Lo sport rappresenta una componente fondamentale della mia vita. Come tanti bambini ho iniziato dando calci ad un pallone all’oratorio, per poi giocare negli esordienti della squadra del mio paese, fermandomi all’età di 14 anni per un problema di calcificazione ossea al ginocchio destro, legato ad uno sviluppo fisico esponenziale e compresso in un brevissimo arco temporale. 

Lasciata anzitempo l’arte pedatoria, ho iniziato a fare quello che mi riusciva meglio: correre.

Sono stato inserito quasi subito nella squadra di atletica del Collegio Rotondi di Gorla Minore (VA), dove ho frequentato Ragioneria, riuscendo a disputare i Campionati Italiani intercollegiali, corsi nel 1984 allo Stadio dei Marmi di Roma. La mia gara era quella dei 1.500 metri; una competizione che soffrivo, perché corsa allo spasimo dal primo all’ultimo metro, mentre io avevo bisogno di carburare, come se le mie gambe avessero all’interno un motore Diesel.

Qualche bella soddisfazione me la sono tolta, anche se in cuor mio sapevo che fossi più portato per gareggiare su più lunghe distanze.

Ricordo che i miei compagni mi chiamavano “Pizzolato”, al pari del mio idolo di  quei tempi, vincitore della Maratona di New York per due volte consecutive, nel 1984 e nel 1985, e molto spesso pensavo e ripensavo a come potesse essere la maratona, 42 km e 195 metri di sofferenza, ma anche di soddisfazione.

Il militare prima, l’ambizione di carriera nel lavoro poi e la costruzione di una famiglia hanno minato il sogno di correre una maratona, relegandomi ad allenarmi per puro piacere, gareggiando di tanto in tanto alle non competitive sparse per i paesi della Valle Olona. 

In quegli anni ho avuto anche qualche problema fisico, tipo lesione corno esterno del menisco, tendinite al tendine d’Achille del piede destro, ernia inguinale sinistra con conseguente operazione, lesione muscoli lombari….

E intanto, correvo e correvo e gioivo e mi commuovevo per la vittoria alle Olimpiadi di Seul 1988 del leggendario Gelindo Bordin e ripiangevo per Stefano Baldini ad Atene 2004.

Pensavo in questi giorni che (eccezion fatta per un periodo transitorio di pochi anni in cui mi sono indegnamente cimentato nel ciclismo, culminato con un incidente ad aprile 2008 che ha posto fine a questa parentesi) sono 40 anni che corro e penso di avere nelle gambe almeno 50.000 km.

La svolta è arrivata nel 2013, quando convinto dal mio amico Marco, maratoneta, purtroppo recentemente scomparso per un male incurabile, mi sono deciso ad iscrivermi in una società agonistica, la Happy Runner, ora assorbita dalla Pro Patria Milano, associata Fidal (Federazione Italiana di Atletica Leggere) e nel 2014, ho preso parte alla prima delle mie 7 maratone corse e concluse, più precisamente a quella di Milano. 

6 mesi di preparazione con allenamenti duri ed estenuanti, con controllo accurato dell’alimentazione, arrivando al mio peso forma di 72,5kg per 1m e 86 cm di altezza. Ripetute su 400 e 800 metri, cambi di ritmo continui su un percorso di 12 km alternati ogni 3 km, 3 lunghi di 32km in solitaria nei 3 mesi precedenti la gara e tanto altro ancora, in ogni situazione atmosferica. 

Risultato: conclusa la maratona in 3h 42’ 46”.

La maratona è un viaggio introspettivo, è la metafora della vita stessa; parti e stai bene e nel durante ti può capitare di tutto, vai in crisi, la superi, pensi di star bene e spingi quando è il momento di tirare il freno e poi torna la crisi del 34° chilometro, quando la testa ti dice di smettere e ti devi violentare per andare avanti fino a raggiungere il tuo obiettivo: il traguardo.

La maratona è pura fatica fisica, ma soprattutto mentale, è una scuola di vita in cui impari a soffrire, a gestire le difficoltà, ad usare la testa e come diceva Einstein (non uno a caso) “non è importante la meta, ma il viaggio!”.

