Gotta do what it takes
‘Coz it’s all in our hands
We all make mistakes
Yeah, but it’s never too late
to start again…..And fly away from here
(Fly away from here – 2001 Aerosmith)
Ci sono accadimenti o circostanze che nella vita rafforzano convinzioni che dentro di noi appaiono ancora latenti, ma che magicamente emergono con una prepotenza tale, al punto da diventare così chiare da proiettarti in una nuova dimensione di assoluto cambio di prospettive.
Tutto ciò può avvenire, non solo lavorando su sé stessi, ma grazie anche al destino o al fato (chiamatelo come vi pare) che permette di incrociare sul nostro cammino cose o persone che, nel corso del tempo, rappresentano il combustibile che alimenta la nostra crescita e possono contribuire a cambiamenti radicali, dandoti quella spinta necessaria per mettere in moto gli ingranaggi interiori.
Leggendo il titolo di questa recensione, che a pieno titolo entra di diritto nella sezione “visite del cuore” di questo blog ed alcuni versi della canzone “Fly away from here” della leggendaria rock band degli Areosmith, capitanata da quell’istrione di Steven Tyler, ci si potrebbe domandare che cosa c’entri il cappello introduttivo con tutto questo. C’entra eccome, ma facciamo un passo alla volta.
La passione per il mondo del vino che mi accompagna dal lontano 1999 e che non smette di crescere (per fortuna) mi ha fatto più di un regalo; uno di questi è l’aver conosciuto, ma soprattutto essere diventato amico di un grande uomo, Domenico, fine intenditore pistoiese, persona dotata di grande cultura jazzistica, amante dell’arte in tutte le sue forme e al quale ci lega anche il suo trascorso bancario nello stesso Istituto di Credito.
Se ho potuto far visita ad una delle eccellenze italiane nel mondo, lo devo a lui e al fatto che abbia letto, in modo molto trasparente, la mia passione incondizionata, esaudendo un desiderio che si è trasformato in un vero privilegio e che rimarrà marchiato a fuoco sulla pelle per il resto della mia esistenza.
Il mio amore per la Toscana, come regione, è risaputo e di conseguenza anche quella per un vitigno in particolare, il Sangiovese Grosso e per un vino, il Brunello di Montalcino. In altra recensione ho affermato che la scintilla che ha dato il via alla mia passione per questo magico mondo è avvenuta con l’omaggio da parte di un commercialista, avvenuto nel 1999, di una bottiglia di Brunello di Montalcino annata 1994, dell’azienda vinicola Donatella Cinelli Colombini e che rappresenta, ancora oggi, una sorta di “primo cent di Zio Paperone” che conservo in cantina e che non stapperò mai, per ricordarmi ogni volta che la guardo, da dove sono partito e l’evoluzione e le esperienze che ho accumulato nel corso degli anni.
Quando si parla di Brunello di Montalcino, il primo nome che viene in mente è uno solo: Biondi-Santi.
Azienda iconica che si trova nella zona sud-est della collina di Montalcino, sita in quella che viene ancora chiamata Villa Greppo.
Ci si arriva attraverso una classica strada tortuosa e nel percorrerla è impossibile non restare affascinati da un paesaggio segnato da un mare di sinuose colline senza confini e da dolci rilievi pennellati dal color ocra dell’argilla, intervallati dal verde smeraldo dei prati e dei boschi, come nei migliori quadri impressionisti.
L’entrata della tenuta è delimitata da un imponente cancello con ben in vista sui pilastri laterali il nome dell’azienda. Varcata la soglia, che si richiude immediatamente, si ha come la sensazione di aver oltrepassato uno “stargate” e per uno spazio temporale infinitesimale, è come se si venisse demolecularizzati per poi ritornare nel proprio corpo, ma proiettati in una dimensione storica e culturale completamente differente da quella lasciata all’ingresso. Percorrerne il lungo viale alberato di secolari cipressi che portano all’entrata della villa è come immergersi nella storia di questa prestigiosa azienda vinicola e l’emozione ti coglie, quasi impreparato.
Ricordo che non è possibile effettuare visite se non solo attraverso un accredito e questa selezione rappresenta, a mio modo di vedere, un unicum, un benefit concessivo non indifferente.
