..and there’s nothing you can do to change it back, she said

nothing you can do but sing,

this love is a fragile thing,

this love is my everything

but nothing you can do to change the end!”


(A FragileThing- 2024/ THE CURE)

Non mi sono fermato durante quelle che dovrebbero essere “le vacanze di Natale e di fine anno”. Ho sempre lavorato e forse, per certi versi, è stato meglio così, anche perché ogni anno che passa avverto crescere un certo fastidio, soprattutto nel vedere quanta ipocrisia ci sia attorno a queste festività. 

Per fortuna a prendersi cura di me c’è l’inossidabile Virgin Radio che riesce sempre a diradare, nel mio “viaggio” serale di ritorno verso casa, le nebbie che si sono addensate durante la giornata lavorativa.

Da alcuni giorni, immancabilmente, trasmettono il secondo singolo dei “The Cure”, dal titolo “A Fragile Thing”  (trad. Una cosa fragile) che ha anticipato il disco “Song of a lost world” uscito il 01/11/2024.

Per chi non li conoscesse, sto parlando di una band formatasi nel lontano 1978 e che in tutti questi anni ha venduto oltre 30 milioni di dischi, venendo inserita nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2019. I The Cure sono considerati fra i gruppi musicali inglesi più influenti di sempre, che hanno dato vita in tutta la loro carriera a una musica caratterizzata da sonorità cupe e da testi malinconici e da sempre considerati i maggiori esponenti del genere dark

Il successo planetario arriva con immediatezza nel 1979 con il brano simbolo della band, quel “Boys don’t cry” che rivela al mondo il supremo talento di Robert Smith, leader del gruppo e vocalist, nel riuscire a costruire melodie pop nostalgiche, come la sua indole, che evocano un’infanzia perduta destinata ad essere evocata e rievocata con rimpianto. Da quel successo non si sono più fermati… 

“ A Fragile Thing” ha la capacità di catapultarti a ritroso nel tempo, riportando le sonorità del periodo iniziale, in un osmotico viaggio tra il dark ed il rock gotico, con un ritmo incalzante ma assolutamente malinconico, con la voce di Smith, inconfondibile e commovente nel suo incedere e con un testo di nostalgica mestizia, al limite del piacere.

Ho letto un’intervista del leader, che mi ha fatto riflettere e che a proposito del brano dice:

“A Fragile Thing è una canzone ispirata alle difficoltà che incontriamo nello scegliere tra esigenze che si escludono a vicenda e da come affrontiamo il futile rimpianto che può seguire queste scelte, per quanto siamo sicuri di aver fatto le scelte giuste….spesso può essere molto difficile essere la persona che si ha davvero bisogno di essere.”

Essere quello che si vorrebbe non è mai semplice, a volte siamo di fronte a scelte difficili, come quella di recidere rami secchi intorno a noi, altre volte ci sono condizionamenti e convenzioni sociali che non permettono di essere quello che vorremmo e ci si può sentire sopraffatti, come posti in un angolo e senza equilibrio finiamo in preda a sgomento e frustrazione. 

Trovare la propria strada, la propria dimensione è un compito che può impegnarci tutta la vita e a volta senza successo, importante è considerare il fatto di dover avere più consapevolezza su quel che vogliamo davvero per noi stessi e cosa fare per ottenerlo. 

Ci sono però persone che si sono realizzate sentendo emergere quotidianamente la forza del proprio essere, trasferendo questa benefica energia in quello che fanno.

Enologicamente parlando è il caso del vigneron alsaziano Marc Tempè, che, ha saputo trasmettere questa energia identitaria attraverso valori come il rispetto, l’eccellenza, la convivialità e la passione, riuscendo a dar vita a vini sublimi, sentendosi quel vignaiolo che ha voluto essere con fermezza e a tutti i costi. 

Dopo undici anni all'INAO ( l’Institut National de l'Origine et de la qualité un'istituzione statale francese con sede a Parigi, che dipende dal Ministero dell'Agricoltura e responsabile della supervisione degli alimenti prodotti nel Paese d'origine) ad occuparsi di garantire l’origine controllata anche dei vini, ha capito che quello che faceva gli stava stretto, ma  doveva essere un viticoltore a tutti gli effetti e nel 1995 ha rilevato la piccola tenuta di famiglia di 8 ettari, coadiuvato dalla moglie. 

I 20 ettari attuali  di vigneti del Domaine Marc Tempé (azienda dislocata a Zellenberg) sono dislocati su una trentina di appezzamenti, compresi nei comuni di St. Hippolyte, Hunawihr, Zellenberg, Sigolsheim e Kientzheim, caratterizzati da una peculiare  identità microclimatica. In queste parcelle vengono allevati i vitigni tradizionali Riesling Renano, Pinot Gris, Gewürztraminer, Pinot Blanc, Muscat, Sylvaner, Chasselas e Pinot Noir. Dal 1996 Marc segue i dettami steineriani della biodinamica, agendo in sinergia con la natura e salvaguardando l’ecosistema per le generazioni future. In quest’ottica, è bandito l’utilizzo di prodotti chimici di sintesi in vigna, sostituiti da rame e zolfo, mentre per stimolare le naturali resistenze della pianta vengono applicati preparati vegetali, animali e minerali. Inoltre, le operazioni agronomiche ed enologiche seguono il calendario lunare e planetario.

In cantina, tutto è orientato a lasciar parlare i singoli terroir, e si interviene solo se necessario; la maestria di Marc si manifesta nella perfezione formale dei vini, ottenuti da fermentazione spontanea, maturazione in pièces usate o botti grandi per periodi lunghi (la media è 24 mesi) e solfitazione leggerissima solo all’imbottigliamento, talvolta neppure operata.

Il vino che ho degustato è il suo RIESLING Grand Cru SCHOENENBOURG annata 2018 di 14,5° vol., che in questo caso amleticamente parlando non lascia alcun dubbio sul “essere o non essere”.

Ma veniamo all’assaggio e alle note di degustazione di questo vino che si svela nel bicchiere di degustazione in una splendida veste giallo dorato, limpido ed uniforme su tutta la superficie.

Al naso, il primo impatto mi rende felicemente inebriato nel sentire con immediatezza chiare note idrocarburiche in gradevole dissolvenza, soppiantate da un inconfondibile sentore di smalto per unghie. 

Ripreso dopo alcuni minuti, risalta la parte fruttata di pesca nettarina, di delicate nuances citrine di limone surmaturo e subito dopo  un’inconfondibile scia trasversale di miele selvatico.

In bocca è una delicata prelibatezza assoluta, dove si pone in evidenza  la continuazione della dolcezza sensuale ed ammaliante del miele, avvertito all’olfatto, senza essere mai stucchevole perché controbilanciato da un’acidità debordante.

A tratti quasi si mastica ed è corroborante e quasi medicamentoso e rimane decisamente fissato a livello gustativo su tutta l’arcata palatale, con una persistenza considerevole, su di un finale vagamente legnoso ed amaricante. La gradazione alcolica decisamente importante non si avverte ed il vino mantiene una freschezza e una gradevolezza di beva non indifferente. 

Un Riesling da assaporare lentamente, con in sottofondo questo struggente pezzo dei The Cure e di quel grande genio musicale di Robert Smith, che, nonostante sia appesantito, scapigliato e un po’ sfatto dagli anni, riesce sempre ad emozionarmi, così come il sorso di questo nettare che è tutto tranne che a fragile thing…….