In cuor mio, ho sempre saputo che questo viaggio avrebbe segnato la fine di un ciclo durato ben cinque anni. Inevitabilmente la mente è andata a ritroso nel tempo ad analizzare un periodo che di sicuro ci ha dato la possibilità di crescere, di fare esperienza rendendoci più forti, più pratici ma anche consapevoli che c'è sempre da imparare. L'importante è muoversi con l'umiltà di chi vuole apprendere assorbendo il più possibile, così come la vite, giorno dopo giorno, trae nutrimento dal terreno sul quale è ben innestata.
Per ogni viaggio potremmo coniare una definizione che dà un senso al lungo cammino, che ci ha portato a raggiungere un piccolo traguardo:
nel 2006 la prima tappa in Borgogna/Champagne è stata per definizione "l'iniziazione"; è come se fossimo usciti di casa per la prima volta e per la prima volta siamo andati a scoprire il mondo. Ci siamo scrollati di dosso autentiche autarchie enologiche di ogni genere, bramosi di conoscenza allo stato puro, partendo, tra l'altro, quasi con incoscienza da una delle zone più vocate del territorio transalpino.
La tappa in Alsazia nel 2007 oltre ad offrirci una delle zone più pittoresche della Francia, ci ha fatto cogliere "le differenze" gustative dei vini bianchi rispetto a quelli normalmente degustati nel nostro amato paese e quelle relative all'approccio di vendita dei viticoltori, forse i migliori "commercianti" nell'intero panorama enologico francese.
Il 2008, la tappa in Friuli è stata quella della "consapevolezza" che il nostro paese ci offre ottimi vini al pari di quanto prodotto dai nostri cugini e che il prossimo ciclo sarà propedeutico all'approfondimento dei territori italiani che producono qualitativamente i vini migliori. Un viaggio per non dimenticare le nostre origini, da dove veniamo e soprattutto che cosa beviamo.
Il 2009, il ritorno in Francia, nella Valle del Rodano, con una tappa di "affinamento" e di "approfondimento" di un vitigno per noi solo teorico, lo Sirah. Un terroir particolare, molto minerale e speziato, che ha affinato i nostri sensi, olfattivi e gustativi, quasi in preparazione all'ultimo viaggio che come ho detto, ha chiuso un ciclo; un viaggio difficile, lasciato necessariamente per ultimo, un viaggio inconsciamente preparato per quattro anni, che non avremmo capito appieno se l'avessimo effettuato nel 2006.
Organizzare il viaggio nel territorio bordolese, con trasferimento in Spagna nella rinomata regione della Rioja, per poi ritornare in Francia, facendo una capatina nella Languedoc-Roussillon, la regione con la più vasta estensione di vigneti nel mondo, non è stato uno scherzo se si tiene conto che il tutto doveva necessariamente essere condensato nell'arco di 6 giorni. Un dispendio di energie non indifferente ed un chilometraggio molto impegnativo. Come sempre la scelta della nostra visita ricade ad aprile, prediligendo quest'anno, anche per motivi logistici la seconda parte del mese e più precisamente nei giorni dal 25 al 30. Per noi aprile è un mese strategico in quanto i viticoltori hanno forse più tempo da dedicarci; in vigna è il mese della comparsa delle gemme ed a seguire del fogliame e di sicuro tireranno un po' il fiato dopo aver lavorato alacremente nel mese di marzo per terminare la potatura.
Sono sincero, abbiamo voluto fortemente questo viaggio tant'è che l'attesa è stata spasmodica come non mai. Mi è sembrato di ritornare all'86 durante il servizio di leva a Merano, quando a tre mesi dal congedo incominciavo la "stecca", ovvero cancellavo i giorni che mancavano all'agognato ritorno alla vita civile. Come sempre, gli ultimi giorni antecedenti la partenza sono sempre un misto di frenesia, turbolenza di emozione, passione e voglia a volte di strafare. Sono fatto così e a 44 anni è difficile cambiare.
Sveglia all'alba, solito pratico borsone al seguito, faldone con programma dettagliato, la fidata Toyota Corolla preparata a puntino, gli inseparabili compagni Paolo e Mario, orologi sincronizzati e.........via!!! Un viaggio di 1.012 km. che ci farà raggiungere la cittadina di Gradignan a sud ovest di Bordeaux, nostro quartier generale per 3 giorni.
Il tempo è clemente per tutto il viaggio e ritrovare il tunnel del Frejus, spartiacque tra l'Italia e la Francia, ci rinfranca e ci fa sentire a casa. Una sosta ad un autogrill francese per sgranchirci le gambe e per scrollarci di dosso la levataccia mattutina, evitando di ingerire il caffè annacquato servito esclusivamente da macchinette automatiche, un'ulteriore sosta per rifornirci di benzina e per trangugiare un panino freddo e un po' ciccoso e poi ancora on the road verso la destinazione finale.
Alle 16.30 siamo a Gradignan, un po' stanchi ma sereni. Una serenità che rischia di trasformarsi in dramma al momento del nostro arrivo all'hotel della catena Logis Novalis. E' domenica, l'hotel è chiuso e deserto. Per un istante ho come la sensazione che la prenotazione non sia andata a buon fine. Per poter accedervi occorre munirsi di chiave che viene fornita elettronicamente digitando su un computer il numero di 4 cifre relativo alla nostra prenotazione effettuata su e.booking, via internet. Peccato che il numero di prenotazione stampato sulla ricevuta a mie mani sia di 9 cifre. Tentiamo di tutto, anche combinazioni impossibili degne del miglior Fibonacci e calcoli mentali in stile Maiorana, ma ogni tentativo è vano. Ultima spiaggia un numero di telefono aperto 24 ore su 24 per eventuali problematiche. Irraggiungibile!!! Presi dal panico, manchiamo di lucidità. Per fortuna il sempre più saggio Mario (d’altronde l'età conta!!) ci invita a recarci alla reception dell'hotel adiacente al Logis perchiedere aiuto. La fortuna ci assiste; la madame alla reception chiama il call center del Logis che ci fornisce la password di 4 cifre (2011) e come per incanto ci impadroniamo della chiave e stanchi, ci dirigiamo nella nostra camera tripla che ci ospiterà in terra bordolese.
Una doccia rigenerante, un riposino più che dovuto e poi pronti per una lauta cena che ci rimetterà in sesto. A casa ho selezionato un paio di ristorantini in centro a Gradignan, piccola cittadina, abbastanza curata in cui si respira la classica atmosfera francese, un po' rivoluzionaria e un po' snob, anche se l'ambientazione alle 19.30 di domenica è abbastanza desertica. Inconcepibilmente, per noi italiani, i ristoranti sono chiusi, forse per turno o forse per via della stagione non ancora vacanziera. Stai a vedere che diventa un problema anche mangiare. Cambiamo aria e leggermente sconsolati ci dirigiamo verso il paesino di Pessac cuore della denominazione, qui chiamata "appellation", Pessac-Leognan. All'improvviso compare davanti ai nostri stanchi occhi un locale specializzato in carne alla brace e come per incanto ci ritroviamo con le gambe sotto al tavolo serviti da una gentil donzella, da noi soprannominata per l'occasione con lo pseudonimo di "perona".... vi lascio solo immaginare il perchè. 2 fantastiche entrecote da 350 grammi per me e lo zio, mentre Paolo preferisce del pesce al cartoccio, contorno di pommes frites e di alcune salsine ben servite, vale a dire bernese, moutard e roquefort. Ne approfittiamo subito per gustarci una bottiglia di Saint Emilion e precisamente un Chateau Bellrose Figeac annata 2007 di 13°vol. dal costo di 24 euro, discreto, forse un po' troppo giovane, ma comunque si sposa bene con quanto ci stiamo cibando. Un vino, come tutti i Saint Emilion a base Merlot con piccola parte di Cabernet franc.
Rientriamo all'hotel. Un sorso di Armagnac versato dalla fiaschetta in dotazione a Paolo, il tempo di vedere perdere la Roma in casa contro la Sampdoria (il calcio non manca mai!!) e poi tutti a nanna. Il riposo ci fortificherà per le giornate seguenti, impegnative sotto tutti i punti di vista.
Il mattino ha l'oro in bocca e noi, installato l'orologio biologico, alle 7.00 in punto siamo in piedi, pronti per affrontare l'ennesima avventura, Colazione continentale, se vogliamo un po' scarna, che non giustifica i 9 euro spesi, ma del resto, la tariffa conveniente del pernottamento all'Hotel Logis, doveva essere arrotondata in qualche maniera. Scambiamo due chiacchere con l'addetta di turno alla reception, dimostrando di non aver dimenticato del tutto il nostro francese barbaro, che pian pianino si risveglia, come noi, del resto, alle prime luci di una mattinata fresca e soleggiata. La prima Marlboro per Paolo e poi, montiamo in macchina alla volta di Leognan, destinazione Chateau Seguin, primo produttore dell'omonimo vino versione rouge e blanc sotto la denominazione Pessac-Leognan. Questa piccola apellation a sud di Bordeaux produce rossi raffinati e bianchi secchi a detta di molti tra i migliori del mondo. Per intenderci è la zona del famoso Chateau Haut-Brion anticamente (secolo XVII°) chiamato "Ho Bryan" (proprietari commercianti inglesi) francesizzato nel tempo con l'attuale denominazione.
Leognan dista pochi chilometri dall'hotel, ma nonostante ciò il paesaggio che ci circonda è di sicuro incantevole. E' zona densamente boschiva intervallata da ampie distese a prati verdi ben curati. Avvicinandoci cerchiamo di scorgere i primi vigneti, invano.