Ci accoglie la responsabile delle public relations che, doverosamente, dopo averci fatto accomodare, inizia un excursus storico fondamentale per capire cosa rappresenta Biondi-Santi per il Brunello, per Montalcino e per il mondo enologico.
Montalcino è stata attraversata da una viticoltura secolare in cui originariamente il vitigno più coltivato era il Moscadello e serviva come sostentamento del popolo; nel tempo ha fatto la sua comparsa anche il Sangiovese che veniva vinificato ed assemblato con altri vitigni meno pregiati. Il primo ilcinese che ebbe l’intuizione di vinificare quello che viene definito “Sangiovese Grosso” in purezza, fu Clemente Santi a metà ottocento; lo presentò per la prima volta col nome di “Brunello” alla “Esposizione Agraria” tenutasi nel 1869 a Montepulciano e fu insignito della Medaglia d’Argento per l’annata 1865 insieme al Moscadello annata 1867. Clemente, chimico e farmacista, fu il precursore di un lavoro meticoloso in vigna che fu portato avanti in seguito da Ferruccio Biondi-Santi, reso difficoltoso, purtroppo, dall’avvento della fillossera. Nonostante ciò, attraverso selezioni massali, riuscì ad ottenere vigne e grappoli con acini più robusti che lo portarono, con l’annata 1888, ad imbottigliare per la prima volta il Brunello, in una bottiglia di tipo bordolese, etichettata. Ma non solo. Avanti coi tempi, diede vita a una vera e propria operazione di marketing vendendo le bottiglie non direttamente in cantina ma in una sorta di “moderna enoteca” denominata “Fiaschetteria Italiana”.
Nel 1932, il Ministero dell’agricoltura insignisce Biondi-Santi come il padre putativo del Brunello di Montalcino.
Come detto in precedenza, anche Montalcino non fu risparmiata dalla fillossera e anzi, per i Biondi Santi fu questa la sfida più importante. In due generazioni la famiglia era riuscita a dare vita a un vino rivoluzionario, che però rischiava di sparire.
Ferruccio riuscì a reimpiantare il suo vigneto con i cloni del Sangiovese grosso innestandoli su viti americane resistenti alla fillossera. Nasce così il “clone BBS/11” (Brunello Biondi Santi, vite n°11).
Quando Ferruccio muore, lascia tre figli, ma sarà Tancredi a prendere in mano le redini dell’azienda, che poteva fregiarsi di essere uno dei migliori enologi del tempo e che ebbe anche il merito di creare una delle prime società cooperative del vino (Cooperativa Biondi-Santi & Co.), ed il primo ad esportare un vino italiano negli Stati Uniti. Inoltre, nel primo dopoguerra diede un’accelerazione a livello istituzionale per poter raggiungere la Doc, che venne poi assegnata nel 1966.
Tancredi Biondi Santi, fu tra i promotori della creazione del disciplinare della DOCG, ma soprattutto fu l’artefice della Riserva 1955, l’unico italiano inserito dalla rivista americana ‘Wine Spectator’ tra i dodici migliori vini del Novecento al mondo, nonché l’ideatore dell’usanza della ricolmatura delle vecchie Riserve.
Nel 1969 Tancredi muore, lasciando Tenuta il Greppo nelle sapienti e salde mani di Franco Biondi-Santi, illustre agronomo ed enologo, custode integerrimo della tradizione, ma allo stesso tempo innovatore al punto di aver introdotto l’uso della refrigerazione nelle fasi della vinificazione.
Nel 1994 Franco Biondi Santi organizza una storica ed esclusiva degustazione verticale di 15 annate di Brunello Riserva, dalla 1888 alla 1988.
Una degustazione leggendaria, riservata a pochi eletti tra giornalisti, enologi, critici, tra i quali il compianto Veronelli, tutti unanimi nel dire che anche le annate più vecchie erano ancora in splendida forma.
