…perché sento una gioia immensa quando scendo
giù per la gola d’un uomo affranto di fatica,
e il suo caldo petto è una dolce tomba
dove sto meglio che nelle mie fredde cantine.
(L’anima del vino – Charles Baudelaire)
Sono figlio degli anni ’60 e ho vissuto la mia giovinezza in quel periodo particolare identificato come “gli anni di piombo” in cui si verificò un’estremizzazione della dialettica politica che produsse violenze di piazza, lotta armata e terrorismo. Agli inizi degli anni ’80 ho frequentato il quinquennio di Ragioneria in un Collegio privato in cui, per non alimentare ed esacerbare gli animi, si studiavano quasi esclusivamente i poeti e gli scrittori classici, mentre avrei voluto che ci si soffermasse su quelli che furono definiti “i poeti maledetti”. La loro stagione venne aperta con la raccolta “Le fleurs du mal” (i fiori del male) di Charles Baudelaire, che, se la memoria non mi inganna non verrà mai menzionato dal mio insegnante di Italiano, un uomo, apparentemente anarchico ma che si limitava a seguire uno spartito probabilmente imposto dalla classe ecclesiastica che gestiva la mia scuola.
I poeti maledetti erano così chiamati per la loro vita sregolata, per l’uso e l’abuso di alcool e droghe e per il rifiuto della morale e del conformismo borghesi. Seguaci di Baudelaire furono in sequenza i conterranei Verlaine, Rimbaud e Mallarmè.
Baudelaire nacque a Parigi nel 1821, ma rimase presto orfano di padre e quando la madre si risposò con un ufficiale in carriera, si sentì come tradito; divenuto maggiorenne entrò in possesso dell’ingente eredità paterna, ma il patrigno, per evitare che la dilapidasse, lo mise sotto tutela di un notaio, il quale gli elargiva mensilmente un modesto stipendio.
Baudelaire cominciò allora a lavorare come giornalista e critico d'arte e di musica, dandosi poi ad una vita sfrenata e dispendiosa, vivendo in un lussuoso appartamento con l'attrice mulatta Jeanne Duval. Incalzato dai debiti si immerse nella vita squallida e miserabile della metropoli parigina, dandosi all’alcol e alla droga, anche se avvertì sempre un enorme senso di colpa, sentendo il bisogno di un riscatto che non arrivò mai completamente.
Colpito da paralisi, morì nel 1867, assistito dalla madre.
Nel 1857 pubblicò “I fiori del male”. Quest'opera venne condannata per oscenità e oltraggio alla morale e fu parzialmente censurata e rappresenta una sorta di biografia dello scrittore in un ideale percorso della propria vita, alimentato dalle esperienze del degrado parigino e del continuo desiderio di fuga dalla realtà attraverso l’alcool, la droga e gli amori devastanti.
Il titolo dell’opera pone in essere due parole nettamente in contrapposizione, i fiori che rappresentano la bellezza che solo l’arte sa creare e il male che rappresenta la corruzione del mondo, che può essere annientata unicamente dall’arte, che testimonia il passaggio dell’uomo sulla terra, nella sua accezione migliore.
Ma il vino, così ben enunciato nei versetti iniziali di questa recensione, cosa c’entra? Ebbene, il vino c’entra eccome perché per Baudelaire, oltre a rappresentare un sommo piacere, era anche il mezzo per elevarsi a livello poetico, in grado di veleggiare su di una realtà consolatrice, di evasione ed ispiratrice nelle sue creazioni poetiche, al punto che lui stesso ripeteva sovente:
"E’ ora di ubriacarsi. Ubriacatevi, per non essere gli schiavi martirizzati dal tempo. Ubriacatevi in continuazione, di vino, di poesia, di virtù, come volete".
All'interno dei "I fiori del male" si trova un'intera sezione dedicata al nettare di Bacco. Un gruppo di cinque poesie intitolate "Il vino", tutte ambientate in una uggiosa e malinconica Parigi, nelle quali il vino è sempre presente, con diverse funzioni, in cui l’unico vero rimedio è lo stato di ebbrezza.
Mentre scrivo queste poche righe, me l’immagino assorto nel suo lussuoso ma grigio appartamento della ville lumière, intento a trovare l’ispirazione ed accanto a sè un bicchiere riempito per metà di un vino rosso sangue e non so perché ma ho come la sensazione di vederci un Beaujolais, un Brouilly “Pierreux” di Nicolas Boudeau che anch’io, molto modestamente sto degustando nella stesura di questa recensione.