Dopo una lunga serie di rotonde, all'approssimarsi della destinazione finale, vediamo in lontananza lo Chateau che ci viene preannunciato da un vistoso cartellone pubblicitario che alberga all'entrata dell'azienda vinicola.
E' doveroso precisare che, le aziende vitivinicole, nel bordolese, vengono denominate chateau, ma ciò non presuppone che obbligatoriamente ci si debba trovare di fronte a veri e propri castelli. Lo Chateau Seguin è la conferma di quanto detto in quanto incarna la classica azienda che potremmo trovare tranquillamente anche in Italia.
La prima sorpresa è di vedere i vigneti, adiacenti all'azienda, posti su terreno esclusivamente pianeggiante; i tralci sono di modeste dimensioni distanti uno dall'altro non più di un metro. Questa prerogativa ci accompagnerà per l'intero viaggio anche nella zona della Languedoc-Roussillon; scordiamoci i dolci pendii borgognoni o le ripide pendenze dei vini della Cote Rotie nella valle del Rodano.
La seconda sorpresa, in senso negativo è che il proprietario dello chateau si trova da solo nell'azienda ad imbottigliare e momentaneamente non ha la possibilità di farci fare alcuna visita e di conseguenza nessuna degustazione. Ci dà appuntamento nel pomeriggio. Poco male, ma sfortunatamente, intendiamo un orario diverso da quanto riferitoci nella sua lingua madre; rendez-vous à seise heure (16.00) interpretato nel nostro francese dialettizzato alle 6 di sera. Ce ne accorgeremo a fine giornata quando faremo ritorno allo Chateau non trovando il proprietario recatosi ad altro appuntamento, così come confermatoci dalla madre che ci fa intendere che ci aspettava per le quattro del pomeriggio.
Grandissimo errore!!! Siamo corsi comunque ai ripari e girovagando per Gradignan abbiamo trovato un paio di bottiglie in una caratteristica enoteca. Lo degusteremo a casa e potremmo trarre le nostre considerazioni a riguardo.
Il viaggio non sembra nato sotto la migliore stella, ma noi, uomini di mondo reduci da mille peripezie non siamo avvezzi all'abbattimento o al compatimento ma bensì ci carichiamo a dovere, in quanto la prossima tappa sarà fondamentale per il proseguo della nostra spedizione; visiteremo le zone di Barsac e Sauternes, il paradiso dei vini passiti, iniziando con la visita allo Chateau Closiot (Barsac) per poi dirigerci al favoloso ueChateau d'Yquem produttore dell'omonimo vino, per antonomasia, il migliore del mondo nella sua categoria.
Per parlare di Barsac e Sauternes occorre fare una doverosa premessa e precisamente partire dal concetto che qui, più che in altre zone, il binomio natura-uomo è artefice di un vero e proprio miracolo. La star incontrastata è una muffa definita nobile, in francese "pourriture noble" chiamata Botrytis Cinerea che una volta formatasi, grazie a un particolare microclima, attacca gli acini del vitigno semillon bucandone la buccia, favorendo così la fuoriuscita del composto acquoso, del quale in parte si nutre, lasciando in pratica unicamente il residuo zuccherino.
Rese più basse, vendemmie condizionate esclusivamente dal clima più o meno favorevole allo sviluppo della Botrytis, che per crescere ha bisogno di umidità mattutina, abbinata a pomeriggi soleggiati. Vendemmie effettuate a più riprese in base alla maturazione del grappolo botritizzato e logicamente tardive. Il risultato sono i vini dolci più buoni del mondo.
Come ho detto la Botrytis si sviluppa grazie a un favorevole microclima, artefice del quale sono la presenza di due fiumi, ovvero la Garonna a nord ed il suo affluente ad ovest, il Ciron; il primo porta acqua fredda, il secondo calda. Lo scontro delle due acque provoca umidità e quella caratteristica nebbiolina mattutina che si propaga su tutto il territorio adiacente, condizione ideale per lo sviluppo della muffa nobile. Mediamente in queste zone ci sono ben 91 giorni di nebbia all'anno!!!
La storia, intrisa in parte di leggenda non sa darci con esattezza l'inizio della produzione di questi magnifici vini, ma sembra che per primo sia stato Yquem nel XIX° secolo, grazie ad una vendemmia tardiva effettuata forse per errore ed attaccata dalla Botrytis. Terzo elemento, non meno importante è la foresta della Gascogne a sud che fa da protezione ai terreni di Barsac e Sauternes dai gelidi venti invernali.
I vitigni botritizzati trasformati in nettare celestiale sono il già citato semillon, il sauvignon blanc ed il muscadelle che dei tre è sicuramente il meno usato. La parte del leone è fatta dal vitigno semillon che è il più adatto ad essere attaccato dalla muffa nobile ed è anche quello che ha maggior residuo zuccherino e quindi maggiore propensione al grado alcolico, il sauvignon è un equilibratore di acidità e viene "dosato" nell'uvaggio con sapienza dai viticoltori degli chateaux; in casi rari viene utilizzata anche una piccola parte di muscadelle come accrescitore di colore.
Chi mi conosce, sa che ho una certa venerazione per i vini dolci, dai botritizzati francesi, ai passiti italiani, alle vendemmie tardive e agli ice-wine austriaci/tedeschi e la mia modesta cantina contiene una piccola selezione di c.ca 30 bottiglie tra cui anche un paio di sauternes (chateau d'Arche e chateau Caillou che ho potuto vedere dall'esterno percorrendo la route du vin di Sauternes e Barsac). Detto ciò, mi aspetto moltissimo dalle visite che effettueremo in questa calda e soleggiata giornata dove il sole risplende in un cielo terso che difficilmente ho potuto vedere nei nostri ormai innumerevoli viaggi in Francia.
Le differenze sostanziali tra le zone di Barsac e Sauternes sono essenzialmente tre, così sintetizzate:
1) Barsac può vendere i suoi vini con entrambe le appellation, ovvero Barsac controlèe e Sauternes controlèe;
2) i terreni di Barsac sono più ricchi di argilla e calcare rispetto a quelli di Sauternes, risultando secondo il parere di molti, vini con più finezza ed affidabilità di molti altri Sauternes;
3) i Sauternes della zona delimitata dai comuni di Bommes, Fargues e Preignac godono di miglior fama grazie all'ubicazione dello Chateau d'Yquem che ha fatto da traino a tutti gli altri chateaux, dal Rieussec al Suduiraut solo per citarne qualcuno ancorchè Barsac si difenda altrettanto bene con i vari Climens, Caillou, De Rolland, Cantegrill etc. etc.
E' in queste zone che incominciamo ad intravedere i primi veri chateaux.
Costruzioni che potremmo datare non più tardi del XVIII° secolo, maestose, ben curate anche nelle rifiniture che si ergono su distese pianeggianti ricoperte interamente di vigneti. Sembrano cattedrali nel deserto e per certi versi incutono un po' di timore reverenziale. Logicamente, questi chateaux appartengono alle aziende più famose del panorama enologico internazionale, mentre per quelle più "umane" le dimensioni si restringono di molto e potremmo definirle come piccoli poderi in stile toscano, costruiti o ristrutturati che mantengono vincoli architettonici che hanno conservato nel tempo il loro aspetto originale di sicuro pregio. E' in una di queste che inizieremo il nostro percorso e più precisamente allo Chateau Closiot, piccola ma efficace azienda vinicola situata a Barsac con una produzione di 60.000 bottiglie annue.
Prima di visitare l'azienda, visto che siamo ancora una volta in anticipo, vagabondiamo attraverso la route du vin e ci imbattiamo nel più famoso Chateau de Rolland che ha un colpo d'occhio dei propri vigneti davvero splendido. Ci immettiamo nella strada sterrata che porta all'ingresso dello chateau e Paolo, ormai professionista della macchina fotografica inizia ad immortalare una serie impressionante di fotografie. A fare da contorno ai vigneti un fiumiciattolo che in un primo momento, per errore, scambiamo per il Ciron.
Ripresa la nostra vettura ci dirigiamo in perfetto orario verso Chateau Closiot. Immerso nelle campagne di Barsac, Chateau Closiot è una piccola isola felice nel mare degli chateaux più blasonati, ma non per questo manca di quella dignità contadina e di quella fierezza tipica dei viticoltori transalpini. Ad attenderci un giovane, che ci è sembrato essere l'uomo di tutte le stagioni dello chateau, che con garbo ed ironia ci ha accompagnato a visitare l'azienda cominciando a tastare la terra dei vigneti posti a poche decine di metri dall'azienda stessa.
Toccare con mano la terra, in questo caso ricca di calcare ed argilla è un po' come avere il privilegio di plasmare la materia prima, quella materia che è la base per il prodotto finale e non si può prescindere dal conoscerne le caratteristiche. E' come vedere un quadro del Caravaggio (mio pittore preferito) e non sapere che tipo di colori utilizzasse, colori che apparentemente sembrano uguali a qualsiasi altro quadro, ma che senza dubbio celano caratteristiche inconfondibili agli ignari.
Quando inizi una visita e per prima cosa ti portano nei vigneti a toccare la terra è sinonimo di grande professionalità, di grande attaccamento al proprio lavoro e di orgoglio da vendere. Nel nostro confabulare amatoriale notiamo emergere nelle parole del giovane una sana rivalità tra i territori di Barsac e di Sauternes. Logicamente tesse le lodi del proprio terroir e imprudentemente cerca di paragonare il proprio vino al più blasonato Chateau d'Yquem. Probabilmente sta esagerando, ma la presenza di quest'ultimo è di certo ingombrante per qualsiasi altra realtà.
