Oh yes, I’m leaving (Feel no sorrow),
got to go (Feel no shame)
Got to go (Come tomorrow),
I’m sorry I must tell you (Feel no pain)
Goodbye, Mary (Goodbye, Mary),
goodbye, Jane (Goodbye, Jane)
…..
( Goodby stranger – 1979 Supertramp)
Il mio percorso musicale, che si concentra e si arresta sostanzialmente nell’arco del ventennio ‘60/’70 del secolo scorso mi ha portato a sperimentare le diverse correnti del rock. Uno dei gruppi più sottovalutati che ho potuto apprezzare, ma non così in fondo come ora, è senza dubbio quello dei “Supertramp”, quelli di Roger Hodgson e Rick Davies.
E’ probabile che da più parti li si consideri come un passaggio veloce al pari di una meteora, forse perché oscurati da band più popolari che a fine anni ’70 facevano lo stesso tipo di rock progressivo, quali i Toto e i Genesis.
Mi sono sempre chiesto cosa stesse a significare “Supertramp” e alla fine ho scoperto che è molto probabile che il nome fosse stato affibbiato nel 1969 dal miliardario olandese Stanley August Miesegeas che li produceva; un massone che unì i due sostantivi Super e Tramp, che sono i sinonimi di Great e Whore, ovvero “La grande meretrice”, soprannome della mitica città di Babilonia citata in quel modo nel Libro della Rivelazione, meglio conosciuto come l’Apocalisse di Giovanni. Su questo aspetto ritornerò nel finale…..
Il loro album più famoso è senza dubbio “Breakfast in America” pubblicato nel 1979 nel quale si evidenzia la bravura strumentale dei componenti con un lavoro decisamente raffinato e con tratti decisamente umoristici, per non parlare del loro inconfondibile falsetto in certe canzoni che hanno sempre diviso; c’è chi li amava e chi li odiava.
Una delle tracce che in questo periodo sento più mia è data dalla canzone Goodby Stranger che parla dell’addio alle persone della propria vita, sia quelle amate, ma anche a quelle indesiderate, il tutto alla costante ricerca di quell’equilibrio che è così fondamentale nella nostra esistenza.
Il testo esprime l'emozione di dover dire addio a qualcuno che si è amato, ma che ora non è più parte della propria vita.
Quindi, “Goodbye Stranger” (ciao straniero) altro non è che il riferimento ad una persona che dall’essere stata partecipe, nel bene e nel male nella propria esistenza, ora diventa completamente straniera ovvero estranea.
Parla anche di prendere la vita di petto e di comprendere che separarsi da certe persone è assolutamente necessario per continuare un percorso che sia fedele a chi realmente siamo e a quello a cui aspiriamo.
Il tema dell’addio e comunque della separazione è sinonimo di cambiamento, in parte al superamento di momenti difficili ma ancor di più sulla costante crescita personale. Ecco perché il cambiamento andrebbe cavalcato con fiducia e non osteggiato con inutili resistenze, e spesso dirsi addio è assolutamente necessario per evolvere al meglio.
Ne sanno qualcosa i fratelli Gros fondatori del Domaine Gros Frère et Soeur che hanno dovuto prendere una drastica decisione nella successione e partizione dei vigneti di una delle grandi e storiche famiglie borgognone.
Separarsi dai parenti prossimi è stato un indubbio e fruttifero cambiamento…
Discendenti del patriarca fondatore Alphonse Gros che iniziò il tutto nel 1830 quando si installò nel leggendario villaggio di Vosne Romanèe in seguito al matrimonio con Julie Latour. Ad Alphonse succedette il figlio Louis Gros e alla sua morte, avvenuta negli anni ’60, le strade dei figli si divisero inevitabilmente e vennero creati tre domaine: Anne Gros, A-F.Gros e Gros Frère et Sœur.
Il “fratello e la sorella” sono Colette e Gustave.
Il Domaine ha attualmente 20 ettari di cui 4 appezzamenti di Grands Crus (Richebourg , Echezeaux , Grands-Echezeaux e Clos-de-Vougeot ), circa un ettaro di Vosne-Romanée Premier Cru e poco più di 3 ettari di village a Vosne-Romanée. Produzione di estrema qualità di 100.000 bottiglie.
Dal 1984, il domaine è diretto dal figlio di Gustave, Bernard ( al quale oggi si è unito il figlio Vincent), che ha portato inevitabili modifiche, come l’ampliamento dei vigneti, la sostituzione di piante con nuovi cloni di maggior qualità, dando anche un’impronta più dinamica sia in vigna che in cantina, conservando la tradizione secolare, ma prediligendo brevi macerazioni e lunghi affinamenti in botti di primo passaggio.
Alla fine degli anni novanta ha acquistato una parcella di 12 ettari (3 bianchi e 9 rossi) nel comune di Concoeur et Corboin, nelle Hautes Cotes de Nuits e propri da queste parcelle ho degustato il suo Hautes Cotes de Nuits annata 2019 di 14,00°vol., un pinot noir in purezza che, versato nell’ampio balloon tipo Burgundy, si presenta cromaticamente di una bella livrea di color rosso rubino mediamente carico più concentrato verso il centro e con riflessi rosacei sull’unghia.
Al naso, in bella evidenza la parte fruttata a polpa rossa, ciliegia, ribes e lampone e quella speziata dove prevalgono accenni di terziarietà rappresentata da tabacco, cuoio da suola, pellame e sul finale un tocco di chiodi di garofano e di liquirizia dolce.
In bocca entra con decisione ed è dotato di una bella freschezza, con ancora i tannini che si fanno sentire lasciando un palato vagamente gessoso. Pulito, strutturato e con un bel equilibrio tra acidità e mineralità e con una certa sapidità che si avverte una volta completamente deglutito.
L’alcoolicità presente non si sente minimamente; il sorso non dà mai la sensazione di calore in bocca.
Lunga persistenza aromatica su di un finale sicuramente morbido ma anche decisamente raffinato.
I vigneti delle Hautes Cotes de Nuits, con le altitudini medie superiori al resto della cote d’Or stanno diventando molto interessanti perché, causa il cambiamento climatico, sono molto meno stressati dal caldo e la qualità sembra beneficiarne e non poco.
Un village che non tradisce le attese e al quale sarebbe impossibile dirgli “Goodbye Stranger….” al punto che lo vorrei sempre presente nel proseguo del mio percorso di vita.
Un piccolo aneddoto: il finanziatore dei Supertramp, il magnate olandese citato in precedenza, era un massone dichiarato e come tutti massoni lanciava messaggi subliminali….
Nella copertina dell’album “Breakfast in America” è raffigurato lo skyline di Manhattan interpretato come se fosse un piatto con coltelli e forchette. Dettaglio non di poco conto è che il tutto è osservato dal finestrino di un aereo.
Se si posiziona l’album davanti a uno specchio, si può vedere chiaramente che le lettere U e P nascoste dietro le torri gemelle formano la data 09/11, che, all’americana indicano l’11 settembre!!!
Casualità…..ma questa è tutta un’altra storia.
Io vi lascio il dubbio e intanto degusto alla vostra salute.