“Facciamo un film su un Medioevo cialtrone, fatto di poveri, di ignoranti, di ferocia, di miseria, di fango e di freddo: insomma tutto l’opposto di quello che ci insegnano a scuola”.
(Mario Monicelli -1966)
Pur non essendo un critico cinematografico e quindi impossibilitato ad arrogarmi il diritto di sentenziare giudizi di sorta, resto comunque dell’idea che il più grande regista italiano di tutti i tempi sia stato Mario Monicelli, che tra i tanti film diretti, a distanza di 15 anni uno dall’altro, mise in scena due capolavori, due spaccati diversi di un’Italia di altri tempi. Mi riferisco a “L’Armata Brancaleone” (1966) ed al “Il Marchese del Grillo” (1981), interpretati magnificamente da due mostri sacri del cinema italiano, vale a dire Vittorio Gassman ed Alberto Sordi.
Sia perché più affine all’ambientazione storica che preferisco da sempre, sia perché è uscito nelle sale nell’anno in cui nascevo, sento di dovermi soffermare sull’Armata Brancaleone.
Un film ed il suo sequel (Brancaleone alle crociate) vede protagonista Brancaleone da Norcia che nasce da nobile famiglia, ma quando il padre muore lasciandolo in tenera età, la madre si risposa con un secondo pretendente che cerca di ucciderlo, anche se la compassione del sicario assoldato permise a Brancaleone di sopravvivere, vivendo povero nei boschi.
Divenuto adulto, torna a Norcia per reclamare il suo tiolo nobiliare, ma trova che la famiglia ha scialacquato tutti i beni e pertanto, inseguito dai creditori, scappa, vagando per tutta l’Italia, partecipando a tornei di cavalieri, mostrando lo stemma di un cinghiale nero rampante al centro di un gonfalone giallo, per poter ritornare in possesso di qualche avere. Sul suo cammino, racimola per strada una serie di poveracci, in sequenza un giudeo, un giovane, un ostrogoto e un corpulento pecoraio, che formeranno la sua scalcagnata armata personale e da qui, in compagnia del suo fedele destriero Aquilante, infilerà una serie di disavventure, spinto dalla sua brama di conquista, ma anche dalla fame.
Brancaleone rappresenta lo stereotipo dell’italiano povero, cialtrone e sbruffone, calato in una società medioevale che rese necessaria la creazione di una lingua inventata in un volgare latinorum misto ai dialetti umbro/marchigiani e così ben enfatizzata dall’incedere del mattatore Gassman.
La bravura di Monicelli fu quella di contrapporre una realtà medioevale cruda, sempliciotta e misera a quella che storicamente ci è sempre stata inculcata attraverso le gesta dei romanzi cavallereschi di Chrètien de Troyes e della poesia amorosa provenzale, infarcita di cavalieri animati dai valori più nobili e da donne bellissime, idealizzate ed irraggiungibili.
In sintesi, un film che può essere una via di mezzo tra l’avventura e la commedia, ma che lascia un po’ di amaro in bocca ed anche momenti di riflessione. Ai due film di Monicelli, mi sarebbe piaciuto che ce ne fosse stato un terzo, nel senso che, dopo le crociate in terra Santa, Brancaleone tornato mestamente in Italia, avesse continuato il suo peregrinare, questa volta verso il Nord e magari percorrendo la via francigena, attraverso i colli tortonesi, si fosse fermato a Derthona (l’odierna Tortona) per rifocillarsi in una terra, dove in quegli anni, si coltivava una dei vitigni a bacca bianca più importanti del bel paese, il Timorasso.
Allora immagino già la scena di Brancaleone (Gassman) che scende dal suo destriero, entra in una locanda recitando:
“…..oste, mostrati al cospetto di sì tanta nobiltate
del tuo Signor Brancaleone da Norcia.
Fama et Gloria mi precedon et non indugiar
a placar cotanta sete, figlia di singolar tenzoni,
e di mille perigli, semper con l’animo pugnandi!
Ma bada ben, bifolco d’un plebeo di non mescere acqua
al tuo vinello, ma di servir quello di Madonna Elisia,
che di nome fa Timor del Sasso et poscia,
mostrami lo suo castrum, ch’io possa giacere le stanche membra
in compagnia di cotanta beltate et con lo vino a placar l’arsura della vitae….
Se quel vino fosse stato il Timox 2017 dell’azienda “I Carpini”, allora sono quasi certo che Brancaleone si sarebbe definitivamente fermato, rinunciando ad inseguire quell’araldica nobiliare tanto agognata.
I Carpini è una cantina di punta del territorio tortonese nata nel 1998 grazie al sogno realizzato di Maddalena e Paolo Ghislandi, che procede con la stessa cura e la stessa passione degli inizi, praticando un’agricoltura di tipo biologico-olistico, basata sulla sostenibilità, sulla salvaguardia dell’ecosistema e sulla scelta di creare parcelle di vigneti-cru che valorizzino uno dei vitigni autoctoni più antichi ed importanti che l’Italia annovera: il Timorasso.
Un vitigno risorto dalle ceneri, come l’araba fenice, grazie alla testardaggine, alla caparbietà, al sentimento rivoluzionar-popolare di quell’istrionico di Walter Massa, che, negli anni ‘80 ha fatto proselitismo al punto che altri vignaioli, compreso Paolo Ghislandi, si sono accodati per valorizzare un vino spettacolare.
Per quanto concerne la filosofia de I Carpini, la cantina è il centro della tradizione pura, con la scelta di usare solo lieviti indigeni e di operare macerazioni sulle bucce e lunghissimi affinamenti al punto da generare vini altamente espressivi come il sopra citato Timox, annata 2017 di 13,5° vol., un orange wine ottenuto dalla macerazione delle uve Timorasso in piccole anfore di materiale ceramico. Per ottenere questo vino vengono selezionate le uve più adatte a macerare con cappello statico alto permanente, dopodiché il tempo finisce l’opera lasciando il vino nelle anfore sino all’imbottigliamento.
Stappato e versato nel bicchiere di degustazione si presenta cromaticamente di un bellissimo color giallo oro, come quello dei dobloni luccicanti al sole, con leggere velature torbide e con riflessi aranciati sull’unghia. In sintesi, una magia!!
Al naso, roteato nel bicchiere, è come se si fosse aperta una latta di vernice smaltata, seguita da note di acetone e subito dopo emerge la componente fruttata di albicocca surmatura, di canditi e quella dolce di miele, per poi virare verso lievi note speziate e balsamiche allo stesso tempo, chiudendo su una solida base salmastra, come colpiti da una sensuale brezza marina.
In bocca è decisamente ronde (per dirla alla francese), con in evidenza acidità, freschezza e mineralità a go go in grande equilibrio ed accompagnati da una morbidezza e da una leggiadra sferzata di dolcezza che attraversa il palato.
Chiude con un residuo sapido molto intrigante su di una persistenza gustativa davvero lunga.
L’etichetta, oltre alla vecchia cascina in evidenza, riporta al suo apice il volto di una giovane, forse quella Elisia della Colomba che la leggenda vuole sia protagonista etimologica del Timorasso e che fu colei che diede vita all’ordine delle Madonne del vino....e allora, un ultimo rabbocco ed un brindisi ad Elisia, al Timorasso e al povero Brancaleone!!