“ Nanin, guarda minga spech…te vedi ul diaul!!!

(mia zia Franca a cavallo degli anni ‘60/’70)


Nelle mie recensioni, ho più volte ribadito di essere nato negli anni ’60 ed ho vissuto per 31 anni in una classica corte lombarda, respirando un’aria intrisa di ruralità e di fatica operaia. 

In casa regnava il dialetto, quello della Valle Olona, anche se mia madre con me e i miei fratelli si è sempre espressa in italiano, ma io ci sguazzavo in quella lingua che sentivo scorrere nel sangue e che identifica orgogliosamente ancora oggi le mie origini. Peccato sia in via di estinzione, fagocitata da una società malata che fa di tutto per uniformarci a proprio piacimento. 

La frase introduttiva è quella che mi diceva spesso mia zia Franca e che tradotta dal dialetto significa; “ Piccolo, non guardare lo specchio….vedi il diavolo!!”. Io come ogni bambino che si rispetta non le davo retta, e lei proseguiva dicendomi: “te se propri un salvadigu…” tradotto, sei proprio un selvatico ed io ero fiero di esserlo, così come il mio essere monello (ma in senso buono) per gran parte della giornata. Volevo bene a mia zia e con lei ho sempre parlato solo in dialetto. 

Lo specchio, di cui tanto sembrava aver timore avvisandomi del pericolo, è davvero così importante ed essenziale nella nostra vita? Potremmo mai farne a meno?

Per molti, riflettersi in un frammento di lastra di vetro su cui è deposto un sottile strato di argento o allumino, fissato per elettrolisi, è fondamentale per il controllo del proprio aspetto e per sentirsi più sicuri di sé.

In una società, come quella odierna, dove l’apparire è molto più importante dell’essere, lo specchio diventa necessario per riflettere la realtà o meglio una mera illusione madida di vanità, che porta inevitabilmente ad innamorarsi della propria immagine riflessa, con il pericolo di emulare metaforicamente Narciso, che vistosi in uno specchio d’acqua, perì annegato nel tentativo di abbracciarsi.

Per gli eterni Peter Pan, lo specchio assume i contorni del ritratto di Dorian Gray e quindi inviso, perché il solo specchiarsi mostrerebbe i segni della decadenza fisica e di un’eventuale corruzione morale e più introspettivamente la rappresentazione della propria coscienza. 

Se penso a mia zia, sono certo di poter asserire che quanto mi diceva di non fare, fosse figlio di un antico retaggio culturale legato alle morti in casa, dove era usanza coprire gli specchi per impedire al diavolo di impadronirsi dell’anima del defunto. Per non parlare poi che se ti si rompe uno specchio la sfortuna ti colpisce per 7 anni…. E’ probabile che volesse farmi prendere paura, così come quando mi raccontava fiabe vagamente gotiche, precorritrice di quel genio di Tim Burton, per tenermi buono ed evitando così che mi intrufolassi di nascosto nel soggiorno buio di casa, per arraffare le ciliegie sotto spirito che tanto mi piacevano, ma che a quella tenera età non facessero poi così bene. 

Lo specchio ha la capacità di duplicazione; se ci specchiamo vediamo la nostra immagine, un altro io o forse il vero io! L’unico modo per affrontarla è guardarsi e capire chi siamo o meglio chi vogliamo essere davvero, non tanto esteticamente ma analizzando la nostra essenza interiore. 

Jorge Louis Borges scrisse che “gli specchi hanno qualcosa di mostruoso”  e che sovente siamo vittime di noi stessi perché spesso vediamo qualcosa di diverso, qualcosa che non ci rappresenta. 

Per quanto mi riguarda, posso affermare limpidamente che le scelte più importanti della mia vita, anche le più dolorose, le ho fatte tutte guardandomi allo specchio!

Carl Gustav Jung, psicoanalista svizzero, si riferiva alla legge dello specchio che non è altro che il riflesso di ciò che abbiamo dentro proiettato sugli altri e ciò che doniamo non è altro che quello che riceviamo indietro. 

Se penso a questo aspetto in chiave enologica, mi sovviene il vigneron Philippe Foreau che ha fatto della legge dello specchio il suo mantra, donandoci vere e proprie chicche enologiche e ricevendo in cambio i continui apprezzamenti degli appassionati e degli altri viticoltori che ne hanno fatto un punto di riferimento della denominazione Vouvray, nella Loira occidentale. 

La famiglia Foreau, dal lontano 1910 si prodiga per dare vita da oltre un secolo a vini che sono un vero e proprio inno allo Chenin Blanc, vinificati con maestria, in tutte le sue forme: bianco secco, semisecco, moelleux o dolce, ma anche le bollicine pregiate, il "metodo tradizionale" di Vouvray, che da tempo rappresentano una delle grandi specialità della casa.

Guidato dal 1983 da Philippe Foreau, enologo, discreto e ispirato, il Domaine possiede un bellissimo patrimonio viticolo di circa una dozzina di ettari, situato principalmente sulle “prime coste” di Vouvray, che si affacciano sul fiume, sul fianco della collina , e occupano i famosi “parrocchetti”, terreni selce-argillosi, più o meno profondi, che ricoprono il sottosuolo tufaceo. I “parrocchetti” contribuiscono largamente a conferire ai vini di Foreau un superbo equilibrio, tra acidità perfettamente controllata, e sostanza generosa, setosa e dinamica.

Philippe Foreau si impegna a preservare l'integrità del frutto e la capacità dello Chenin di trasmettere la mineralità del terroir e di mantenere una freschezza, consentendo tempi di invecchiamento più lunghi. Philippe è chiaramente un amante della purezza e della finezza aromatica. C'è da dire che è dotato di capacità olfattive assolutamente straordinarie. Lo dice anche lui stesso: se non fosse nato "con i piedi nella vigna", probabilmente avrebbe fatto carriera come naso in profumeria. 

Oggi, le redini dell’azienda sono nelle mani di Vincent Foreau, ma Philippe è ancora lì e guardando suo figlio è probabile che si riveda, come in uno specchio che riflette la sua immagine più giovane, ma con la stessa voglia e con lo stesso entusiasmo tramandatogli negli anni. 

Ne è prova la degustazione del Vouvray Sec annata 2019 di 13,7° vol. , stappato un paio d’ore prima di essere servito e che si presenta cromaticamente di un bel colore oro pallido, limpido ed uniforme su tutta la superficie.

Al naso, dopo un accenno idrocarburico in veloce dissolvenza, emerge in pieno la parte fruttata di mela verde Granny Smith e di pesca nettarina ed a seguire la componente floreale di caprifoglio. 

In bocca è estremamente piacevole con una leggerissima viscosità alquanto salivante che induce ad una continua beva e con una notevole struttura che non influisce sulla snellezza e sulla vivacità di questo vino. Corrispondenza naso/bocca da manuale ed ingentilita da una leggiadra sferzata di raffinata ed elegantissima dolcezza che ne impreziosisce la componente gusto olfattiva.

Chiude persistentemente lungo, sempre in perfetto equilibrio e con la sensazione che possa incarnare i connotati di una longevità non indifferente.

Philippe Foreau e suo figlio Vincent potrebbero tranquillamente bearsi allo specchio cullandosi sugli allori di vini maestosi come quello degustato, ma non penso che sia nella loro indole bramare risposte su chi sia il domaine più bello del reame (Vouvray), ciò che conta è che proseguono a lavorare come fatto sin qui per la gioia degli appassionati, come il sottoscritto, che ama lo Chenin Blanc come pochi altri bianchi al mondo.