Dal vigneto, passiamo all'interno dello chateau visionando il reparto della fermentazione, quello dell'affinamento in barriques di troncais da 225 litri, per poi passare all'imbottigliamento ed infine alle tanto agognate degustazioni.
In azienda viene prodotto anche un merlot in purezza, un discreto vino che viene acquistato in alcuni esemplari solo da Paolo, mentre noi ci concentreremo su questo prodotto quando visiteremo la zona di Pomerol. E' uno dei pochi viticoltori che in sede di degustazione ci offre anche qualcosa da mettere sotto i denti e non disdegnamo la cosa. Apriamo le danze con il sauternes con meno concentrazione di zuccheri ovvero, annata Chateau Camperos annata 2005 di 13,0°vol., per così dire il vino base dello chateau, dai tenui profumi floreali, da un colore finemente dorato ed in bocca una buona acidità, contraddistinto da note di miele di acacia, arancia, nuances burrose al palato, una buona persistenza aromatica e sul finale una leggera nota amara di mandorla. Direi che per iniziare non potevamo chiedere di meglio. Passiamo allo Chateau Closiot, sempre 2005, che non differisce di molto da quanto degustato in precedenza se non in un attacco di grassezza al palato più marcata. Finiamo con il vino top della casa, la Passion de Closiot, annata 2005 14,0° vol., un vino che affina in barrique per 36 mesi; il colore è sicuramente più marcato, di un bel giallo dorato, le note olfattive sono più aperte, floreali ma anche vagamente agrumate, in bocca miele, frutta candita, arancia, il tipico accenno di zafferano, caratteristica per eccellenza dei sauternes ed una grassezza al palato opulenta ma incline ad un finale poco pulito. Di sicuro il vino di punta, un buon prodotto che si lascia bere volentieri in compagnia ma anche da soli in meditazione.
Paghiamo, scambiamo gli ultimi convenevoli ed al grido di "vive la France" ci congediamo già con la mente alla prossima destinazione, Chateau d'Yquem baluardo del vino passito nel mondo.
L'appuntamento è fissato per le 15,30 del pomeriggio e quindi abbiamo tutto il tempo necessario per girovagare per il circuit du Sauternais andando a sbirciare i vigneti e gli chateaux più famosi.
Fa incredibilmente caldo, tenendo presente che veniamo da italiche settimane piovose e con temperature al di sotto delle medie stagionali. Siamo anche un po' affamati. Il giovane di Closiot ci ha depistati indicandoci un ristorante in Barsac davvero pregevole con annessa fontana stile Versailles ma incredibilmente chiuso; non ci resta che uscire dal paesino e come cani randagi erranti in cerca di cibo, troviamo un piccolo ristorante alcuni chilometri più in là, in un paesino del quale non ricordo il nome. Il ricordo è più vivo nel rammentare un piatto di salsicce di canard (anatra) con purea decisamente fatta in casa. Per l'occasione una birretta leggera per non appesantire il grado alcolico in circolo nel nostro sangue. Il tempo per l'ennesima Marlboro per Paolo e poi di nuovo on the road verso la destinazione più prestigiosa della giornata. Visitando il sito internet dello Chateau d'Yquem, ricordo che nel forum dei contatti e comunque navigando all'interno, non ero riuscito a trovare alcuna via che identificasse questa blasonata azienda. L'unica indicazione era il paese, ovvero Preignac e ciò non mi destava preoccupazione, in quanto immaginandone le dimensioni non avremmo fatto alcuna fatica ad arrivare a destinazione. In realtà non è stato così semplice, forse per l'eccessiva impazienza, forse perchè le stradine si assomigliavano tutte e forse anche perchè di gente in giro che potesse darci una dritta non se ne vedeva all'orizzonte. In extremis, solo la gentile indicazione di una madame ci metteva sulla via maestra e dopo aver circumnavigato Preignac in lungo e in largo, capimmo che Yquem si trovava nella posizione migliore dominante l'intero territorio di Sauternes. Era là, davanti a noi a circa 700/800 metri in linea d'area; a bordo della Toyota lo vedevamo avvicinarsi ben saldo, leggermente abbarbicato in collina come se fosse seduto su un trono, primeggiando di lucente splendore. Il battito cardiaco aumentava progressivamente e l'emozione mi assaliva vorticosamente. Stavamo per toccare con mano un pezzo di storia e solo chi condivide come noi la passione per questo mondo, può capirmi. Il tempo è bellissimo, c'è un po' di vento ma è quell'aria che ti accarezza e ti fa sentire vivo. Prima di entrare, camminiamo in mezzo ai vigneti che costeggiano la strada principale ed ammiriamo un panorama incredibile che in qualche modo ci riporta indietro al tempo della nostra visita in Borgogna, assaporando le stesse sensazioni. La costruzione centrale, lo chateau, è di rara bellezza ed attorno una sconfinata miriade di vigneti, ci diranno in seguito 189 ettari di terreno di proprietà d'Yquem di cui un centinaio vitato quasi esclusivamente ad uvaggio semillon.
L'entrata è di quelle che non si dimenticano. Un capitello centrale indicante la scritta in latino vitam ad vitae, la scritta Yquem sul muro di cinta ed oltrepassato il confine tra "umano" e "divino", un lungo viale di circa 300 metri, percorso con venerazione dall'autovettura, a passo d'uomo, ci conduce alle porte dello Chateau.
Contemporaneamente al nostro arrivo, spunta un pulmann di turisti russi che con aria vacanziera e stralunata, somiglianti più a una mandria al pascolo vagano con aria un po' ebete alla ricerca di qualche fotografia dello Chateau. Alcuni sono più preoccupati di ricercare un bagno o addirittura qualche souvenir. Per un attimo abbiamo la sensazione che dovremmo accodarci al "gitone" per visitare l'azienda e i vigneti, ma per fortuna qualche cane pastore li raduna per bene, li fa rimontare sul pulmann e salutandoli "nostalgicamente" li vediamo, per fortuna, scomparire all'orizzonte, così come erano arrivati. A questo punto, ci guardavamo intorno e notavamo che eravamo rimasti solo noi; 3 intrepidi italiani con un pezzo di carta in mano (la risposta alla mail che ci confermava la prenotazione della visita) e per qualche istante, di eterna durata, restavamo in silenzio leggermente titubanti sul da farsi. Nonostante l'esperienza accumulata in cinque anni di peregrinazioni enologiche, la domanda che ci attanaglia è sempre la stessa ogni qualvolta ci imbattiamo in qualcosa molto più grande di noi: "ma siamo sicuri che ci faranno fare la visita?" Di norma la risposta è sempre e comunque la stessa: " abbiamo fatto 1100 km. e non entriamo?" Ci diamo la carica e con nonchalance ci dirigiamo al settore accoglienza clienti. Noi clienti d'Yquem. A pensarlo non mi sembra vero!!
Nonostante la mia passione per il vino abbia superato il decennio e nonostante cerchi costantemente di aggiornarmi attraverso numerose letture di libri specializzati e di riviste bimestrali sull'argomento, devo dire che non mi sono mai fidato del binomio grande azienda=grande vino o meglio ancora grande vino in ogni annata. Penso che, una grande azienda, che potrebbe comunque avere una storicità importante alle spalle, abbia le risorse economiche per poter condizionare il mercato ed il proprio futuro attraverso le innumerevoli guide nazionali ed internazionali. Ho sempre pensato che l'attribuzione dei famosi 3 bicchieri, 5 stelle, 4 calici e chi più ne ha più ne metta, possa essere assegnata, a volte con giusta ragione, ma spesso sull'onda di una consuetudine routinaria più associata al blasone dell'azienda ed al business, che al vero merito del vino prodotto, spesso a discapito dei piccoli produttori che per farsi largo devono sudare sette camice e non basta. Il bello della vita è che ci sono sempre delle eccezioni; Chateau d'Yquem è una di queste!!!
Mi allontano due minuti per impellenti bisogni fisiologici. Non ci crederete, ma i bagni di servizio dello Chateau sono qualcosa di fenomenale. Avrei voluto fotografarli mettendo in evidenza i mosaici di rara bellezza vendendo il servizio a "Casa Viva", ed il sapone.... che fragranza!! Ritorno in tutta fretta e vedo i miei compagni "tacchinare" una giovane mademoiselle, vestita in livrea nera con un'improbabile gonna a balze. Annette, corporatura esile, occhi vispi, carina e con quell'aria di complicità, che solo le donne francesi riescono a farti intravedere. Inpoche parole la nostra guida in Paradiso. Chateau d'Yquem è stato sin dalla sua nascita di proprietà della famiglia Lur Saluce, riportata ancora oggi sull'etichetta di questo nobile vino; a inizio anni ‘90 del secolo scorso la proprietà ha venduto il 65% dell'azienda al famoso marchio di moda Louis Vuitton, mantenendo il restante 35%. Seguiamo Annette che alla stregua di Virgilio. diventa il nostro vate e parlandoci soavemente in un francese comprensibilissimo ci porta in un punto strategico della proprietà.
