveva occhi di fuoco, fiato di ghiaccio e saltava da un tetto all’altro, probabilmente ingannati dall’inizio della canzone, che tradotta fa:” Sono nato in un uragano di fuoco incrociato….ed ancora…Sono stato allevato da una befana sdentata e con la barba….Sono stato incoronato con un chiodo che mi trapassava la testa….
Niente di tutto questo e l’inizio è l’evocazione del racconto di Richards e del bombardamento nazista scagliatosi sulla sua casa a Dartford in Inghilterra, quando era ancora in fasce (1943). Questo senso di angoscia e per certi versi di smarrimento, contrasta con il riff iniziale e con quel gran senso di euforia e di una gioia quasi satanica espressa dal chitarrista, talmente contagiosa che per tutta la canzone ti induce a saltare e a muoverti come nel video ufficiale, in cui il frontman delle pietre rotolanti ad un certo punto zompetta sul palco come un elfo.
A dire il vero, “Jumpin' Jack Flash” non è l’unica cosa che riesce a farmi saltare, visto che questo senso di vivida esplosività mi è stato concesso dalla degustazione di un vino che, dopo avermi fatto esprimere un inaspettato “Wow!!”, subito dopo mi ha messo in circolo un’irrefrenabile voglia di muovermi e saltare dalla felicità. Mi sto riferendo alla degustazione del Fleurie “la Madone” annata 2018 di 13,5° del Domaine Chamonard.
Siamo nel Beaujolais, nell’estremo sud della Borgogna, terra vocata all’allevamento dell’uva Gamay e il Domaine Joseph Chamonard si trova a Villiè-Morgon dove la famiglia di vignaioli proprietaria dell’azienda è presente da oltre tre secoli. Personaggio fondamentale di questa realtà fu Joseph che già più di mezzo secolo fa vendeva direttamente e in bottiglia gran parte della sua produzione, poi, nel 1986 la conduzione è passata nella mani del genero Jean Claude Chanudet e di sua moglie Genèvieve Chamonard, perpetuando una viticoltura biologica completamente priva di interventismi legati alla chimica. 4,5 ettari di vigneti coltivati unicamente a Gamay, senza diraspare le uve e vinificate con macerazione carbonica o semi-carbonica. Minimo utilizzo di solfiti e lunghi affinamenti in botti di rovere sia nuove che di secondo o terzo passaggio.
Chanudet è considerato come uno dei pochi grandi maestri della vinificazione naturale, un vero profeta che sa ascoltare ed accudire scientificamente le sue vigne, non lasciando nulla al caso, per poter rispettare ed elevare al massimo il terroir di questa zona magica, mettendo nel bicchiere un vino che sia la massima espressione delle sue uve.
Ed ora, come sempre veniamo alla degustazione: stappato almeno tre ore prima di essere servito e versato nell’ampio balloon tipo Burgundy un’ora prima di essere degustato, si mostra cromaticamente di un bel rosso rubino mediamente carico con lievi riflessi granati sull’unghia.
Il naso viene assalito da un ventaglio caleidoscopico di sensazioni a partire da quelle fruttate di fragola selvatica, per virare su delicate nuances di viola mammola, per poi sfociare in note erbacee di peperone rosso e sul finale un accenno a piccole tostature vagamente legnose.
Ma è in bocca che ti fa letteralmente sobbalzare (jump!!) perché si è pervasi da un impatto potente, quasi muscolare, ma allo stesso tempo è sorprendentemente fresco; tannini setosi, mineralità e sensazione di estrema morbidezza in bocca si mettono in evidenza in una beva generosa ed espressiva, con punte di raffinata eleganza. Il frutto si espande al palato in una sensuale avvolgenza che fa da preludio ad una persistenza gustativa lunga e marcata da una sottile dolcezza. Un gran Beaujolais che ha la stoffa di poter resistere al tempo ed affinarsi ulteriormente nella sua terziarietà.
Mentre degustavo questo vino superlativo, ho voluto farmi accompagnare in sottofondo dalle note musicali di Jumpin' Jack Flash e vi posso assicurare che il salto è stato duplice al punto da catapultarmi in un universo parallelo, in un mix di viaggio musicale e sensoriale, uniti indissolubilmente da un unico comun denominatore che solo l’arte e le sue opere possono offrire.
Alla prossima…..