Ho sempre pensato che i sogni e le speranze fossero prerogative indispensabili che mi avrebbero aiutato a vivere bene e nonostante le difficoltà e i fallimenti incontrati nel duro percorso di crescita, li ho sempre protetti perché conscio che i momenti peggiori siano quelli dove non si hanno né sogni né obiettivi da raggiungere.
Nascono sin dalla tenera età e in quel periodo sono i più puri, i più ingenui, perché tutto ci sembra così semplice e che siano possibili da raggiungere, senza capacitarsi delle mille insidie che si presenteranno sul nostro cammino. Crescendo, ci accorgiamo di quanto siano lontani e declinati in una sorta di dimensione astratta, come se fossero un’anacronistica chimera e l’impossibilità di raggiungerli ci devasta, col solo scopo di riportarci ad una dimensione materiale ordinariamente routinaria.
E’ facile a questo punto farci fagocitare dalla decisione dell’abbandono, alla quale il tempo contribuirà sadicamente ad indurci nel lento crogiolarci di rimorsi di scelte che sarebbero potuto essere più coraggiose, non prese per paura, per retaggio culturale, per un eccessivo sacrificio o più semplicemente per condizionamenti esterni. Spesso, siamo portati a prendere la via più facile, mentendo a noi stessi e convincendoci di aver fatto tutto il possibile per raggiungere un sogno che coltivavamo da una vita, ma personalmente, ho imparato sulla mia pelle che quella è la via dell’arrendevolezza, alla quale si arriva inevitabilmente nel baratro della tristezza e dello sconforto.
Ho imparato, che se coltivi un sogno, la strada è tortuosa, irta di difficoltà, di momenti sacrificanti e a volte di parziali fallimenti, ma tutto ciò è indispensabile per prendere coscienza degli errori, per conoscersi introspettivamente meglio e capire chi siamo e a cosa realmente siamo proiettati. Il tempo poi, ha una valenza fondamentale.
Se si vuole afferrare un sogno portandolo alla sua realizzazione occorre affrontare il nemico peggiore, che è quello che vediamo riflesso allo specchio ogni giorno e pur conscio che non tutti i sogni siano oggettivamente realizzabili, bisogna provarci sempre e comunque.
Quando è sbocciata la mia passione per il vino, nel lontano 1999, nonostante fossi un neofita inesperto, ma con la voglia di imparare bruciando le tappe, ho serbato il sogno di poter attraversare un giorno il cancello, che ho sempre immaginato come una sorta di stargate, dell’azienda vinicola più importante al mondo. Era davvero un sogno, che all’epoca vedevo lontanissimo ed irrealizzabile; poter entrare nel Sancta Sanctorum enologico e degustare un vino mitizzato al punto da paragonarlo ad una sorta di Santo Graal, pensavo davvero fosse impossibile ed inimmaginabile.
Il tempo, la passione e la buona sorte mi hanno permesso il 22 aprile 2013 di mettere piede al Domaine de la Romanèe-Conti, avendo anche il privilegio di poter visitare la sobria cantina, la cave du trèsor personale dei proprietari e di poter effettuare le degustazioni del Romanèe-Conti 2012, La Tache 2012, Grand Echezeaux 1990 e1999 e del Batard- Montrachet 2007 direttamente con il leggendario Aubert de Villaine, uno dei due coproprietari, e con lo Chef de Cave di quel tempo, Bernard Noblet.
Un giorno che è rimasto marchiato a fuoco sulla mia pelle e nel cuore; un giorno non a caso per uno che come me confida nel significato dei numeri e di quel 22 aprile. Nella numerologia, Il 22 indica la manifestazione dei desideri e degli obiettivi nella realtà, una sorta di strada giusta per il successo e per ripagare gli sforzi profusi, ed aprile etimologicamente parlando era anticamente chiamato “Aprilis”, parola latina che alcuni studiosi fanno derivare da aperire, “aprire”, per indicare il moto della natura che in quei giorni si apre ai dolci raggi solari ed io ho coronato il sogno di aprire quella porta che mi ha introdotto nel magico mondo D.R.C.
Ricordo che quando l’ho richiusa, rituffandomi nel mondo reale, sono stato rapito da un sentimento indescrivibile di gioia ( mi sembrava di camminare a 3 metri da terra) e allo stesso tempo quasi di sconforto, in cui ho subito pensato: “….e adesso??”
Non nego di aver attraversato momenti di smarrimento, sentendomi come un archeologo che, dopo tante peripezie e ricerche, è giunto a scoprire l’Eldorado!! Ho avvertito la brutale sensazione di essere arrivato al capolinea…
In quegli istanti, svanita l’emozione e l’adrenalina, mi sono posto la domanda di come sarebbe stato il mio futuro enologico, attanagliato dal dubbio e dall’inevitabile confronto ogni volta che avrei visitato una nuova azienda vinicola e degustato i loro vini.