Per arrivarci costeggiamo il Castello, immortalato più volte da Paolo, costruito apparentemente in epoche diverse, forse iniziato nel 1400, in seguito restaurato e concluso presumibilmente nel 1800. Intorno prato inglese curato alla perfezione e giardini vagamente versailleggianti. Da quel punto, abbiamo la possibilità di dominare in toto la proprietà; Paolo estrae con movenze professionali la bussola per individuare l'esposizione dei vigneti che si aprono alla nostra meravigliata vista: sud-sud est, di sicuro un'esposizione invidiabile!! Il terreno è calcareo/argilloso con la presenza delle graves, ovvero di ciottoli di provenienza fluviale dal caratteristico colore bianco che di giorno assorbono il calore del sole rendendolo alla pianta la notte. Anticamente la Garonna occupava questi territori ma in seguito, a causa dell'evoluzione morfologica della terra, ha cambiato corso lasciando a questi terreni caratteristiche peculiari.
Allo Chateau lavorano 60 persone fisse oltre alle maestranze reclutate in tempo di vendemmia. La caratteristica principale è data dal fatto che ogni dipendente è un piccolo vigneron indipendente, ovvero ha il compito di allevare sempre la stessa particella di vigneto per tutta la sua vita lavorativa, tramandando il lavoro al proprio figlio e così per generazioni e generazioni. Inoltre, i dipendenti vivono a ridosso della proprietà evitando dispendio di tempo e di denaro per raggiungere il posto di lavoro, restando il più possibile a contatto con il vigneto assegnato.
Vendemmiare ad Yquem è un'arte e la difficoltà principale è accertare nei dovuti tempi e modi la piena maturazione del grappolo botritizzato, tanto è vero che nel corso dell'anno, a seconda delle connotazioni climatiche si possono anche raggiungere 6/7 vendemmie partendo da settembre sino a novembre inoltrato. Il là viene dato dallo chef de cave (il capo cantina), qui ad Yquem è una giovane donna, Sandrine Garbay coadiuvata da enologi prestigiosi.
La vendemmia esclusivamente a mano, prevede la lavorazione grappolo per grappolo, acino per acino, anche perchè su uno stesso grappolo si possono trovare acini ottimamente botritizzati ed acini attaccati invece dalla muffa gris e quindi inservibili. La muffa gris è una deformazione della botritizzazione causata dall'eccessiva umidità; per intenderci è quella muffa che rende l'acino completamente grigio, più semplicemente marcio e pericoloso per il contagio ad altri acini sani. E' un lavoro certosino, dispendioso e con basse rese. La filosofia d'Yquem è la ricerca costante della perfezione qualitativa a costo di enormi sacrifici e a costo di non uscire sul mercato con un vino non conforme ai normali standard dello Chateau.
Una volta vendemmiato, i grappoli e gli acini selezionati manualmente vengono pressati in 3 tempi diversi; la prima dà il 75% del succo con un residuo zuccherino che potenzialmente con la fermentazione porterebbe al 19% di grado alcolico. La seconda rappresenta il 15% del succo a circa 21° vol., mentre la terza definita "gateau" ad un grado alcolico teorico del 25%. Per dare vita a un grande vino lo chef de cave effettua 40 assemblaggi da particelle diverse, dopodichè il vino viene posto nelle barriques esclusivamente di rovere francese delle foreste del nord-est di Troncais e Limousine. E' qui che la fermentazione è curata nei minimi particolari, prestando la massima attenzione alla temperatura e all'azione dei lieviti naturali.Affinato per 24 mesi ed eliminate le fecce ed i residui depositati, viene effettuato un nuovo assemblaggio. Il vino chiarificato con elementi naturali è pronto ad essere imbottigliato e messo sul mercato.
Con suadenza ed eleganza, Annette ci illumina dicendoci:" maintenant, nous allons dans le paradis!" Ora andiamo in Paradiso. La seguiamo come i compagni di Ulisse ammaliati dal canto delle sirene e scendendo enormi gradini di marmo bianco ci dirigiamo nella cantina dello Chateau. Per un istante la vista che si apre ai nostri occhi è una folgorazione.
Un'immensa cantina dalle sembianze di un'enorme forziere, colmo di barriques piene di liquido dorato, poste una accanto all'altra con perfezione millimetrica e con una pulizia ed una luce certamente studiata nei minimi particolari. Fantastico!! Di cantine ne abbiamo visitate, ma l'emozione che mi ha dato quella d'Yquem è superiore a tutte le altre.
Risaliamo lentamente come immersi in una nuova dimensione e come per magia, pendendo dalle labbra della nostra guida sentiamo sussurrarle la parola "degustazione". Non credo alle mie orecchie. Abbiamo anche la possibilità di degustarlo. Siamo a mille!!! Cerco in ogni modo di placare le emozioni che si susseguono incessantemente una dietro l'altra perchè voglio assaporare attimo per attimo la degustazione, cercando di avere la massima concentrazione ed obiettività possibile senza interferenze psicologiche. La sala di degustazione è decisamente moderna ed Annette, nella sua gestualità incarna un rituale per noi sempre magico nello stappare con dovizia la bottiglia, nell'odorare ll tappo, nell'osservare il colore e nell'avvinare i bicchieri da degustazione. Beve con noi e questo è un punto a suo favore.
Ha stappato l'annata 2004 con mia enorme sorpresa, ma soprattutto con immensa gioia, in quanto Monsieur Pierre Lurton, presidente d'Yquem ha definito questo vino perfetto. A questo punto il bicchiere diventa il palcoscenico e lo Chateau d'Yquem l'attore principale che riempie la scena con un'interpretazione da oscar. Il colore si esprime visivamente con un bel giallo dorato uniforme e senza sbavature; il naso è di matrice floreale con richiami di gelsomino, in bocca una carezzevole dolcezza mai stucchevole che prevale sull'acidità con sensazioni evidenti di miele, arancio, caramello, albicocca matura e un tocco di zafferano, che ti lascia una sensazione di impalpabile pizzicore, una setosa cremosità al palato mai provata sino ad ora ed il finale di una persistenza aromatica lunghissima ed una pulizia in bocca impressionante.
Annette ci spiega che se dovessimo bere un bicchiere d'Yquem prima di coricarci, sentiremmo ancora la persistenza in bocca al nostro risveglio al mattino!! Questo non è un vino ma è il Graal, elisir di eterna giovinezza.
Una grandissima emozione. Lo zio, chiede con molta faccia tosta il bis, forse...... non ha capito bene l'ultima nota gustativa in fondo.
Annette ci chiarisce il fatto che allo Chateau non fanno vendita diretta al cliente (e per fortuna perchè non avremmo certamente acquistato, evitandoci una figura barbina), ma se vogliamo possiamo acquistarlo dai rivenditori ufficiali al modico prezzo a bottiglia di 770 euro!!! Oggi posso dire con assoluta certezza, che faccio un po' meno fatica a concepire un prezzo del genere nonostante si stia sempre parlando di una bottiglia di vino.
Sollecitato dai due compari, lascio una dedica sul libro degli "ospiti" che recita:" Grazie per averci aperto le porte del paradiso, per un'ora abbondante. Firmato i 3 intrepidi italiani del Priorato di Bacco". La dolce Annette, per certi versi ammaliata dal nostro fascino latino, ci confessa che pochi sono gli italiani che fanno visita ad Yquem, ed i pochi sono di norma dei professionisti. Le diciamo che noi, siamo solo degli amatori e in quel momento le si illuminano gli occhi, ma nel nostro piccolo ci sentiamo un po' professionisti.
Ci salutiamo cordialmente ringraziandola per le emozioni e per la gentilezza accordataci.
La visita allo Chateau d'Yquem si è rivelata un'esperienza da raccontare, che consigliamo vivamente e che comunque, non potrà essere pienamente condivisa se non vissuta. Siamo arrivati in sordina, come dei pellegrini ossequiosi ed incredibilmente siamo stati trattati da re. Una giornata che resterà incancellabile nella memoria. Mentre lasciamo alle spalle Yquem e i territori mitici di Barsac e Sauternes, pur ebri di felicità ed impegnati a ripercorrere le sensazioni visive, olfattive e gustative, inconsciamente siamo già un po' malinconici ed il desiderio di ritornare è già presente; ma siamo anche proiettati alla giornata successiva, martedi' 27 aprile, che ci assicura un programma veramente intenso con la visita dell'Haut-Medoc, della zona di Cognac, per finire nell'appellation di Pomerol e di Lalande de Pomerol. Un tour di 400 km, che ci terrà impegnati tutto il giorno.
La sera, decidiamo di comune accordo, dopo un discreto riposo, di fare quattro passi recandoci in un ristorante consociato all'hotel che ci ospita, distante non più di 300 metri dalla nostra ubicazione principale. Mangiare in Francia e comunque fuori dai confini nazionali non è sempre facile. In particolare i menu francesi riportano sempre pietanze con descrizioni chilometriche, a volte poco intuibili e nonostante parta sempre con tutti i migliori propositi, nella maggioranza dei casi mi butto sempre sulla carne con contorni tradizionali. Avrei voluto del pesce ed invece mi sono trangugiato l'ennesima entrecote. I miei soci, che si sono già prenotati in vita un posto nel girone dei golosi, si strafogano alcuni dolci visivamente di bell'impatto. Glicemia e colesterolo a go go!!!
Chiamandoci priorato e seguendo, esclusivamente nei nostri viaggi enologici, vita monastica, ci corichiamo presto per poterci alzare altrettanto presto, visto che il programma che ci attende è sicuramente impegnativo sia sotto il profilo fisico sia sotto quello gustativo.
