“Giro girotondo, io giro intorno al mondo. Le stelle d’argento costan cinquecento. Centocinquanta e la Luna canta, il Sole rimira la Terra che gira, giro giro tondo come il mappamondo…”
(2001 Odissea nello spazio)
Sono figlio degli anni ’60 e di quel periodo in cui le superpotenze facevano a gara per viaggiare nello spazio ed io, da fanciullo, mi interrogavo su come sarebbe stato il futuro, forse inconsciamente condizionato dalla tv dei ragazzi e da alcune serie televisive diventate vere e proprie cult come ad esempio “UFO”, con il mitico comandante Straker e “Spazio 1999”, entrambi usciti a metà degli anni ’70.
Quello che però mi è rimasto più impresso al punto da capirci ben poco, scioccandomi e allo stesso tempo incuriosendomi come non mai è stato senza dubbio un film celebrato dalla critica come un capolavoro della storia del cinema e come uno dei migliori film di fantascienza, vale a dire “2001 A Space Odyssey”, italianizzato in 2001 Odissea nello spazio.
Film del 1968 prodotto e diretto da Stanley Kubrick, scritto assieme ad Arthur C. Clarke, che produsse il soggetto e poi scrisse il romanzo omonimo pubblicato nello stesso anno.
Emblematico il fatto che lo scrittore e sceneggiatore Arthur C.Clarke, disse: “Se qualcuno capisce il film alla prima visione, allora Kubrick ed io abbiamo fallito nel nostro intento”.
Con me non hanno fallito, anche se ho l’attenuante generica di averlo visto in TV non ancora ventenne, ma a prescindere da ciò riuscire a coglierne il vero significato è impresa davvero ardua.
Inutile dire che la scena che più mi è rimasta impressa è quella del monolite, un grande parallelepipedo lucido e nero, che appare nei momenti nevralgici della storia dell’uomo. In apparenza una figura geometrica semplice ma allo stesso tempo misteriosa ed affascinante che suscita immaginazione e curiosità, come quella che assistiamo alla sua prima comparsa all’inizio dell’umanità, circondato da scimmie primordiali che lo scrutano, lo osservano impaurite e poi avvicinandosi lo toccano e lo accerchiano in un atteggiamento di attesa, come per ricevere una sorta di rivelazione, tant’è che subito dopo capiscono di poter usare le ossa degli altri animali come armi.
Un monolite che potrebbe essere identificato come il simbolo dell’evoluzione, del progresso, della tramutazione delle scimmie in uomini, lasciandogli però quell’istinto animale aggressivo e violento.
Se lo analizziamo meglio, il monolite, potrebbe rappresentare una fonte di conoscenza, incarnando quella forza granitica, imperturbabile che, se usata bene può solo essere apportatrice di sano progresso, altrimenti diviene inevitabilmente strumento di distruzione e di morte.
In campo enologico ci sono veri e propri vini che potremmo definire monolitici, come quello che ho degustato del Domaine Le Clos des Cazaux; siamo a Vacqueyras, al confine tra Rodano e regione Provenza-Alpi Costa Azzurra, villaggio di 1206 anime, una tenuta vinicola a conduzione familiare che coltiva viti e produce vino da cinque generazioni, a cominciare dall’ antenato Gabriel Archimbaud all'inizio del XX secolo, il primo a vendere il vino Vacqueyras in bottiglia, con il villaggio e il nome della tenuta sull'etichetta. Il domaine è ora gestito da Jean-Michel e Frédéric Vache.
I vigneti della tenuta sono delimitati da fasce di vegetazione mediterranea o da siepi a protezione della flora e della fauna locale. Quando possibile, lasciano i filari inerbiti per prevenire l’erosione e garantire un’aerazione naturale del suolo e della vita microbica. Utilizzano anche compost e piantagioni di erba medica ed erbe per 5 anni per rigenerare i terreni, durante le fasi di rinnovamento dei vigneti. Certificati come “agricoltura responsabile” dal 2008, con raccolta uve e selezione a mano in piccoli cassoni di acciaio inossidabile. Senza pigiatura, vengono poi travasate delicatamente nei tini utilizzando solo la gravità per evitare inutili danni agli acini. Vengono fermentati a seconda del terroir e del vitigno in modo da rispettare i diversi livelli di maturazione delle varie partite. La temperatura dei tini viene poi controllata con estrema attenzione e adattata ad ogni diverso vino e ad ogni diversa annata. Il trasferimento delle uve dai tini al torchio avviene manualmente e senza pompa, l'uva viene alimentata per sola gravità nel torchio pneumatico. La pressatura è lunga e delicata per estrarre il succo migliore, come per il Vacqueyras Vieilles Vignes annata 2020 di 13,5° vol., un blend di Clairette 70%, Roussanne e Viognier prodotto su pendii sabbiosi (arenaria miocenica) esposti a Sud-Est e vinificato in botti di Borgogna con affinamento “surlies”(sui lieviti) per 11 mesi e batonnage delle fecce. Un vino proveniente dai vitigni bianchi più antichi della tenuta, piantati dal nonno degli attuali gerenti dopo il rigido inverno del 1956.
Senza indugiare mi accingo a descriverne le note gustative:
stappato e versato nell’ampio balloon da degustazione, si presenta cromaticamente di un bel colore dorato intenso, limpido e brillante su tutta la superficie; al naso l’impatto è notevole con chiari effluvi di matrice idrocarburica, misti a pietra focaia e polvere da sparo ed a seguire note fruttate di pera Williams e ananas non molto maturo, per chiudere con sentori di mandorle leggermente tostate e sul finale toni balsamici di liquirizia.
In bocca, incarna le caratteristiche peculiari dei grandi bianchi del Rodano del Sud, dove struttura, corpo e opulenza ben si equilibrano con l’acidità e la freschezza in una beva mai scontata, impegnativa e di grande rispetto. La corrispondenza gusto-olfattiva è davvero ottima con i rimandi di pera in evidenza, con un retrogusto amaricante davvero intrigante su di una solida base sapida che lo marchia come un genoma. Chiude con una persistenza davvero lunga restando in bocca per un’eternità.
Questo vino è davvero un monolite, ricco, longevo, ben bilanciato tra frutto e freschezza, capace di invecchiare ed evolvere nel tempo su toni terziari, come pietra focaia, composti idrocarburici, note agrumate.
Se un giorno, nel futuro, l’umanità sarà costretta a migrare colonizzando nuovi pianeti su cui vivere, non avrei dubbi nel trapiantare le viti di questo vino davvero solido come un monolite, sperando ci possano essere uomini scelti capaci di preservare eccellenze di questo genere.