Franco muore novantenne nel 2013, lasciando un’eredità pesante alla moglie e ai due figli, dove il maschio Jacopo, già proprietario del Castello di Montipò nel grossetano (con la produzione del Supertuscan Schidione) sembrò assumerne il comando, ma con risultati non esaltanti (mettiamola così) che lo costrinsero a vendere Tenuta il Greppo la settimana prima di Natale del 2016 alla EPI, un grande gruppo indipendente francese controllato dalla famiglia Descours, già proprietaria della Maison Charles Heidsieck e nel 2022 implementata con l’acquisizione dell’azienda vinicola Isole E Olena della famiglia De Marchi (Chianti Classico).
Christopher Descours, si reca almeno un paio di volte all’anno a Montalcino e dal 2017 è sempre presente alla vendemmia.
Spiace che la Tenuta non sia stata acquistata da una cordata italiana, ma la famiglia Descours ha il rispetto della tradizione ed è molto lungimirante.
La visita continua all’esterno, direttamente nel vigneto della Tenuta il Greppo che si perde a vista d’occhio, in un paesaggio davvero unico, in una giornata caratterizzata da un cielo completamente terso, senza una nuvola, che ci permette di vedere nitidamente, in lontananza, il Monte Amiata, che protegge il vigneto dai venti e che contribuisce a mantenere un microclima eccezionale.
33 ettari siti a 470 metri s.l.m. con esposizione nord/est versante est con un terroir scisto argilloso/calcareo e sabbioso, impropriamente classificato comunemente come galestro.
La nuova proprietà, grazie all’enologo Federico Radi, sta portando avanti un lavoro certosino di parcellizzazione, per valorizzare ogni singola porzione di vigna, con le sue caratteristiche e la sua esposizione. Le parcelle vengono mantenute separate e ogni anno si decide quali utilizzare e in quali quantità per creare il Brunello, il Riserva e il Rosso di Montalcino. Nel contempo stanno lavorando alacremente nel recupero del materiale genetico da vigneti storici che hanno tra i 50 e i 90 anni, facendo una selezione massale dopo la potatura, per reimpiantare nuove vigne con lo stesso DNA.
Queste piante, quasi centenarie sono un vero e proprio monumento nazionale; poterle vedere e sapere che Ferruccio, Tancredi e Franco Biondi Santi le hanno curate come un figlio, permettendole di arrivare sino ai giorni nostri, è qualcosa che davvero mi commuove.
Rientriamo in azienda, dopo la bellissima esperienza in vigna per visitare in sequenza, i locali di fermentazione con gli innumerevoli tini, quelli di affinamento con stupende botti di rovere, ma soprattutto indimenticabile rimane la visita al locale contenente la collezione privata delle riserve.
La porta di accesso è allarmata e si può entrare solo con un pass, come nel miglior caveau di una banca; ho pensato di entrare in una sorta di Sancta Sanctorum, nome che mi ha subito rievocato quella parte del tempio di Gerusalemme ove era custodita l'Arca dell'Alleanza, e questo titolo le deriva dal fatto che in essa erano custodite le più preziose reliquie cristiane.
Ecco, forse in modo un po’ blasfemo, è come se mi fossi ritrovato in un reliquario, attorniato dalle 40 annate di Brunello di Montalcino Riserva prodotte in 136 anni di storia a cominciare dalla prima, quella del 1888.
All’interno, nell’angolo più estremo della struttura, un’altra porta, questa volta invalicabile ma contenente le ultime 2 bottiglie rimaste dell’annata 1888 e le ultime 5 dell’annata 1891!!
Personalmente, sono rimasto in religioso silenzio, in una sorta di completa venerazione e rispetto davanti qualcosa di veramente unico.
Ancora frastornati da quest’altra impagabile emozione, ci siamo trasferiti nella splendida sala degustazione, davvero particolare. Un lungo tavolo contenente il necessaire per l'occasione, posto nel mezzo di una imponente sala costeggiata su entrambi i lati da 5 grandi botti e con un soffitto completamente eseguito con travi a vista ed il muro portante in cui campeggia una scritta, finemente dipinta, indicante il nome dell’azienda.
Sulla tavola, oltre a un depliant personalizzato contenente la descrizione dei vini in assaggio, anche tre tesori, tre bottiglie simbolo dell’operosità di Biondi-Santi, vale a dire un Rosso di Montalcino annata 2022, un Brunello di Montalcino annata 2019 e un Brunello di Montalcino Riserva annata 2018.