Il tempo ci assiste, il mattino è fresco ma il cielo è azzurro come non mai. Paolo decide di infilarsi una t-shirt maniche corte acquistata appositamente per l'evento, ovvero una maglietta color glicine raffigurante il più famoso ladro gentiluomo francese: Arsenio Lupin. Come lui, oggi, cercheremo di rubare, depositandole nella memoria, le più belle immagini del territorio che andremo a percorrere in una giornata che vorremmo non finisse mai e che si potesse riproporre come per magia per molti altri giorni ancora.
La zona che si estende a nord-ovest di Bordeaux viene definita Haut-Medoc. E' di sicuro una delle zone più vocate ed universalmente più riconosciute nell'intero panorama enologico internazionale; ne fanno parte alcuni delle appelation più rinomate che fanno la storia del nettare di bacco e più precisamente Margaux, unica appellation di Bordeaux a prendere il nome dalla sua tenuta più bella (Chateau Margaux), Pauillac, St.Estephe e St. Julien, solo per citare le più importanti. Per evidenti motivi temporali ci siamo prefissati di concentrarci sulla zona di Margaux visitando uno Chateau proprietario di vigneti anche a Pauillac, avendo quindi la possibilità di degustare più appellation.
Margaux dista c.ca 40 km. Il primo tratto verso il Medoc è di scarso interesse e quindi siamo intenti a ricercare un negozio di articoli sportivi per poter acquistare la maglia del Bordeaux richiestami da mio figlio Jacopo. Lo troviamo e dopo spasmodiche ricerche tra i reparti, troviamo anche la maglia. . Avrei voluto personalizzarla inserendo il numero 8 ed il nome del calciatore Joan Gourcouff , ma con enorme dispiacere il commesso mi comunica che la società calcistica del Bordeaux è l'unica che può sfruttare i diritti di immagine dei calciatoriimpedendomi così la possibilità di modificarla. Poco male, Jacopo si accontenterà comunque. Nei pressi di Ludon-Medoc iniziamo a scorgere i primi Chateau cominciando dallo Chateau La Lagune, sino allo Chateau Cantemerle per poi arrivare allo Chateau Giscours, ma quello che architettonicamente ci impressiona sin da una distanza di circa 400 metri in linea d'aria è il superbo Chateau Palmer situato nei pressi del paesino di Issan. Posteggiamo l'auto perchè vale veramente la pena soffermarci ad osservarlo con attenzione e meraviglia.
All'ingresso alcune maestranze stanno restaurando il cancello finemente lavorato, delimitante la recinzione ed all'interno un giardiniere è all'opera nel taglio superbo di un prato di un colore verde intenso, perfetto. Il castello è bellissimo, rimodernato di sicuro, con la facciata color azzurro pastello. Incomincio a pensare che l'elevato costo delle bottiglie messe in vendita da questi Chateaux debba andare a compensare anche i costi sostenuti per il mantenimento del patrimonio immobiliare anche se non ne ho la controprova, visto l'impossibilità di poterne degustare il vino prodotto, per ovvi motivi di tempo ed anche di denaro. E' risaputo che nell'Haut-Medoc, il costo di una bottiglia di una dei più famosi chateaux è molto spesso proibitiva per le tasche di un consumatore medio. Da Ludon -Medoc a Margaux il passo è breve e varcare il cartello stradale indicante la località, per noi è come tagliare il traguardo di una tappa importante del tour de France, una tappa pirenaica irta di fatica ma che all'arrivo ti ripaga di tutti gli sforzi profusi in anni e anni di costante allenamento. Margaux, come del resto i territori percorsi iniziando l'Haut-Medoc è pressochè pianeggiante e gli Chateaux che spuntano come sparuti funghi ne fanno da corollario.
Ci fermiamo in quello che sembra essere il centro del paese parcheggiando l'auto nel piazzale antistante l'ufficio del turismo enologico. Come sempre, noi fortunelli lo troviamo chiuso; l'orario mattutino ci penalizza, non demordiamo e coadiuvati da un bel cartellone pubblicizzante Margaux e la strada dei vini cerchiamo di localizzare l'ubicazione di Chateau Margaux, per fama, l'azienda più rinomata della zona grazie soprattutto al suo mentore, Emile Peynaud considerato il padre della moderna enologia e che nella fattispecie fu il primo a sottolineare i rischi legati all'imperizia nella vinificazione ed a praticare la separazione del miglior vino dell'annata rispetto al rimanente vendendo quest'ultimo come second vin.
A circa 500 metri in linea d'area, in fondo ad un maestoso viale di platani, sorge con imponenza lo Chateau.
Come rapiti, ci fermiamo ad ammirarne la facciata in stile classico, così come fece Thomas Jefferson circa due secoli fa, con la differenza sostanziale che il presidente americano ne bevve e molto di quel vino a noi rimasto precluso. E' risaputo che Chateau Margaux ospita esclusivamente professionisti del settore e come per Chateau d'Yquem non fa vendita diretta. Poco male, per noi pellegrini sulle strade del vino ci basta porgere lo sguardo, oltre allo Chateau anche ai vigneti che sorgono di fronte. Finemente curati,a perdita d'occhio, vigneti quasi esclusivamente a base cabernet franc e cabernet sauvignon, con meno concentrazione di merlot.
Costeggiamo per una cinquantina di metri la cinta delimitante lo chateau sino a raggiungere un nuovo edificio di pertinenza, ospitante grandi botti di rovere; Paolo, intrepido più che mai, ma forse è la maglietta raffigurante Lupin III che gli dà coraggio, con passo furtivo penetra all'interno e con maestria e furbizia scatta alcune fotografie da perfetta spia prima che alcuni dipendenti ci invitino a non andare oltre.
Il pericolo è il nostro mestiere ma forse è meglio sgattaiolare, risalendo in auto, fuggendo con il nostro piccolo tesoro fotografico.
Proprio ora, mentre sto scrivendo penso che la visione di Chateau Margaux abbia rappresentato una pietra miliare delle nostre esperienze enologiche, è come aver toccato con mano un pezzo di storia e di sicuro non è da tutti. Un traguardo da mettere in bacheca collocato vicino al vigneto di Romanèe Conti, alla Chapelle di Hermitage , a Chateau d'Yquem e a Chateau Petrus che visiteremo nel tardo ed assolato pomeriggio.
Bene. Caricati al punto giusto giunge per noi il momento di far visita al produttore col quale abbiamo appuntamento alle ore 10.00, lo Chateau Rauzan-Gassies. Lo Chateau, è uno dei primi ad apparire alla volta di Margaux; nasce dalle ceneri dello Chateau Rauzan fondato nel XVII° secolo da Pierre Des Medures de Rauzan. Alla sua morte, per questioni ereditarie lo Chateau venne diviso in due proprietà confinanti, ovvero il Rauzan-Gassies ed il più noto Rauzan-Sègla che negli ultimi anni, con altri produttori di fama è riuscito a dare più complessità e struttura al vino prodotto in questa zona. Nel 1855 con classamento imperiale voluto da Napoleone, il Margaux prodotto venne denominato second grand cru classè.
Nel 1946 lo Chateau venne acquistato dalla famiglia Quie, proprietaria tra l'altro a Pauillac dello Chateau Croizet-Bages per l'occorrenza chiuso per restauro.
Ci stanno aspettando ed il compito di condurci nei meandri dell'azienda viene assegnato ancora una volta ad una ragazza poco più che ventenne, molto garbata, di nome Pauline. Una bella biondina, carinissima, e un po' impacciata, ma per questo va lodata nell'impegnarsi a spiegarci lo Chateau in Italiano, correlato da verbi a volte usati al passato, a volte al presente con un po' di confusione e con una serie di "perdonatemi" ogni qualvolta (un po' da bastardi) la correggevamo. In fondo lo facevamo per il suo bene. Per inciso, sarà l'unica azienda che ci farà pagare 6 euro per poter effettuare la visita.
Siamo partiti con la storia dello Chateau, in parte, ma anche giustamente, enfatizzata dalla mademoiselle, per passare all'analisi del terreno in questa zona ricco di calcare, abbastanza leggero con aggiunta delle graves che rendono ai vini prodotti nelle annate migliori una estrema finezza che si contrappone ad evanescenza nelle annate meno favorevoli. Come sempre la vinificazione è il momento topico anche per questa azienda; gli uvaggi vengono lavorati separatamente, la fermentazione viene regolata con innesto di lieviti selezionati, a temperatura controllata, con rimontaggi accurati per estrarre il massimo degli antociani e delle sostanze coloranti, in seguito parte la fermentazione malolattica che trasforma l'acido malico (astringente) in acido lattico che dona maggior morbidezza al vino. Si passa quindi all'assemblaggio ed al travaso nelle barriques di Troncais e Limousine per il Margaux, mentre per il Pauillac vengono utilizzate barriques americane che sono dotate di un legno più aggressivo che rilascia al vino una quantità di sostanze naturali (es. quercina) più cospicue e con una frequenza temporale inferiore rispetto a quelle francesi. E' notorio che i vini di Pauillac siano dotati di una maggiore longevità per via del terreno più ghiaioso e drenante che porta la vite ad una naturale sofferenza idrica, rendendola più forte e resistente, con un'inevitabile prodotto avente più struttura e con l'inconfondibile intenso profumo di ribes nero e di legno.
La peculiarità, anche di questa azienda è l'estrema pulizia in cantina ed un ordine quasi maniacale; in queste zone niente è lasciato al caso ed il marketing la fa da padrone. Devo dire che sono veramente bravi a valorizzare il territorio e soprattutto il prodotto finito.