Non è stato facile, ma sono arrivato alla conclusione che la cosa migliore da fare era un ritorno alle origini, un classico “back to the future” , un ritorno al futuro, con la consapevolezza di dovermi porre nuovi sogni ed obiettivi e così, nel tempo, ho visto nascere il mio blog con le mie recensioni e la fondazione di un wine club, dove, molto modestamente, insieme all’inseparabile William portiamo la nostra esperienza ad un gruppo di neofiti appassionati, che tanto ricordano i miei primi passi in questo magico mondo. Oggi il mio sogno è quello di andare alla ricerca, attraverso continui aggiornamenti e studi approfonditi di piccole realtà, di nicchia, che sanno dare vita a vere e proprie chicche enologiche che mi possano arricchire emozionalmente e quando riesco a trovarle e come se mi impossessassi di un piccolo tesoro.
Una di queste mi è apparsa in una calda giornata di fine estate nel cuore del Beaujolais, ai margini di un paesino rurale di nome Blacè, immersa in una tenuta dai vaghi contorni medioevali, risalente al 1521 e portata avanti dalla proprietaria Isabelle Brossard, donna sulla settantina, avvolta in un fresco abito bianco di lino, un po’ claudicante e provata dalle fatiche contadine, che ha saputo riportare l’azienda ad un antico splendore, ripristinando i vigneti e promuovendo la biodiversità. Lo Chateau de Pravins, questo è il nome del domaine, consta di 8 ettari, di cui 5 coltivati a vigneto e 3 a bellissimo parco, immerso nella culla e mecca della cultura del vitigno Gamay. La produzione è condotta secondo la carta dell’Agricoltura Biologica e certificata Ecocert FR-BIO-01.
Il suo Argile Ardente annata 2016 di 12,5°Vol. , che ho provato ed acquistato in loco e che ripropongo in questa degustazione è semplicemente strepitoso; d’altra parte la terra di Pravins coltivata e modificata fin dal XII secolo e il cui suolo profondo è costituito da argille residue su argilla e selce e lo strato superficiale di argilla, limo e sabbia, produce vini locali eccezionali e molto caratteristici.
A favorire questo vino è stata un'annata con poco sole e l'uva ne ha tratto il massimo vantaggio ed energia nel terreno e ha mantenuto freschezza e grande espressione aromatica. Il raccolto è avvenuto il 22 settembre (ancora il 22…che strana coincidenza) nel momento di massima maturazione delle uve. La vendemmia viene effettuata a mano, le uve vengono selezionate in loco e poste in piccole cassette. La vinificazione viene effettuata con una fermentazione semi-carbonica tipicamente a grappoli interi e per questa annata è durata 12 giorni tra i 16 ed i 20°C con un rimontaggio al giorno. La follatura ha permesso di estrarre un bel colore granato. Il freddo dell'inverno lo ha chiarito in modo naturale. Questa annata è stata imbottigliata in loco il 12 marzo 2018.
Ma veniamo alle note di degustazione.
Stappato un’oretta circa prima di essere degustato (va servito ad una temperatura di 16/17°), si manifesta cromaticamente di un bel color rosso rubino limpido ed uniforme con riflessi granati sull’unghia; al naso emergono con prepotenza sentori di frutta rossa matura, di prugna e di ciliegia sotto spirito ed a seguire profumi terziari di sottobosco, di humus, terra bagnata oltre a lievi nuances fungine e sul finale un tocco di pellame e di cuoio.
In bocca è finemente setoso ed è attraversato da una sottilissima astringenza segno di una presenza tannica fine e dove si esprime verticalmente allungandosi pian pianino riproponendo nell’arco palatale le sensazioni fruttate avvertite all’olfatto. Chiude con un finale ampio e persistente con un grado alcolico naturalissimo e con una sensazione leggermente amaricante. Un vino che ha un’anima gentile ma allo stesso tempo anche una struttura solida ed elegante. Nessun orpello, nessun arzigogolo, ma tanta sostanza!
Questo Beaujolais è stata davvero una bella scoperta al punto che, a volte sento che mi manca solo di mettermi un cappello e dotarmi di una frusta per immedesimarmi in una sorta di Indiana Jones, un archeologo del vino…..magari non ci saranno piramidi piene di serpenti, sangue da bere, Arche perdute e Santo Graal da ritrovare, ma certo è che anche il vino può essere avventuroso oltre che un sogno davvero realizzabile!