Un plauso alla nostra interlocutrice, davvero professionale, che pazientemente ha avvinato i tre calici dei partecipanti prima di iniziare con le degustazioni.
Doverosa premessa è il filo conduttore che accomuna tutti e tre i vini e mi riferisco al colore, un rosso rubino talmente limpido e brillante paragonabile alla pennellata che l’artista esegue sulla superficie pittorica, certificandone il suo segno distintivo; i profumi, nel senso che non occorre mettere il naso nel bicchiere, ma sono talmente persistenti al punto che fuoriescono magicamente dall’ampio balloon, venendoti a cercare; la comune sensazione di estrema pulizia in bocca e l’impagabile eleganza e raffinatezza di beva.
Ma andiamo con ordine iniziando dal:
Rosso di Montalcino annata 2022.
Rosso rubino limpidissimo, con note espressive di ciliegia appena matura, in aggiunta a nuances floreali e a una accennata terrosità, con tannini ben integrati e con un’acidità frizzante che gli conferisce nerbo e slancio.
Aromi fragranti, a tratti scalpitante in un concentrato di elevata alcolicità (14°vol.) che a malapena si avverte. Vino equilibratissimo e finale lungo ed armonioso.
Brunello di Montalcino annata 2019.
Rosso rubino limpido con un’impercettibile nota rosacea sull’unghia.
Note fresche di ciliegia marasca, arancia sanguinella, melograno e floreale di violetta di campo, uniti a richiami balsamici, a note terrose e speziate ed in parte di sottobosco. Un vino imponente, quasi esplosivo ma che ha davanti tantissima strada per affinarsi ulteriormente in una debordante terziarietà.
Acidità esuberante e un finale lungo e persistente su di una solida base sapida e minerale, lo caratterizzano e non poco.
Brunello di Montalcino Riserva annata 2018.
Apoteosi nel colore di un rubino che sublima la perfezione cromatica.
Naso di ciliegia marasca, fragolina di bosco, nuances floreali di rosa, note appena accennate di vaniglia e sul finale un leggero tabacco dolce.
In bocca è un rosso armonioso, elegantissimo, raffinato e con un equilibrio infinito, con tannini vibranti e tanta, tanta mineralità.
Lunghezza e persistenza imponente al punto da personificare il vero archetipo del Sangiovese.
Una riserva che ha una lunghissima vita davanti a sé.
La visita finisce qui, ma forse è solo l’inizio di qualcosa di nuovo.
Ripercorriamo lentamente con la nostra autovettura il lungo viale alberato e una coppia di fotocellule oltrepassate ci consente l’apertura automatica della cancellata, di quello “stargate” che scompare dietro di noi lasciandoci immersi nelle nostre infinite emozioni.
In questi particolari momenti, mi sovvengono le parole del mio grande amico William, compagno di mille avventure enologiche, che mi ha insegnato che il vero segreto della felicità e quello di riuscire a rallentare il tempo.
Viviamo in un tempo in cui siamo misurati sulla velocità, sulla frenesia del nostro vivere, prendendo sempre decisioni affrettate, senza mai fermarci a riflettere su quello che realmente sono i nostri desideri e i nostri bisogni. Riuscire a rallentare il tempo, dando importanza anche alle cose più insignificanti e soffermandoci su tutto quello che ci fa star bene, equivale a dare una nuova direzione alla nostra vita.
La visita a Biondi-Santi ha avuto la capacità di rallentare il tempo, avendola vissuta attimo per attimo e questa sensazione l’avverto sempre quando vivo, anche per pochi giorni nella mia amata Toscana, al punto che il ritorno in Lombardia ha accresciuto in me la convinzione che la mia nuova direzione di vita sia in questa terra e che la degustazione dei vini di Biondi-Santi abbiano dato il là alla voglia di volare via, di andarmene da dove vivo ora, riprendendo quindi spunto dai versi del brano degli Areosmith che, tradotti, recitano quanto segue:
Bisogna fare ciò che serve
Perché è tutto nelle nostre mani
Tutti commettiamo errori
Sì, ma non è mai troppo tardi
per ricominciare... E volare via da qui