Un'oretta scarsa con Pauline e stremata dall'impegno linguistico ci accompagna nella sala degustazione dove potremo assaggiare in sequenza 3 vini annata 2004 avente stessa gradazione alcolica(12,5°vol.), ovvero:
Chateau Bel Orme -Cru Bourgeois
Chateau Croizet-Bages (Pauillac)
Chateau Rauzan-Gassies (Margaux)
Iniziamo con il Cru Bougeois, un assemblaggio di Merlot 60%-Cabernet Sauvignon 35% e Cabernet Franc 5% dal colore intenso, al palato frutti di bosco e ciliegia su tutti, plagiato dalla morbidezza del Merlot che attenua i sentori del Cabernet. Poco erbaceo, facile beva. Di sicuro il meno impegnativo dei tre. Persistenza aromatica discreta.
Passiamo al Pauillac, 65% Cabernet Sauvignon, 35% Merlot, dal colore porpora cupo e da caratteristici toni erbacei con leggere punte di tabacco; viene esaltata la caratteristica del cabernet, un vino di sicuro con più struttura e con una vena di speziatura inconfondibile. Buona la persistenza aromatica. Un vino che potrà sicuramente migliorare evolvendosi nel tempo, a riposo nella mia modesta cantina.
Concludiamo con il Margaux, assemblaggio di Cabernet Sauvignon al 65%, 25% di Merlot, 5% Cabernet Franc e 5% di Petit Verdot. E' il vino che ho trovato più interessante con colore veramente intenso, rosso molto cupo quasi inchiostro con toni erbacei, tostature, tabacco e con un profumo inconfondibile di peperone verde, con tannini ben equilibrati astringenti al punto giusto. Molto buona la persistenza aromatica.
Devo essere sincero, l'assaggio di questi vini, da neofita di questa zona estremamente vocata, mi ha dato la sensazione di una lavorazione meticolosa, quasi rasentassero la perfezione; una perfezione, che ha mio giudizio personalissimo, per taluni versi aumenta gli standard qualitativi veramente ad altissimi livelli, ma per altri,crea una certa spersonalizzazione degli stessi. E' difficile spiegarmi anche perchè le mie sensazioni sono quelle del perfetto amatore, un po' romantico, un po' tradizionale e in parte pensante che il vino migliore sia quello che dovrò ancora assaggiare. L'unica convinzione certa che ho è che la bottiglia migliore è quella che finisce per prima.
Non è corretto fare paragoni con altri vini, sia per le diverse caratteristiche organolettiche, iniziando dal terreno, dal microclima e dalle diverse forme di allevamento, ma di certo prediligo i vini che ad ogni sorso riescono a darmi diverse sensazioni, cogliendo col tempo nuovi aromi e profumi non colti con gli assaggi precedenti. Ho avuto la sensazione, sorseggiando più volte lo stesso vino di ritrovare sempre gli stessi "ingredienti", per carità di elevato standing ma con meno appeal rispetto ad altri.
Forse si è capito che non amo i vini perfetti (forse unica eccezione Chateau d'Yquem), estremamente puliti, perchè ho quasi sempre la sensazione che ciò non sia derivato dalla sola mano dell'uomo. Potrei paragonare il vino che preferisco al mio ideale di donna: non amo la donna dotata di una bellezza esagerata perchè una volta svanito l'effetto immagine, diventa una donna come tante, ma sono attratto dalle piccole imperfezioni, dai dettagli che possono rendere una donna meno appariscente, cento volte più interessante. Anche una ruga disegnata ad arte in un angolo del viso sa essere più sexy di un viso liscio come la pelle di un neonato. Così è il mio vino, imperfetto ma più naturale, che col tempo si modifica e le sensazioni gustative non sono mai le stesse.
Acquistiamo e ci congediamo da Pauline che ha ben svolto il proprio lavoro nonostante difetti ancora di esperienza e di malizia nell'affrontare la clientela e nel rispondere a certe domande un po' più tecniche. Si farà. con il tempo così come il vino che promuove, si spera. Per errore non ci fa pagare la visita. Me ne accorgo e per non farle passare un guaio, rientro allo chateau e le faccio notare la cosa. Non sapeva più come ringraziarmi; non fosse stata presente in quel momento la sig.ra Quie, mi avrebbe di sicuro abbracciato dandomi un bacio ...... magari alla francese!!!!
Usciamo dallo Chateau soddisfatti ma con in testa la nostra prossima destinazione distante da Margaux 127 km.; il paesino di Claix nella zona di cognac dove ci accingeremo a visitare la distilleria ABK6 presso il Domaine de Chez Maillard ed avremo la possibilità di degustare ed acquistare un cognac di ottima fattura.
Non ho mai avuto una grande passione per i superalcolici eccezion fatta per un certo periodo in gioventù, dove, stupidamente, per emulare Robert Redford nel film Havana, bevevo abitualmente con gli amici un Daiquiri alla fragola. Col passare degli anni, mi sono appassionato alla grappa, quella dal color ambrato con invecchiamento in botti di rovere che degusto con moderazione nelle fredde serate invernali; quella che preferisco è della distilleria Berta di Monbaruzzo, visitata un paio di anni fa, nella versione "TresoliTre" fatta con vinacce di nebbiolo da Barolo. Il mio avvicinamento al Cognac e di conseguenza ad alcuni Brandy italiani è da attribuire allo zio Mario; dopo la fondazione della nostra associazione enologica ed a seguito delle prime degustazioni, grazie allo zio abbiamo preso l'abitudine di chiudere la serata con un sorso di cognac. Inizialmente con cognac francesi, dai più commerciali (Courvoisier, Remy Martin, Martell per citarne qualcuno) a quelli di maggior levatura (es. Frapin) sino a spaziare a quelli spagnoli iniziando dal Carlos Primero, al Cardinal Mendoza e per finire al Duque d'Alba. Il passo è stato breve e ben presto abbiamo abbinato alla degustazione anche un buon sigaro cubano o più classicamente un toscano nostrano.
Trovo che sia un distillato che oltre a darmi sensazioni gustative uniche associate ad una morbidezza e ad una alcolicità ben equilibrata, mi rilassi e mi faccia conciliare con il mondo, soprattutto dopo una giornata di intensa fatica psichica.
A consigliarmi questa visita è stato un mio cliente francese che da ben vent'anni si rifornisce direttamente da questo produttore. Materia prima per la produzione del cognac è un vitigno bianco denominato Ugni Blanc, l'alter-ego del nostro Trebbiano, un vino che ha un tasso di acidità ideale e una buona propensione alcolica che favorisce una migliore concentrazione aromatica durante la distillazione. In cantina ho una bottiglia di Villa Zarri, un ottimo Brandy italiano, distillato con uve trebbiano.
L'avvicinamento a Claix è di quelli spensierati con spinta della nostra autovettura ad una velocità di crociera che ci consente di poter ammirare il paesaggio costellato da distese di boschi alternate a dolci colline finemente arate e coltivate, a immensi prati e a chilometriche distese di viti da immortalare in qualche quadro impressionista.
Al Domaine non sembrano aspettarci. Il proprietario, Francis Abecassis è a Palermo, ma dopo qualche istante di impasse e recuperata la nostra mail di conferma, si presenta ai nostri occhi una giunonica donna (direttore commerciale dell’azienda) accompagnata da un ragazzotto per certi versi tirocinante pronto ad esporci la lezioncina in alcuni frangenti della nostra visita.
Partiamo dirigendoci nei vigneti di ugni blanc. il Domaine con ben 240 ettari vitati si pone come uno dei più grandi proprietari dell'appellation Cognac, avendo tra l'altro la fortuna di avere terreni con un'esposizione privilegiata, ideale per la produzione di un ottimo prodotto.
Di norma, ci spiegano che la vendemmia viene effettuata da metà settembre fino a ottobre inoltrato e che la filosofia del Domaine è orientata in primis alla produzione di un ottimo vino base, indispensabile per la riuscita della distillazione. Fino a non molto tempo fa, ci si concentrava esclusivamente sul processo di distillazione a prescindere da come fosse la qualità dell'uva appena vendemmiata a discapito della qualità a volte non eccelsa.
Dopo la vendemmia e terminata la fermentazione, il vino viene posto nel locale di distillazione nel quale campeggiano una serie di alambicchi della capacità di 25 ettolitri.
La distillazione avviene con la tecnica del ripasso, ovvero una volta portato ad ebollizione il vino a temperatura controllata, il vapore alcolico prodotto passa dall'alambicco alla serpentina di raffreddamento trasformandosi da vapore in distillato chiamato "brouillis", che viene raccolto e ripassato a nuova distillazione, tenendo buono solo il cuore della stessa. Come dicono loro un eau de vie chiara e limpida che verrà posta nelle barriques francesi delle foreste di Limosine e Troncais per un lungo invecchiamento.
Dalla distilleria, ci ritroviamo a visitare la cantina contenente un numero impressionante di barriques curiosamente annerite e caso strano alzando gli occhi notiamo che anche i muri sono impregnati dello stesso colore. L'arcano segreto è presto svelato. Una parte delcognac, una volta in barrique evapora attraverso i pori del legno e spesso occorrono dei travasi per ricolmare il contenitore; l'evaporazione di alcool associata all'umidità del locale produce un piccolo fungo che si deposita dando origine a questo annerimento particolare tanto che ci viene detto che spesso e volentieri possiamo imbatterci in abitazioni private aventi le stesse caratteristiche, dove molto probabilmente sono nascoste botti di cognac.
