In questo mese di novembre, negli Stati Uniti, verrà eletto il nuovo Presidente e personalmente ritengo che la scelta degli elettori ricada su due personaggi che non sono in grado di governare una nazione così importante.

Tralasciando la mia opinione politica, una sera, al telegiornale generalista, ho appreso che i “nativi americani” boicotteranno i seggi elettorali in segno di protesta contro una segregazione che ormai va avanti da un secolo e mezzo.

Gli “indiani” o quel che ne è rimasto, sono famosi per aver tramandato la loro saggezza attraverso leggende che si perdono nella notte dei tempi.

Recentemente, per puro caso, mi sono imbattuto in una che illustra le conseguenze del nostro ambiente e le convinzioni limitanti che chi ci circonda a volte ci impone fin dalla tenera età o che ci imponiamo per mancanza di fiducia.

E’ la leggenda e dell’aquila e della pernice.

Un uomo coraggioso un giorno trovò un uovo d'aquila e lo pose nel nido di una "pernice". L'aquilotto nacque in una cucciolata di pulcini di pernice e crebbe  con loro. 

Per tutta la sua vita l'aquila si comportò come una pernice. Cercava insetti sulla terra, ridacchiava come una pernice e quando volava, doveva sollevarsi solo di pochi metri su brevi distanze. Dopotutto è così che dovrebbero volare le pernici.

Gli anni passarono e l'aquila invecchiò. Un giorno vide un magnifico uccello librarsi facilmente nel cielo. Alzandosi con grazia, approfittava delle correnti ascensionali, muovendo appena le sue maestose ali.

“Che uccello ammirevole! » disse l'aquila ai vicini. " Chi è costui ? »

"È un'aquila, il re di tutti gli uccelli", rispose suo fratello. «Ma sognare non ti farà bene. Non sarai mai un'aquila. »

Quindi l'aquila non ci pensò mai più. E morì ancora convinta di essere una pernice.

Cosa significa questa leggenda? Cosa giace dormiente in noi? Qual è la nostra vera natura e come la esprimiamo?

La morale è che spesso siamo preda delle nostre convinzioni e viviamo unicamente delle nostre esperienze che non riusciamo a superare, sia per paura o più semplicemente per non abbandonare la zona di comfort e tutto ciò non ci permette di osare e di essere così intraprendenti per valicare i nostri limiti e le nostre ristrette certezze.

Chi ha osato, senza cadere vittima di condizionamenti esterni, andando oltre i limiti, al pari di un navigante che ha oltrepassato con coraggio le “colonne d’Ercole”, è senza dubbio il vigneron Bruno Clair, il quale, pur fedele alla tradizione, ha saputo contrastare i retaggi culturali, andando a valorizzare un territorio dimenticato da tempo, riuscendo con fatica e sperimentazione a creare vini di estrema qualità. 

Il territorio in questione è quello di Fixin ed il vino che mi ha letteralmente illuminato al pari di una sorta di folgorazione sulla via di Damasco è il suo 

Fixin “Champ Perdrix” (campo delle pernici) annata 2018 di 13,5° vol. che ben si addice alla leggenda summenzionata ed al suo significato intrinseco.

Siamo in Borgogna, nella regione della Cote d’Or e più precisamente nella Cote de Nuits dove dimorano i migliori vigneti di Pinot Noir al mondo e la famiglia Clair è viticoltrice di padre in figlio dall'inizio del XIX secolo. Nel 1919, Joseph Clair sposò Marguerite Daü, una viticoltrice a Marsannay-la-Côte. Lavorarono insieme nella tenuta, poi acquistarono tra il 1930 e il 1960 diversi appezzamenti di vigneto nelle denominazioni Gevrey-Chambertin, Chambolle-Musigny e Morey-Saint-Denis.

La coppia creò il Domaine Clair-Daü nel 1954. 