Enologo appassionato, nato nel cuore della zona di Cognac, nel 1999 si innamora del terroir del Beaujolais e dopo diversi anni di attività salariale allo Château des Jacques, allo Château de Bellevue e allo Château du Moulin-à-Vent, ha rilevato nel 2007 una piccolissima azienda vinicola di 4 ettari a Odenas, ampliandosi negli anni con nuovi appezzamenti vitati a Brouilly e a Beaujolais villages. Attualmente è proprietario di 15 ettari, lavorando per mantenere la biodiversità nelle vigne grazie in particolare all'inerbimento degli appezzamenti giovani, alla lavorazione del terreno e alla piantagione di siepi lungo le vigne, che ha permesso di ottenere dalla vendemmia 2017, il riconoscimento TERRA VITIS: l’unica certificazione di viticoltura sostenibile riconosciuta in Francia. Proseguendo in questo approccio, a partire dalla vendemmia 2018, ha ottenuto la certificazione HVE (Alto Valore Ambientale) al livello massimo (III) che certifica che gli elementi di biodiversità (siepi, fasce erbose, alberi, fiori, insetti, ecc.) sono ampiamente presenti nell’ azienda e che la pressione delle pratiche agricole sull’ambiente (aria, clima, acqua, suolo, biodiversità, paesaggi) sia ridotta al minimo.
Sempre alla ricerca dell'armonia con la natura, nel 2019 ha ottenuto la conversione alla viticoltura biologica.
Con una calma formidabile e imperturbabile, segue la sua linea guida e avanza instancabile. Durante la vinificazione trasmette questa tranquillità ai suoi vini caratterizzati da una potente sensazione vellutata.
Ma vediamo che emozioni riesce a fornirmi questo Brouilly “Pierreux” di 13,0°vol., votato alla Citè Internationale de Lyon come miglior Gamay al mondo nel 2022 per l’annata 2020, dove i 150 degustatori presenti hanno confrontato alla cieca ben 738 campioni provenienti da tutto il mondo e dal vitigno Gamay. Un vino proveniente da una cuvèe di vigneti di uva Gamay Noir a succo bianco di circa 60 anni di età media con una densità di 10.000 ceppi/ha su terreni di granito rosa e rocce vulcaniche silicee. Ragionevole protezione fitosanitaria certificata HVE III - assenza di insetticidi - raccolta manuale a maturazione ottimale. Diraspatura 50%, macerazione semicarbonica con controllo della temperatura inferiore a 30°C per 14 giorni. Diraspatura e pigeage di 12 ore. Pressatura pneumatica soffice. Affinamento in tini per 8 mesi prima dell'imbottigliamento.
La bottiglia va stappata almeno 3 ore prima di essere servita in quanto ha bisogno di ossigenazione, indispensabile per dissolvere la riduzione avvertita con immediatezza al naso. Versato nell’ampio balloon da degustazione, si presenta di un bel colore rosso rubino mediamente carico con un po’ più di concentrazione al centro del bicchiere, limpido e brillante e con lievi sfumature violacee sull’unghia.
Al naso si avverte inizialmente una componente leggermente speziata, prima di immergersi in sensazioni fruttate molto eleganti di lampone, amarena, mirtillo e fragolina di bosco ed a seguire anche note floreali appena accennate di violetta di campo e rosa appassita.
In bocca è un vino decisamente appagante che gioca tra una beva generosa e allo stesso tempo giocosa, quasi festaiola e che si esprime con tannini che avvolgono l’intero arco palatale con una setosità ammaliante e seducente.
Ha carattere e un bel potenziale allo stesso tempo che fa presagire che potrà evolvere ulteriormente se lasciato ancora qualche anno in cantina. Persistenza decisamente lunga su di un’abbondante frutta succosa. Un Gamay (in questo caso sotto l’appellation Brouilly) che entusiasma sin dal primo sorso e che ti induce ad una continua beva, come se non ci fosse un domani.
Questa opera di Nicolas Boudeau ha senza orma di dubbio l’anima di un fiore, ma non del male, testimoniando, se ancora ce ne fosse bisogno, che il vino non è una bevanda alcoolica ma una forma d’arte che impreziosisce e che migliora la nostra breve esistenza.