Dalla cantina alla sala degustazione per assaggiare in questo caldo pomeriggio la gamma dei cognac del Domaine. La madame è molto professionale, in quanto adotta la tecnica dell'esclusione, ovvero ci pone tre assaggi dei tre diversi tipi di linee di cognac prodotte, ovvero:
ABK6 la linea più moderna, adatta ad un pubblico più giovane che si appresta a conoscere il distillato; Le Reviseur, linea prodotta nel cuore del cru della Petite Champagne su un estensione di 60 ettari e per finire la linea Leyrat, 90 ettari situati sulla sommità di una collina calcarea e con vecchie vigne che permettono un lungo invecchiamento al cognac prodotto.
Siamo unanimamente concordi nello scegliere il Leyrat che sembra essere quello più vicino al nostro palato. 3 sono i cognac Leyrat che predominano su tutti gli altri:
x.o. Premium
x.o Vieille Reserve
Glory
L'x.o. (extra old, ovvero assemblato con cognac dove il più giovane ha non meno di 6 anni e molto spesso non meno di 10 anni di invecchiamento) Premium ed il Vieille Reserve sono caratterizzati da una brillantezza di colore profondamente ambrato con sfumature dorate, al naso si avvertono nuances di vaniglia, caffè e frutta secca, l'attacco al palato è di quelli che ti avvolgono in una calda suadenza alcolica inframezzata da una punta secca caratteristica e da una lunghissima persistenza aromatica. Non sono un intenditore ed è veramente difficile riuscire a comprendere le sottili differenze tra uno e l'altro.
L' apoteosi (anche nel prezzo - euro 350) ce la rilascia la selezione Glory contenuta in una bellissima bottiglia a forma di ampolla come fosse un elisir di giovinezza. Un cognac stupefacente, leggermente viscoso che ha in essere un'estrema morbidezza con un attacco in bocca quasi grasso, ma è solo una sensazione che viene spazzata via da una perfetta freschezza alcolica e da un'esplosione di raffinatissime sensazioni gustative che passano dalla vaniglia al legno a delicate note speziate a tocchi floreali di violetta di campo. Perfetto!!!
Ho accennato all'elisir di giovinezza non per caso in quanto nella regione di Cognac abitano molti ultracentenari.
Inebriati dai fumi dell'alcool, facciamo incetta di bottiglie, pagate a caro prezzo ma certamente di qualità riuscendo con il nostro proverbiale savoir-faire a farci omaggiare di 3 mignon Glory che terremo gelosamente custoditi in cassaforte e che apriremo solo in punto di morte (forse per resuscitare dopo 3 giorni!!!).
La giornata non finisce certo qui e puntuali come non mai ci dirigiamo verso il piccolo paese di Neac situato nella zona denominata Lalande de Pomerol per l'appuntamento con il Domaine du Grand Ormeau produttore di vini a base Merlot.
Distante 108 km., Neac è l'ennesimo paesino circondato da sterminati vigneti pressochè vitati a Merlot, anche se negli assemblaggi fanno comparsa con percentuali ridotte il cabernet sauvignon ed il cabernet franc. Ci troviamo esattamente agli antipodi di quanto prodotto nella zona dell'Haut-Medoc con gli stessi uvaggi ma con le percentuali capovolte. Come già detto Neac si trova nella zona denominata Lalande de Pomerol, meno pregiata rispetto a quella di Pomerol ma con vini che per rapporto qualità/prezzo tengono testa a quelli più quotati dell'appellation confinante.
Abbiamo selezionato il Domaine du Grand Ormeau che ci sta aspettando per farci degustare in sequenza i seguenti vini:
Chateau Goujon Montagne de Saint Emilion
Chateau la Truffe-Pomerol
Fleur des Ormes cuvèe prestige Lalande de Pomerol
Grand Ormeau-Lalande de Pomerol
Siamo un po' stanchi, ma questo è l'ultimo scoglio di questa giornata intensissima. Il Domaine non ha le sembianze di uno Chateau ma è qualcosa di architettonicamente più umano; ad attenderci la moglie del proprietario vigneron, che ci fa aspettare alcuni minuti in attesa che compaia il marito, uomo estremamente innamorato del proprio lavoro. Ci troviamo in quella che possiamo definire la sala di degustazione ma non solo, nel senso che ospita una serie di diapositive che raffigurano il percorso che dalla vigna porta al prodotto finito.
Il sig. Jean Paul ci accoglie con molta giovialità. Ha appena terminato la giornata di lavoro in vigna e nonostante la stanchezza si apre con l'entusiasmo di un ragazzo iniziando un monologo degno del miglior oratore. Il suo incedere in un francese molto veloce ci impegna strenuamente nella comprensione totale del discorso anche se a volte facciamo fatica ad interpretare alcuni sostantivi, ma nel complesso riusciamo con difficoltà a tenere le fila. Le vigne non sono vicinissime al domaine e per farci capire le differenze tra i vari uvaggi ci porta nei pressi del capannone contenenti i tini d'acciaio per mostrarci tre diverse viti, una di Merlot, una di cabernet Sauvignon ed una di cabernet Franc, elencandoci e mostrandoci le diverse peculiarità che le contraddistinguono e le diversificano una dalle altre.
Un trattato di circa mezz'ora che ci tiene mentalmente vigili. Si passa ai locali dove avviene la fermentazione, rigorosamente controllata ed effettuata separatamente per ogni uvaggio con ripetuti frollature e rimontaggi per poter estrarre la maggior quantità possibile di tannini e di sostanze coloranti. La malolattica viene indotta ed anch'essa controllata meticolosamente. Niente è lasciato al caso.
il nostro vigneron è un cultore della biodinamica, utilizzando in vigna esclusivamente prodotti naturali senza l'intromissione di pesticidi o di qualsiasi altra diavoleria chimica. Tutto ciò implica una notevole mole di lavoro in più, tutto a favore della qualità, per il vigneron Jean Paul la peculiarità più importante. Ed allora andiamo ad iniziare le degustazioni che satureranno il poco grado alcolico rimasto per restare nei parametri della legalità. E' stata una vera esplosione di alcool in quanto abbiamo effettuato ben 14 degustazioni dei 4 vini nelle differenti annate e solo il nostro stoppare il proprietario del domaine, mostrandogli la saturazione e spiegandogli che avevamo iniziato la mattina il nostro tour degustativo, ci ha consentito di chiudere degnamente una giornata veramente indimenticabile.
Veniano a noi, anzi ai vini del Domaine:
iniziamo con il Montagne de Saint Emilion, merlot in purezza, l'unico vino che non abbiamo acquistato in quanto ci è sembrato abbastanza scarico, anche nel colore con sensazioni gustative non esaltanti, per carità, un buon vino ma al di sotto della media di quanto degustato in questi giorni; passiamo al Grand Ormeau-Lalande de Pomerol uvaggio 80% Merlot-10% cabernet Sauvignon-10% cabernet Franc di un bel color rosso intenso, al naso si avvertono note di frutti di bosco, l'attacco in bocca con tannini non troppo ruvidi e con un finale delicatamente speziato e fruttato.
Il chateau la Truffe, uvaggio 90% Merlot-5%Cabernet Sauvignon-5% Cabernet Franc dal colore rosso carminio ed al naso note balsamiche, di frutta secca e di vaniglia, con un attacco in bocca ricco, voluminoso e vellutato. Vinoso con tannini morbidi e buona struttura. Un vino finemente legnoso, che non guasta, ma da equilibrio in bocca.
Finiamo con il Fleur des Ormes, ugual uvaggio del "la Truffe" ma diverso in quanto alberga in un terroir si argilloso ma in questo caso con presenza di ossido di ferro. Rosso carminio con riflessi sangue sull'unghia, naso complesso di profumi che spaziano dai frutti di bosco a note tostate e speziate. In bocca attacco di corpo, denso, equilibrato e con la sensazione che la struttura che lo sorregge gli possa permettere un bell'invecchiamento. La costante di questi vini, a mio modesto parere, non è tanto la presenza del Merlot in preponderanza che li rende morbidi e di più facile beva rispetto ai rossi dell'Haut-Medoc, ma sono le piccole percentuali di cabernet che li caratterizzano in senso positivo. E' il cabernet, qui mai invadente, che gli dona colore, struttura e quel tocco che per certi versi li rende particolari.
Come sempre di fronte a quanto piaciuto, acquistiamo confortati anche dal fatto che il nostro caro vigneron ci assicura un invecchiamento in cantina di almeno 15 anni, dove potremo aspettare l'evoluzione dei profumi terziari che il tempo gli saprà donare, sempre che avremo la costanza di saper aspettare. Salutiamo molto cordialmente il vigneron Jean Paul che ha avuto la bontà di riceverci in tardo pomeriggio e la brillantezza nel rispondere alle nostre molteplici domande.
Siamo allegrotti, però ancora lucidi nel non dimenticare in primis di guidare sempre con prudenza e cosa più importante, per noi pellegrini nelle terre di Bacco, di dirigerci a visitare (purtroppo solo dall’esterno) una pietra miliare del territorio di Pomerol ovvero Chateau Petrus.
