Chi mi conosce, sa che non amo particolarmente festeggiare i compleanni; non è tanto il dover affrontare Il corso irrefrenabile del tempo, ma più semplicemente il dover sottostare a delle convenzioni sociali che non fanno parte del mio Dna. Probabilmente il fatto di essere al centro dell’attenzione in quel determinato giorno un po’ mi infastidisce, tra l’altro non tutti sanno che le feste di compleanno hanno origini pagane, nel senso che queste ricorrenze derivano dalla credenza che nel giorno del compleanno spiriti e influenze malvage hanno l’opportunità di attaccare i festeggiati e che la presenza di amici e gli auguri aiutano a proteggerli. A volte però, festeggiare può valerne veramente la pena e mi riferisco alla serata di degustazione che ho preparato per i miei 50 anni (marzo 2016). Per scaramanzia (questa è stata una delle poche volte in vita mia che lo sono stato) ho voluto anticipare il festeggiamento prima della ricorrenza anagrafica (29 luglio), quasi ad esorcizzarla.
Volevo stupirmi e stupire i miei compagni e penso di esserci riuscito; l’intenzione era di ottenere la serata perfetta e indimenticabile sotto il profilo delle emozioni che avrebbero suscitato i vini in degustazione e la gratitudine espressami a fine serata ne è stata la degna prova. Devo affermare altresì che I miei “soci” non sono stati da meno, visto che hanno avuto il “buon cuore” di omaggiarmi con una bellissima bottiglia di Riesling Scharzhofberger Auslese di Egon Muller annata 2014, conoscendo la mia passione per i bianchi da invecchiamento e per i Riesling della Mosella.
Unica avvertenza per il lettore è che serate del genere, comportano un costo non ripetibile con frequenze costanti (almeno per le mie tasche) ed è giusto che sia così, altrimenti entreremmo in un’inevitabile routine che avrebbe la spiacevole conseguenza ad ambire a qualcosa di superiore e quindi di più costoso.
La location della serata è la taverna dello zio Mario a Rescalda (MI) e con un salto di 806 km ci ritroviamo per magia a Reims, aprendo le danze con un Dom Ruinart Rosè 1996. Ho avuto il privilegio di visitare la Maison più antica di tutta la Champagne (anno di fondazione 1729) nel 2011 ed è stata una di quelle visite che definisco indimenticabili. Fu allora che degustai per la prima volta il Dom Ruinart Rosè 1996 e visto che la Maison, notoriamente come tante altre non vende al pubblico, decisi con l’inseparabile Paolo di acquistarlo all’enoteca “Le Parvis” (che definirei il “paradiso” degli Champagne) sita di fronte alla magnifica Cattedrale di Reims ed esattamente in Rue Rockefeller 2. L’intento era in primis di averlo a tutti costi e secondariamente di aprirlo al compimento del mio cinquantesimo compleanno, anche per capire l’evoluzione nell’arco di un quinquennio. Detto fatto.
Quando ci si appresta a stappare e a degustare vini di un certo livello, personalmente tendo ad avere la giusta predisposizione d’animo, a volte ossequiosa e di estremo rispetto verso veri e propri sorsi di storia.
Il Dom Ruinart Rosè 1996 innanzitutto si presenta visivamente di un bellissimo colore ramato antico, con una presa di spuma notevolissima e con un perlage nel flute che assume le sembianze di una finissima collana infinita, ma è al naso che diventa protagonista, con sentori di frutti rossi, ribes e melograno e nonostante i 20 anni di età (al momento della degustazione) è fresco, elegante e delicato.
In bocca entra pulito, nitido, estremamente persistente e con il frutto che ti avvolge, con un’acidità tracciante, con una mineralità a tratti ferrosa e con note di ginger, per defluire dolcemente verso una punta di sapidità che ricorda le ostriche della Bretagna. La persistenza aromatica è veramente lunga. Bevi e ne vorresti sempre di più perché ad ogni assaggio le sensazioni mutano e ti avvolgono pervadendo in modo inebriante tutti i sensi.
La sensazione è che non sia ancora al culmine della sua evoluzione e penso che il top lo possa raggiungere nel giro di qualche anno.