Negli anni che seguirono, problemi legati agli asset ereditari provocarono un momento di impasse, colmato da Bruno Clair che fondò il domaine che porta il suo nome nel 1979, e che a quel tempo comprendeva piccoli appezzamenti in Marsannay, Fixin, Savigny-Lès-Beaune e Morey-Saint-Denis. Ulteriori vicissitudini familiari della tenuta portarono Bruno, nel 1986, a prendere in affidamento i vigneti dei suoi genitori, fratelli e sorelle che includevano quelli di Chambertin-Clos-de-Bèze, Les Cazetiers, Clos-Saint-Jacques, Clos du Fonteny e alcuni appezzamenti a Vosne-Romanée e a Chambolle-Musigny. Successivamente diversi vigneti furono acquistati dalla proprietà, nel 1993, coinvolgendo Corton-Charlemagne, piccoli vigneti a Pernand-Vergelesses e ad Aloxe-Corton, e nel 1996 Petite Chapelle,  portando dunque la dimensione oggi del domaine a più di 23 ettari E' una cantina estremamente proiettata verso la naturalità e la sostenibilità dei suoi frutti, tutte le uve vengono raccolte a mano e vengono seguite pratiche organiche, anche se nessuno dei vigneti ha certificazioni biologiche ufficiali, sono inoltre estremamente evitati fertilizzanti chimici. Ad oggi coltivano, raccolgono e imbottigliano i propri vini con l'assistenza di André Geoffroy e Philippe Brun, grandi professionisti; è senza dubbio un’azienda dalla gamma particolarmente ampia capace di abbracciare alcuni dei cru di maggior prestigio di tutta la Côte d’Or, che spiccano per finezza e per rigore. Non c’è infatti alcuna etichetta che non si caratterizzi per quel connubio unico che è possibile trovare tra varietà ed identità territoriale, parliamo di vini unici, precisi, sempre eleganti, tra le più fulgide espressioni di tutta la Borgogna.

Bruno Clair ha da poco lasciato le redini dell’azienda in mano ai figli ma mantiene il suo occhio vigile di lunga esperienza.

Questo Fixin “Champ Perdrix” nasce da un vigneto di Pinot Noir piantato nel 1977 di 0,1887 ettari su terreni argillo-calcareo con orientamento Sud-est ad un’altitudine media di 310 m. s.l.m.; vinificazione per 30/50% a grappoli interi e con macerazione di 10-15 giorni in tini di legno. Affinamento 18/20 mesi in botti di rovere di cui il 20% nuove. 

Ma veniamo, come sempre alla degustazione di un vino stappato 3 ore prima di essere servito e che nell’ampio balloon tipo “burgundy” si presenta di un bel colore rosso rubino mediamente carico con più concentrazione nel centro del bicchiere e con riflessi più tenui sull’unghia.

Al naso frutta rossa matura di lampone e ciliegia ed a seguire un tocco di speziatura, per poi incedere con accenni di terziarietà, di cuoio e pellame, per poi chiudere con un finale leggermente balsamico di bastoncino di liquerizia.

In bocca sorprende per un attacco deciso, per una piacevolissima freschezza e per una struttura alquanto bilanciata, dove acidità e mineralità vanno a braccetto; una tenue tannicità, a tratti un po’ rustica, ma nel senso piacevole del termine, viene controbilanciata da una raffinatezza quasi aristocratica.

Persistentemente lungo, chiude con abbondante frutta che avvolge l’intero arco palatale. 

Un vino semplicemente delizioso, ben definito, senza sbavature e che lascia una bella pulizia in bocca. 

Nonostante le modeste dimensioni (circa 100 ettari di Fixin village più una ventina nei climats dei Premier Cru) l’appellation Fixin non rinuncia, grazie alla perseveranza e alla visione “oltre il Vallo” di vigneron talentuosi come Bruno Clair a proporre vini, che seppur stretti nella morsa di terroirs più acclamati come Marsanny ed ancor di più Gevrey Chambertin, fanno veramente tutta la differenza del mondo, così come direbbe il mio amico Emanuele, (www.grandibottiglie.com) facendo la gioia di noi inguaribili innamorati borgognoni.

Alla prossima.