“Still don’t konw i was waitin’for
And my time war runni’ wild
A million dead end streets and
Every time i thought I’d goti t made
It seemed the taste was not so sweet”
(Changes – David Bowie 1972)
Come ho già più volte affermato in altre recensioni, musicalmente mi sono fermato agli anni ’70, che reputo irripetibili per la qualità dei suoi interpreti e per brani che sono diventati vere e proprie indiscusse pietre miliari.
Quando sento poca ispirazione e sono un po’ svuotato di idee e di energie positive, c’è un interprete che riesce a colmare questo mio temporaneo impasse. Un personaggio unico e geniale, un vero trasformista, un artista che ha fatto del cambiamento il suo leitmotiv interiore, una sorta di Oscar Wilde musicale, colui che ai più è conosciuto come il “Duca Bianco”: David Bowie.
Sarebbe più semplicistico ricordarlo con il suo più iconico album, quel Ziggy Stardust del 1972 che vendette 7,5 milioni di copie o ancora con uno dei suoi brani più famosi, Heroes del 1977, inserito alla posizione nr. 46 nella classifica delle 500 migliori canzoni della leggendaria rivista Rolling Stone.
Per ritrovare l’ispirazione, preferisco ascoltare “Changes”, tratta dall’album Hunky Dory, pubblicato nel 1972 che ha, nel suo finale, un breve ma intenso assolo di sassofono intriso di una nostalgica malinconia.
Anche se i critici, nell’analizzarne il testo trovano molti riferimenti autobiografici, relativi alle false partenze dell’artista, alle oggettive difficoltà di perseguire un obiettivo, personalmente preferisco stare un passo indietro guardando con un po’ di superficialità, facendo mio quella sorta di inno alla trasformazione e al cambiamento. Allo stesso tempo, però, cerco a mia volta di analizzare il vero significato del cambiamento, affrontato troppo spesso come se fosse un nemico, qualcosa di sconosciuto, una sorta di estraneo che cerca di dare un sussulto alla confort zone della nostra coscienza.
Il cambiamento, almeno all’inizio, fa davvero paura.
C’è un alleato che può aiutarci ad interiorizzare il cambiamento: il tempo. Con il tempo si impara ad accettare il cambiamento, subìto o attuato per necessità e quasi sempre segue le vicissitudini della nostra vita.
Il tempo però, riveste anche una sorta di figura di carnefice, nel senso che non attende nessuno e se non si coglie la palla al balzo perpetrando il cambiamento, ci si trasforma da adulti a vecchi in un batter d’occhio e alla fine è sempre troppo tardi….
L’incedere musicale di Bowie, che nel testo ripete più volte Ch-ch-ch-ch-changes è esortare a non aver paura ad affrontare il cambiamento e allo stesso tempo di cercarlo sempre e comunque.
Chi non ha avuto paura di cambiare è Laura Aillaud, un’appassionata sommelier che ha lasciato il suo mestiere nel ristorante gestito col marito, per diventare dapprima enologa e poi talentuosissima vigneron; è nel 2017 che avviene il cambiamento, stabilendosi a Tour d’Aigues, ai piedi del massiccio del Lubèron, al confine tra la Provenza e la Valle del Rodano, iniziando affittando viti e vinificando in un capannone di fortuna, per poi arrivare ad ottenere 5 ettari di vigneto lavorati in biologico, avendo cura maniacale del terroir e con un approccio il più naturale possibile, con grande rigore in vigna, dove sono assolutamente vietati trattamenti chimici, con inerbimenti naturali per permettere alla vite di proliferare in profondità e con dosaggi molto bassi di rame e zolfo e in cantina, utilizzando solo lieviti indigeni, dose minime di solforosa, nessuna chiarifica o filtrazione.
Inoltre, per salvaguardare i terreni vitati, Laura utilizza il cavallo, con l’unico svantaggio che, nella sua famiglia tutti sanno andare a cavallo, tranne lei.
Oggi, la sua produzione è davvero limitata, ma le sue bottiglie vanno tutte a ruba, come il suo Vin de France “Long Courrier” annata 2022 di 13,0° vol, un blend di due vitigni, Vermentino e Ugni Blanc, che ho degustato in un pomeriggio assolato di una bellissima giornata, con ancora i connotati di un’estate ormai tramontata.
Stappato 5 ore prima di essere servito e versato nel bicchiere da degustazione 20 minuti circa prima di essere degustato, si presenta cromaticamente di un bel colore giallo dorato limpido e brillante su tutta la superficie. Al naso si avvertono con estrema immediatezza sentori idrocarburici di gas metano che, dopo qualche istante, lasciano il sopravvento all’elegante parte fruttata scandita da un deciso limone maturo ed a seguire la parte floreale di fiori bianchi, per poi chiudere con un lieve tocco boisè.
Un vino decisamente verticale, in cui la bocca replica simmetricamente quanto avvertito all’olfatto, con una beva che rimane decisamente raffinata e che per certi versi manifesta quella leggiadra parte femminile espressa dalla sua vigneron; è dotato altresì di un’impercettibile oleosità che fa un po’ salivare e che induce ad una continua beva che denota, sul finale, una sottile ma percettibile sensazione iodata e salina. Chiude con una buona persistenza e con un retrogusto decisamente amaricante.
Un gran bel vino, con tutte le caratteristiche dei vini della Francia meridionale e che lascia intendere un’ulteriore evoluzione terziaria nel giro di almeno un quinquennio.
Laura Aillaud è una bellissima scoperta, ma allo stesso tempo deve essere da stimolo nel prendere coraggio delle proprie azioni, per affrontare quel cambiamento, spesso sottovalutato, ma che altro non è che il vero carburante che ci aiuta ad affrontare il bene più prezioso che abbiamo… la nostra vita.