L’abbiamo abbinato a dell’ottimo culatello.
Bottiglia svuotata in breve tempo lasciandoci quasi esterrefatti!!!
Ci dirigiamo verso sud e con un balzo di 1.412 km atterriamo a Loreto Aprutino (Abruzzo) inchinati davanti (a parer mio) al miglior vino bianco italiano, ovvero il Trebbiano Valentini degustato nell’annata 1993. Parliamo di una delle cantine più vecchie d’Italia, il cui anno di fondazione porta la data del 1650, diretta oggi da Francesco Valentini che ha ereditato la lungimiranza del padre Edoardo. Anticonformista di livello, Francesco non ha cellulare, non ha mail, nessun depliant pubblicitario né un sito internet. Poco marketing, ma solo una gloriosa produzione artigianale ed il vanto di essere il paladino del Trebbiano. A margine della degustazione gli ho inviato una raccomandata di complimenti su quanto bevuto, ma non ho avuto alcuna risposta. Poco male, lui è fatto così.
Un vino bianco con 23 anni sulle spalle, anche se è il migliore, desta sempre qualche preoccupazione di tenuta e la speranza di non essere delusi è sempre dietro l’angolo. Mi confortava il fatto che l’avessi acquistato dall’amico Emanuele Spagnuolo, abile enotecario torinese (www.grandibottiglie.com) che sa il fatto suo.
Tappo in perfette condizioni e nel bicchiere di un bel colore dorato con leggerissime velature.
Lo lasciamo ossigenare il tempo necessario per avvertire profumi di fiori di campo, di camomilla, di erbe della macchia mediterranea, di grano, di lime e di frutta, ananas su tutte. In bocca è un gioco di armonia tra acidità e sapidità dove il richiamo del limone e dell’ananas ritornano e sul finale un retrogusto quasi di resina, pepe bianco olive e miele. Col passare del tempo e con un aumento della temperatura il vino migliora ancora ed è molto persistente, quasi masticabile. Io sono solo un amatore ma il Trebbiano Valentini tiene meravigliosamente testa ai migliori bianchi francesi!!!
Che dire. Superlativo e incredibilmente con ancora tanta vita davanti!!
L’abbiamo abbinato ad una carbonara, assaporandolo lentamente e con la speranza che non finisse mai nel bicchiere.
Un attimo di respiro e spostandoci idealmente verso nord ovest per 692 km ci ritroviamo a Barolo, ambiente a noi molto famigliare, a bussare la porta al compianto Bartolo Mascarello, degustando il suo Barolo annata 1991. Qualcuno ha detto che nella vita è meglio avere rimorsi e non rimpianti ed il rimpianto di non aver conosciuto il vecchio Bartolo, accontentandoci dei racconti e delle testimonianze di chi ha avuto il privilegio di conoscerlo o di viverci insieme (abbiamo conosciuto la figlia Teresa, attuale proprietaria il 03/09/2010) è sempre presente. Quello che avevo da sempre desiderato e forse più di ogni altro l’amico Paolo, barolista doc, era poter degustare un Barolo fatto da lui.
Strenue difensore della tradizione e di un Barolo frutto di un blend dei suoi migliori vigneti, Bartolo è stato considerato non un semplice vignaiolo ma un uomo che ha lasciato in eredità valori morali inestimabili. Accostarsi al suo vino e ad un’annata difficile come la 1991 è stato un non so che di sacrale.
Versato con delicatezza nel bicchiere, si presenta con l’unico e inimitabile colore del barolo, ovvero rosso granato con riflessi aranciati sull’unghia; il vino è estremamente vivo e al naso sprigiona i suoi sapori tipici , viola e petali di rosa ed a seguire frutti rossi (prugna), pepe, noce moscata e un tocco di liquirizia morbida. In bocca entra avvolgente e incredibilmente morbido, è di corpo e nonostante i 25 anni sulle spalle il tannino sembra abbia bisogno ancora un po’ di levigatura. Acidità e persistenza da vendere. Impressionante.
Che dire, di fronte a certi vini rimani senza parole.
L’abbiamo abbinato a Grana Padano invecchiato 36 mesi, ma col senno del poi avremmo potuto berlo da solo. E’ stato centellinato e degustato amorevolmente e nel suo vino, a tratti, ci ho visto dentro i filari di vite.
