“What does it matter to ya
When ya got a job to do
Ya got to do it well
You got to give the other fella hell”

(da Live et let die – Wings 1973)


Live and let die è un brano musicale facente parte della colonna sonora del film Agente 007- Vivi e lascia morire del 1973, scritto da Paul McCartney e dalla moglie Linda ed eseguito dagli Wings, la band dell’ex-Beatles ed inserito nell’album omonimo, diventato uno dei maggiori successi della band e dell’intera gamma dei temi musicali ispirati al filone del più famoso agente segreto britannico. 

Solo per la cronaca, il film, interpretato da un attore navigato come  Roger Moore, si snoda sulle indagini relative all’uccisione in circostanze misteriose di tre agenti dell’MI6 nella sede delle Nazioni Unite a New York e in successive ambientazioni, passando da New Orleans fino alla piccola nazione caraibica di San Monique. 

L’ex Fab Four, ha sempre manifestato il suo consenso a scrivere canzoni per i lungometraggi e in questo caso su James Bond, perché gli è sempre piaciuto considerarsi come uno scrittore a contratto e scrivere una canzone per questo film è stata una sorta di riconoscimento. 

Sono state fatte diverse cover, alcune improvvisate in particolari eventi, ma quella che preferisco è datata 1991, anno in cui i Guns N’Roses, la registrarono dal vivo inserendola all’interno del loro LP “Use your illusion 1” ottenendo un successo planetario al punto tale che quasi ci si convinse che gli autori principali fossero Axel Rose ed il chitarrista Slush, sugli scudi come non mai in questo pezzo rivisitato in una celeberrima versione hard-rock. 

Lo stesso McCartney, in un’intervista, disse che i figli, quando a scuola dicevano che era stato il loro padre a scriverla, i loro compagni rispondevano quasi seccati che erano stati i Guns N’Roses. 

Inutile dirvi quale versione preferisco…….(se ne avete voglia andate ad ascoltarle entrambe).

In sintesi, questo brano, nel suo testo incoraggia a vivere la vita superando qualsiasi ostacolo ed enfatizza l’idea di accettare i problemi, le difficoltà, i soprusi, cercando però di vivere al massimo traendo, se possibile, ogni vantaggio piccolo o grande che sia. 

Questo “Live et let die” tradotto “vivi e lascia morire” è una sorta di esorcizzazione dai momenti difficili di questa vita, pensando sempre positivo, andando avanti e superando ogni avversità. 

Sono quasi certo che questa canzone sia stata il mantra di un vignaiolo coraggioso che purtroppo ci ha lasciato troppo presto all’età di 59 anni, nel settembre 2018.  Il suo nome era Stefano Bellotti, fondatore dell’azienda vitivinicola Cascina degli Ulivi di Novi Ligure, in Piemonte,  sulle colline fra Novi e Gavi; sarebbe morto mentre era in vigna, consunto da una malattia contro la quale aveva combattuto invano fino alla fine, ma serenamente in mezzo ai suoi succosi grappoli e a quella terra che aveva amato e difeso strenuamente.

Un uomo che nella vita ha attraversato momenti difficili, essendo un precursore di un’agricoltura basata inizialmente sul biologico e successivamente sulla biodinamica che gli arrecò grossi problemi con la normativa di settore del tempo e con lo scetticismo e l’ostruzionismo degli altri viticoltori, ma lui, incurante di loro ha sempre tirato dritto superando qualsiasi ostacolo gli si frapponesse davanti. 

Cascina degli Ulivi appartiene alla famiglia Bellotti dal 1930 e Stefano iniziò ad occuparsene seriamente nei primi anni ’70, riprendendo la piccola azienda dove era rimasto poco più di un ettaro e grazie ad un anziano contadino analfabeta, tal Pietro Toccalino, apprese sapere antichissimi e pratiche dimenticate da tempo, quasi ancestrali, iniziando a vinificare naturalmente, seguendo solo la saggezza contadina. Gli inizi non furono semplici, la sua prima vendemmia avvenne nel 1975 con una piccolissima produzione di 3.000 bottiglie di Barbera e Dolcetto ed in seguito ampliando gli ettari iniziò con la produzione dei bianchi. Ci furono momenti in cui per arrotondare fu costretto a coltivare grano ed ortaggi e per un po’ dovette tirare la cinghia, anche perché i tempi stavano cambiando ed il vino virava verso una deriva chimico-farmaceutica culminata nel 1986 con il famoso scandalo del metanolo. Lui, andava in tutt’altra direzione e veniva tacciato dagli altri viticoltori come un antiprogressista, come un eretico, ma alla fin fine i fatti gli hanno dato ragione.

Negli anni, l’amicizia con Pierre Frick, lungimirante vigneron alsaziano, biodinamico sin dai primi anni ’70 fu consolatrice e allo stesso tempo da stimolo per andare avanti nella giusta direzione.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti, anzi, sotto il naso, come il suo Montemarino annata 2018 di 13,0° vol. (la sua ultima vendemmia prima di lasciare il posto ai figli) prodotto in biodinamica con uve Cortese site in un vigneto di circa 60 anni,  situato in cima ad una delle colline più alte del Gavi, su terreno argillo-calcareo con piena esposizione a sud. 

Vendemmia a fine settembre-inizio ottobre, fermentazione spontanea con lieviti autoctoni, breve macerazione sulle bucce di 3 giorni, con successiva fermentazione malolattica, nessuna filtrazione, chiarificazione con decantazione naturale e presenza di solfiti naturali non aggiunti. 

Ma veniamo alle note di degustazione:

stappato un’oretta circa prima di essere servito alla temperatura di 12°, si presenta cromaticamente di un bel colore giallo intenso, come il sole in una giornata estiva e con il cielo terso. Torbido su tutta la superficie, chiaro sintomo dell’estrema artigianalità di questo bianco non sottoposto a nessun governo in cantina. Al naso, dopo averlo roteato nel calice da degustazione, avverto un netto sentore di smalto per unghie e pietra focaia; a seguire ritroviamo la parte fruttata di albicocca matura, di pesca nettarina e sul finale dolci sensazioni di caramello. In bocca è un vero e proprio nettare, quasi masticabile, dove si ripropone a livello gustativo la componente fruttata avvertita all’olfatto; grande verticalità, in un deciso mix di acidità tagliente e di estrema mineralità che poggiano su una solida base sapida che gli conferisce nerbo e direzionalità. 

Un vino non immediato, né tantomeno semplice, ma che nell’essere assaporato conferisce al palato una piacevole soddisfazione nella sua profondità e nella sua lunga persistenza.

Bellotti lo definiva come un vino che invitava all’introspezione, probabilmente identificandolo in un vino che appartiene al proprio intimo e quindi un vino dell’anima. 

L’amicizia con Pierre Frick penso sia stata fondamentale perché, alla cieca, avrei potuto azzardare fosse un suo vino anche se ognuno di loro penso sia riuscito a marcarne la personalissima impronta. 

Certo che degustare un Cortese come questo, come direbbe il mio amico Emanuele Spagnuolo (www.grandibottiglie.com), fa tutta la differenza del mondo!; quella differenza che Bellotti ha portato avanti con tutto sé stesso, perché elevarsi ed essere diversi dagli altri non è per forza solo anticonformismo, ma è il coraggio delle proprie idee senza condizionamenti e compromessi. 

R.i.p. Stefano e che la terra ti sia lieve.