C’è un vino in cui ho ritrovato tutto questo e ci ho visto tutta la fatica contadina tesa ad ottenere un risultato, forse all’inizio solo sognato come è stato il mio sogno realizzato di correre almeno una volta nella vita una maratona e mi riferisco al Vin de France (cabernet Franc) “Des Pieds & des Mains” annata 2019 di 13,5° vol. dei fratelli Boisard del Domaine de Mortier.

Il nome in etichetta è quanto mai evocativo, tradotto “dei piedi e delle mani”, così come nella maratona  basilare è l’appoggio del piede, che dovrebbe avvenire sotto alla proiezione del baricentro, così da mantenere una postura corretta allenando verticalmente spalle, anche e caviglia e delle mani, mai chiuse ma decontratte e pronte ad afferrare al volo i rifornimenti senza mai fermarsi, così in questo vino le sapienti mani hanno saputo selezionare solo i grappoli migliori ed i piedi sono stati utilizzati per pigiarli nei tini di legno, in piena fermentazione, per 5/10 minuti ogni sera per 25 giorni.

Siamo ancora una volta in Loira e più precisamente a Saint Nicolas de Bourgueil, dove il Cabernet Franc è vitigno di elezione e dove il Domaine de Mortier è stato creato dai fratelli Cyril e Fabien Boisard nel 1996, continuando la tradizione di famiglia ed ampliando i 3 ettari iniziali ai 16 attuali. Viticoltura biologica sin dagli inizi, con gli appezzamenti lavorati con i classici trattamenti a base di zolfo e rame e le viti trattate con irrorazioni di origine vegetale: decotti di ortica ed equiseto, mettendo inoltre particolare cura alla potatura in modo da rispettare i flussi di linfa e garantire la sostenibilità delle viti e promuovendo inoltre un ecosistema equilibrato e diversificato che permette alla vite di difendersi meglio dalle malattie e dai parassiti. 

Vendemmie rigorosamente manuali, vinificazione naturale, senza alcun artificio enologico e solforosa utilizzata con parsimonia a seconda dell’equilibrio del vino e della sanità del raccolto e se possibile addirittura nulla. Affinamento fino a 24 mesi in vasche di cemento, tini di legno e botti di rovere.

Ma veniamo alla degustazione.

Aperto 3 ore prima si essere servito, per evitare qualsiasi tipo di riduzione, ho travasato un po’ di vino in un bicchiere, lasciando ossigenare il resto in bottiglia, per almeno un’ora, per poi rimetterne il contenuto tolto, così come suggerito da Cyril al mio caro amico William, che l’ha visitato meno di un mese fa.

Si presenta visivamente di un bel colore rubino intensissimo ed impenetrabile, con riflessi porpora sull’unghia; al naso emergono distintamente e in sequenza note fruttate di amarena matura, la freschezza della nota vegetale di peperone verde, le note speziate di pepe bianco e quelle affumicate e madide di aromi tostati. 

Ma è in bocca che stupisce per la sua sorprendente straordinarietà di beva, in un mix di raffinate sensazioni vellutate e di una chiara e vibrante tensione che gli conferiscono un’eleganza non indifferente, Un Cabernet Franc, o meglio un Saint Nicolas de Bourgueil ottenuto con estrema cesellatura artigianale, quasi d’antan, che colpisce e non si dimentica facilmente. 

L’intera arcata palatale viene intrisa di una seducente setosità ed il finale meraviglia con un retrogusto che ha i connotati di una leggiadra e dissolvente dolcezza di frutto, dove la persistenza gustativa rimane per parecchio tempo. 

L’avessi degustato alla cieca avrei pensato di essermi imbattuto in un Cabernet Franc di Sylvain Dittiere, per scoprire poi che sono amici e che hanno frequentato la stessa scuola enologica. Un vino semplicemente sorprendente e superlativo che mi ha decisamente impressionato.

Post Covid, ho smesso di correre a livello agonistico e oggi continuo alimentato da una grande passione, la stessa che nutro per il mondo del vino.

Non ho nulla da dimostrare a nessuno in entrambi i settori e forse neanche  a me stesso, se non continuare a meravigliarmi andando alla ricerca di viticoltori di talento o a pensare, magari tra un paio d’anni, quando ne compirò 60 a fare ancora una maratona per festeggiarli degnamente,,,,,,ma questa è tutta un’altra storia.