“Old red wine

well past its prime

may have to finish it

after crossing the line,”


(Old red wine – The Who 1964-2004)


Nel calcio che contava, quello romantico di altri tempi, la figura più scomoda, dopo il portiere, è sempre stata quella del mediano.

Senza peli sulla lingua, potremmo affermare che il mediano sia lo “sfigato” di una squadra, quello sempre al servizio dei compagni, quello che corre fino a farsi scoppiare i polmoni, quello che blocca il gioco avversario, colui che canta e porta la croce allo stesso tempo. 

Lo dice anche Ligabue in una delle sue canzoni più note:


… una vita da mediano

a recuperar palloni

nato senza i piedi buoni

lavorare sui polmoni….


Musicalmente parlando, si può asserire che quella del bassista sia una vita da mediano, un ruolo fondamentale, spesso sottovalutato.

Nell’immaginario collettivo, soprattutto da giovani, chi non ha mai voluto essere il frontman o il chitarrista di una rock-band?

Che sappia io, nessuno si è mai ispirato ad un bassista, sia perché di solito è meno scenico sul palco, sempre un po’ in disparte, sia perché lo strumento che suona ha qualcosa in meno rispetto alla chitarra elettrica (4 anziché 6 corde) e banalmente perché basso, come avverbio, ha un significato che non stimola più di tanto….meglio alto che basso.

Eppure ci sono bassisti che hanno influenzato la storia della musica e a parer mio uno di quelli che mi ha sempre impressionato, fino a quando è rimasto in vita, è stato John Eintwistle degli “The Who”.

Probabilmente il miglior bassista rock di tutti i tempi, Eintwistle possedeva una doppia personalità, quasi diabolica, una sorta di dr. Jekill e mr. Hyde della musica, parafrasando il racconto gotico di Robert Louis Stevenson.

Da una parte quella del tranquillo signore di campagna, un vero gentlemen che ambiva solo a suonare con una compostezza sul palco quasi aristocratica e molto british, a differenza dei suoi compari, partendo da quel mattacchione e fracassone del batterista Keith Moon, dal chitarrista Pete Townshend avvezzo a spaccare la chitarra al termine di ogni concerto e dal vocalist Roger Daltrey che si divertiva a roteare a più non posso il cavo al quale era collegato il microfono; dall’altra, incarnava nel peggiore dei modi il ruolo di rockstar autodistruttivo, abbandonandosi ad ogni genere di eccesso, dalle droghe più disparate, all’alcool e a notti orgiastiche senza fine, il tutto aggravato dalla mania compulsiva di acquistare quel che voleva senza ritegno, spendendo somme ingenti di denaro e tutto ciò per sfuggire dal demone interiore della depressione.

Una vita al limite, inevitabilmente stroncata il 27 giugno 2002 in una stanza dell’Hard Rock Hotel & Casino di Las Vegas a causa di un attacco cardiaco causato da un’overdose di cocaina.

“The Ox” (il bue), suo soprannome fin dagli esordi per il suo fisico possente e corpulento era notoriamente innamorato del vino rosso, del quale possedeva una discreta collezione privata.

Roger Daltrey e Pete Townshend, due anni dopo la sua morte, gli dedicarono un brano intitolato “Old red wine” (vecchio vino rosso), che chiude con la recondita speranza di un ricongiungimento nell’aldilà per poterlo degustare nuovamente insieme.

Se penso alla sua personalità ed al ruolo artistico e volessi associargli un vitigno, non ho dubbi nell’identificarlo con un Gamay.

Un vitigno spesso scomodo e sottovalutato, cresciuto all’ombra del più nobile Pinot Noir in Borgogna fino al suo definitivo espianto con l’editto del 1395 del Duca Philippe le Hardy ed il trasferimento più a sud nelle terre del Beaujolais.

Un vitigno, a torto, poco considerato o meglio poco sotto i riflettori del protagonista, al pari di un mediano o di un bassista di una rock-band.

Per omaggiare Eintwistle, ho tolto da uno scaffale della mia cantina un Fleurie “Les Garans” annata 2020 di 14,0° vol. della Maison Louis Latour, che sono certo avrebbe di sicuro apprezzato.

Con oltre 50 ettari distribuiti tra i migliori Premier cru e Grand cru di Borgogna e le migliori parcelle nel Beaujolais, la Maison Louis Latour nata oltre 200 anni fa come attività di nègoce, è da considerarsi come una delle realtà vinicole più importanti di tutta la regione. Storia e tradizione gli permettono da sempre, nonostante l’elevata quantità di bottiglie prodotte, di mantenere uno standard qualitativo davvero elevato. 

Rispetto dell’ambiente e dell’ecosistema con il minor interventismo possibile in vigna ed in cantina, sono il must di questa azienda oggi guidata da Louis Fabrice Latour.

Il Fleurie Les Garans nasce da un vigneto di Gamay in purezza, nel Beaujolais, di 30 anni di età, su suolo di granito rosa e scisto e con una resa media di 45 hl per ettaro.

Fermenta in tradizionali tini aperti ed affina per 10/12 mesi in vasche d’acciaio prima di essere imbottigliato e distribuito. 

Il vigneto è posto poco fuori dall’abitato di Fleurie, un villaggio incantevole che, se siete nei paraggi vi consiglio di visitare.

Ma veniamo, come sempre, alla degustazione:

versato nell’ampio balloon tipo Burgundy, si presenta cromaticamente di un bel colore rosso rubino intensissimo, quasi impenetrabile; al naso emergono in sequenza belle note fruttate di amarena e di ciliegia marasca e si avvertno nel contempo sensazioni floreali.

Dopo averlo roteato ed ossigenato meglio, si sprigionano note terrose, in parte speziate e sul finale una piacevole tostatura di caffè appena versato dalla Moka. In bocca è piacevolissimo, morbidamente suadente ed ammaliante, dove le note gustative replicano alla perfezione quelle olfattive e l’acidità è sapientemente equilibrata. Un vino decisamente pronto, ma che può affinarsi ancora per almeno un triennio. Chiude con una persistenza davvero lunga su di un retrogusto vagamente cioccolatoso. 

Un ottimo Fleurie, che va giù che è un piacere e che un bassista come Eintwistle avrebbe opportunamente acquistato e tirato fuori al momento opportuno in una delle sue tante serate particolari……

Prosit!!