Ho aperto questo blog sul vino (l’ennesimo direte voi) nel 2018, nonostante qualche critica di persone a me vicine che lo ritenevano una perdita di tempo e da allora ho recensito più di 150 bottiglie diverse.

Tutto ciò mi riempie di soddisfazione e mi auguro che chi ha avuto la voglia e il tempo di leggerle abbia ricevuto qualche utile spunto.

Riflettevo in questi giorni su un dettaglio non di poco conto, per uno come me che non ha l’ardire di ritenersi uno scrittore, né tantomeno di riuscirci e mi riferisco al fatto che per ogni recensione ho abbinato una storia, per non rendere la degustazione una mera disquisizione tecnica (nel caso consiglio guide molto più autorevoli del sottoscritto).

Il mio intento è quello di rendere la lettura molto più scorrevole, a tratti anche accattivante e che comunque possa lasciare, oltre alle note di degustazione, sempre e comunque importanti, anche una sorta di finestra cerebrale, da aprire al momento opportuno per riflettere e per pensare a fatti, momenti, emozioni, sentimenti etc. etc., che sono parte integrante della nostra esistenza e che il vino li unisce a sé in un sottile filo invisibile e impossibile da tagliare, al punto da legarli indissolubilmente.

Per poter dar vita a queste storie ho sempre bisogno di quella cosa che per antonomasia viene definita come “ispirazione”.

Asetticamente, il termine ispirazione indica la funzione della mente che percepisce le cose spirituali, uno stato mentale in cui qualcosa viene percepito intuitivamente senza passare attraverso alcuna logica, ma anche qualsiasi motivazione o impulso che avvia un processo di creazione o diffusione di pensieri ed emozioni.

Personalmente, parto sempre privo di idee, come un calciatore che deve subentrare improvvisamente al posto di un compagno infortunato e che non ha avuto modo di scaldarsi per essere pronto. 

E’ come se il mio stato mentale fosse centrifugato da un sacco di cose poste un po’ alla rinfusa e che non riescono a sistemarsi nel modo corretto, fino a quando scendo in cantina e mi faccio rapire da una bottiglia, che il più delle volte sceglie me e non viceversa ed allora parte una sorta di trip mentale, dove anche un minimo dettaglio fa scattare quella sorta di ispirazione fonte delle mie recensioni. 

E’ un impulso irrefrenabile che mi spinge a muovere le dita sulla tastiera del computer ed esce e scorre come un fiume in piena, come se fosse già scritta ed io debba solo farla emergere; ma la cosa più sorprendente è che la degustazione di quel vino si sposa sempre con la storia introduttiva e questo faccio sempre fatica a comprenderlo. E’ una sorta di magia!

Ci sono vini che hanno solo bisogno di un paio di sorsi per darti l’ispirazione, forse perché sono ubicati per la loro produzione nella regione che ho nel cuore (la Borgogna) e che quindi, solo a guardarli visivamente mi innescano un meccanismo quasi inconscio che parte e che mi porta a redigere la recensione. 

Il Bourgogne Clos de la Perrière 2018 del Domaine Clos du Moulin aux Moins di 12,5°vol.  e la sua austera etichetta sono bastati per accendermi e per esporre tutto quanto ho raccontato sin qui, sapendo che, sarebbe stato altresì un vino che non mi avrebbe assolutamente deluso.

Simbolo della Storia della Borgogna, il Clos du Moulin aux Moines fu fondato nel 962 dai monaci dell'Abbazia di Cluny, poi posta sotto l'autorità dell'Abbazia di Citeaux per oltre sei secoli. Scelsero il sito per la sua posizione unica alla confluenza di un ruscello e delle valli che scendono verso i vicini villaggi di Auxey-Duresses e Meursault. Il ruscello, noto come ruisseau des Cloux , forniva energia al mulino e le colline calcaree erano circondate da praterie. Il Clos du Moulin aux Moines viveva di molteplici attività, tra cui un mulino, una colombaia, un forno per il pane, un caseificio, alloggi, un frutteto.

Dal 2008 l’azienda coltiva secondo i principi dell’agricoltura biologica e biodinamica; questo vino, Chardonnay in purezza, viene prodotto da un singolo vigneto di 1,25 ha piantato negli anni ’70 del secolo scorso, situato a Corpeau a sud di Puligny Montrachet e Chassagne Montrachet, quindi in piena Cote de Beaune e poggia su una base di sabbia, argilla e calcare prendendo il nome Clos dall’antico muro in pietra che circondava il vigneto.

Raccolte a mano, le uve vengono selezionate in vigna e poi pressate lentamente; fermentazione in grandi tini di legno, utilizzando esclusivamente lieviti indigeni. Il vino viene poi affinato per 10 mesi in botti di rovere senza mescole e travasi, non viene fatta alcuna chiarifica, né filtrazione. 

Ma veniamo alle note di degustazione:

versato come si compete per i vini di Borgogna nell’ampio balloon, si presenta cromaticamente di un bel colore dorato con leggere sfumature verdoline sull’unghia, limpido e brillante su tutta la superficie; al naso emerge con immediatezza un’inconfondibile nota iodata e salmastra, mista a roccia e pietra focaia. A seguire note agrumate di limone maturo ma anche di frutta bianca, su tutte la mela e note floreali, su di un finale che chiude con nuances vagamente balsamiche.

In bocca, spicca un’acidità ben presente su di un corollario gustativo che va di pari passo con le note olfattive, ma quello che lo rende piacevolissimo è, non solo una beva scorrevole, ma soprattutto una salinità davvero intrigante. 

Chiude con una persistenza decisa e con un retrogusto di mandorla caratteristica degli Chardonnay borgognoni.

Un Bourgogne, in monopolio, decisamente accattivante. 

Sono certo che, non avendo in cantina vini banali, la mia creatività sarà sempre coadiuvata da sorsi invitanti e propedeutici all’estensione di recensioni che fanno bene al palato, ma anche al mio cuore di inguaribile e romantico appassionato.