Non siamo ancora sazi e dirigendoci ulteriormente a nord-ovest per altri 966 km. ci ritroviamo nel paesino di Preignac nel Dipartimento della Gironda nella regione dell’Aquitania, pronti e decisi a degustare il re dei Sauternes, il mitico Chateau d’Yquem annata 1991. Per parlare d’Yquem, dovremmo prenderci una giornata di tempo talmente è intriso di una Storia che dura da oltre quattro secoli. Abbiamo avuto la fortuna di fare una delle visite più spettacolari nell’aprile 2010 e ancora oggi ricordo con enorme piacere la degustazione direttamente allo Chateau dell’annata 2004, che Monsieur Pierre Lurton, presidente d'Yquem ha definito come l’annata perfetta. Sapere che una sua bottiglia del 1811, pagata 117.000 dollari sia la più preziosa di vino bianco finora venduta al mondo, mette i brividi. Accostarsi a Yquem è come appropriarsi di un “savoir vivre” di lusso e di eleganza, al pari delle grandi griffes appartenenti al gruppo LVMH (attuale proprietario), ma allo stesso tempo è un simbolo che va oltre le mode, quasi fosse eternamente sospeso nel tempo. E’ la magia del divenire vino botritizzato dall’unione di due vitigni quali il Sauvignon Blanc ed il Semillon, artefici, con il terroir dell’enclave di Graves e della Garonna di una magia quasi celestiale.
Mi accingo a stappare la bottiglia (formato da cl. 75) e commetto l’errore di utilizzare un cavatappi tradizionale, rompendo maldestramente il tappo a metà. Mi raccomando, per i vini di una certa età è sempre meglio utilizzare il cavatappi a lamelle, per non incorrere in situazioni simili. In effetti il tappo si è un po’ sfaldato e mi mette ansia pensando che il vino potesse essere difettoso. Nulla di tutto ciò.
Lo verso nel bicchiere e si presenta di color oro antico con leggerissimi riflessi aranciati sull’unghia; aspettiamo qualche minuto prima di passare all’esame olfattivo restando in contemplazione della fluidità dell’Yquem nell’ampio bicchiere e della livrea dell’elegante bottiglia con l’inconfondibile etichetta mai mutata nel tempo.
Ci mettiamo il naso e veniamo sopraffatti da un tripudio di albicocca, di miele, frutta a guscio, mela cotogna, buccia d’arancia e canditi. In bocca è un vero e proprio rosolio, morbidezza, equilibrio di ricchezza e acidità, fresco, minerale e salivante con una persistenza decisamente lunga e miele e ancora miele che investe le papille gustative che per attimi si appropriano della corona riportata in etichetta. Per così dire papille regali, come poche volte nella vita. E’ stato abbinato con il classico dei classici, ovvero Foie Gras de Canard Entier mi-cuit IGP Périgord. Indimenticabile.
Dulcis in fundu, restando nei paraggi ci spostiamo di 146km fino ad arrivare ad Angeac, comune francese di 379 abitanti situato nel dipartimento della Charente nella regione di Poitou-Charentes. Qui finisce il nostro viaggio ideale e degustiamo un Bas-Armagnac Gaston Legrand annata 1966, il mio anno di nascita. Invecchiato per oltre 40 anni in botti di rovere francese (imbottigliato il 14/09/2008) e riveniente dalla distillazione dei vitigni Ugni Blanc, Baco Blanc e Folle Blanche & Colombard.
Visivamente è un misto di ambra scura e cuoio ; al naso si avvertono vaniglia, cacao e spezie dolci di difficile interpretazione. In bocca ricompare un’elegante speziatura, tabacco biondo, legno leggermente tostato, resina e cuoio. La persistenza è infinita.
L’abbiamo abbinato ad un toscano Antica Riserva.
A dire il vero conservo ancora oggi la bottiglia. Ne è rimasto ancora un dito ed ogni tanto, preso da nostalgia, scendo in cantina la stappo, ci metto il naso e mi sento felice, come se rifesteggiassi i miei primi 50 anni !!!