Pomerol è la patria dei vini rossi con uvaggio esclusivamente a base Merlot in purezza, oggi tra i più acclamati e costosi del mondo. La fortuna di questi vini va addebitata a Jean Pierre Moueix (di fronte a Chateau Petrus c'è una costruzione in cui compare a lettere cubitali il suo nome) che negli anni 50/60 del secolo scorso li fece conoscere agli inglesi, ma soprattutto agli americani, sapendo che avrebbero apprezzato l'intenso aroma di frutta, i tannini vellutati e la caratteristica morbidezza. In seguito ci si è messo anche l'americano Robert Parker che con la sua "Wine Advocate" è stato assurto a guru dell'enologia mondiale, dispensando in centesimi il valore dei vini, dando risonanza al territorio di Bordeaux, Pomerol compresa. Tutto ciò che per la maggior parte delle persone è inarrivabile, viene ad un certo punto mitizzato. Bramato ma mai posseduto. Una ricerca spasmodica che non finisce mai, inafferrabile. Chateau Petrus è così. E'' il vino più costoso al mondo ed ogni qual volta ne sento parlare mi faccio sempre le stesse domande (alle quali ho parzialmente risposto prima), ovvero:" Perchè costa così tanto?" oppure " Perchè, chi può è disposto ad averlo anche a prezzi astronomici?" Un Merlot in purezza con un range di prezzo che oscilla dai 1.300 euro la bottiglia nelle annate meno favorevoli ai 2.000 ed oltre nelle annate di pregio. A volte mi chiedo se tutto ciò ha un senso e se sia in ragione esclusiva di una legge di mercato. Jean Pierre Moueix e come lui tanti altri in diversi contesti ha creato uno status simbol al quale solo pochi eletti possono aderire. Per mia sfortuna, visto che le mie tasche non mi permettono un acquisto del genere, sarà quasi impossibile riuscire a sorseggiarne il nettare e dovrò sempre accontentarmi di leggere che in ogni annata è un vino dalla bontà indiscussa e che il terroir dei suoi vigneti conferisce al vino la caratteristica nota di mughetto, oltre all'indubbia morbidezza. Quando penso a Petrus penso anche a: " E se aprendo una bottiglia sapesse di tappo?" o peggio ancora " E se provandolo mi lasciasse indifferente?" Lo so, sono le domande che si pongono coloro i quali non riusciranno mai a berne neanche un bicchiere!!!!
Tra l'altro, Chateau Petrus. vedendola da vicino (almeno questo mi è stato consentito gratuitamente) è poco più di una piccola "fattoria", mentre ti aspetteresti qualcosa in stile Yquem o Margaux o Palmer, ma niente di tutto questo.
Quello che ci ha impressionato sono stati i vigneti, curatissimi, perfetti, pulitissimi e allineati geometricamente. Ci siamo arrivati a pomeriggio inoltrato, c'era ancora luce, una luce che volge lentamente al declino serale e che mi pervade di nostalgia e di una sensazione di pace interna. Ho avuto come la sensazione di essere arrivato dopo un lungo viaggio a destinazione, un po' come per uno scalatore aver raggiunto la cima ed essersi fermato a rinfrancarsi nell'animo e a beatificarsi di quanto fatto ed ottenuto. Il mare in tempesta si è placato, il sole ha squarciato le nubi cariche di pioggia; mi sono fermato e per alcuni infiniti istanti mi sono, forse illuso, di ammirare la perfezione. Bella esperienza Chateau Petrus. Anche io sono entrato nel mito.
il tempo, insieme a Paolo di farci fotografare dallo zio sotto la scritta Petrus, quantomeno per testimoniare ai posteri la nostra venuta, un'ulteriore giro in auto tra le vie di Pomerol, paesino fantasma che mi è sembrato non avesse un vero e proprio centro ma solo una chiesa parte romanica e parte gotica a far da punto di riferimento e poi..... via verso Saint Emilion per una visita e per la cena.
Pur sapendo che l'appellation di Saint Emilion regali i rossi tra i più prestigiosi e costosi al mondo, siamo saturi e di contro l'orario non ci permette più alcuna visita, ma la cittadina che si apre ai nostri stanchi occhi ci ripaga di questa mancanza che, magari, verrà colmata in un'altra avventura. Saint Emilion è una cittadina medioevale situata su un altopiano calcareo dominante una serie di vigneti veramente impressionante, è da visitare e se siete in queste latitudini, fermatevi. Il fulcro è una torre centrale di sicuro gotica da una forma geometricamente particolare quasi futurista rispetto al tempo della sua costruzione ( se non erro XIII° secolo).
Girovaghiamo tra le stradine che trasudano di storia ove albergano piccoli e caratteristici ristoranti. Avevo selezionato l'Huitrier-Pie" dove avremmo potuto fare man bassa di specialità a base di molluschi e crostacei e di prodotti nostrani della regione ma come sempre, per nostra sfortuna il locale era chiuso. Ci siamo accontentati del ristorante all'aperto sotto la torre, non il top ma con una vista decisamente caratteristica soprattutto nel momento in cui il sole tramontando produceva una luce particolare inducendo Paolo a scattare una serie interminabili di fotografie.
E' arrivato il momento di rientrare alla base; altri 50 km. e potremo, dopo una bella doccia calda fare qualche riflessione su quanto ci ha lasciato a livello di sensazioni ed emozioni il territorio bordolese.
Nel titolo ho posto la domanda:"Olimpo o caduta degli dei?" Più precisamente è la domanda che mi sono fatto tante volte e prima di partire, influenzato dalle innumerevoli pagine lette e rilette in questi anni su questo territorio. Ho cercato di darmi una risposta, forse non esauriente. Personalmente penso, nè uno nè l'altro. Di sicuro non è la caduta degli dei, ma la definizione di Olimpo va un po' approfondita.
Se per Olimpo intendiamo l'organizzazione, il marketing, la pubblicità, il contesto degli Chateaux, allora sì, il Bordolese è l'Olimpo; solo la vista degli Chateaux vale come si suol dire il prezzo del biglietto e penso che difficilmente tale immagine possa essere replicata in altre zone. Dobbiamo pensare che è l'unica zona in Francia in cui il primario sviluppo delle viti non è stato influenzato dai monaci benedettini/cistercensi ed in seguito, post rivoluzione, dai contadini, ma già dal 1400 gli chateaux erano in mano ai mercanti e devo essere sincero che qui, non ho avvertito quella fatica contadina incontrata in Borgogna o nella Cote Rotie solo per citarne qualcuna. Non sono stato colpito da una certa aurea di eroicità di alcuni contadini votati esclusivamente alla vigna ed al terroir. Da questo punto di vista non è l'Olimpo.
Se la mettiamo esclusivamente sui vini, personalmente Chateau d'Yquem è l'Olimpo dei vini dolci, per il rimanente non è facile sputare sentenze, in quanto subentra un'inevitabile soggettività e mi diventerebbe difficile essere equilibrato al punto da affermare categoricamente un parere più o meno positivo. Mettiamola da un altro verso. Questo viaggio anche senza volerlo mi ha fatto capire che sono un borgognone, non trascurando comunque i vini di bordeaux ed il test di fine libro di Andrea Scanzi "Il vino degli altri" -edizione Mondadori, che consiglio come buona lettura ne è stata la riprova. Come asserisce lo Scanzi, per me il vino deve sapere di terra e dolore, deve aver vissuto indicibili Golgota in vigna, deve trasudare fatica e per questo sono più vicino alla Borgogna che a Bordeaux. Mettiamoci poi il Pinot Noir più affascinante, romantico e misterioso dei tagli internazionali usati nel bordolese.
In definizione questo è il mio pensiero e non mi aspetto che siate del mio stesso avviso.
E' ora di preparare lo scarno bagaglio. Ci attendono domani 380 km che ci porteranno a valicare i pirenei, giungendo in Spagna, facendo visita nella zona più vocata , nella fattispecie ad Haro cittadina della Rioja Alta dove avremo un appuntamento con la Bodega Lopez de Heredia.
Ci lasciamo dietro un po' di nostalgia per le emozioni e le sensazioni provate ed anche un pezzo di storia e volgiamo lo sguardo a quanto dovrà ancora accadere, dirigendoci in un territorio che non conosciamo, se non per aver bevuto in Italia qualche bottiglia marchiata Rioja non proprio esaltante, eccezion fatta per un Gran Reserva Marquis de Riscal degustato in una fredda serata invernale con l'associazione.
Ci lasciamo dietro anche la bellezza di 1.550 km. percorsi ed il viaggio di avvicinamento ad Haro, seppur confortato dal bel tempo è leggermente noioso salvo nelle vicinanze di San Sebastian dove il traffico diviene un po' più congestionato e la guida torna ad essere un po' più attenta. Dopo circa 4 ore raggiungiamo la località di Haro e l'hotel 3 stelle Eth Rioja che ci attende per ospitarci per la notte. L'hotel ha un enorme parcheggio, abbastanza moderno; è dotato di ristorante/wine bar che mette in bella mostra su una lunga scaffalatura metallica numerosissime etichette di vini della zona a noi sconosciuti. Il problema primario, al nostro arrivo è reperire un carrellino per scaricare il vino fin qui acquistato, per poi ricaricarlo la mattina successiva, destinazione Francia. Gli innumerevoli anni di vacanza nella terra dei toreri ha giovato allo zio che si prodiga per ottenerlo e in men che non si dica (stiamo pensando di aprire una società di trasporti), soprattutto senza dare nell'occhio, il vino viene ricoverato equamente tra la camera doppia che ospita Paolo e il sottoscritto e la camera singola dello zio. Ora siamo più tranquilli. Possiamo fare un piccolissimo riposo per poi riempirci la pancia nel ristorante dell'Hotel.
Se non ricordo male lo zio si sbrana un'insalatona condita con di tutto e di più, mentre noi ci divoriamo un pollastro a testa, il tutto innaffiandoci un vino tinto della casa, anonimo ma abbastanza gradevole. Un cafferino per tenerci agitati al punto giusto e via, in preparazione all'appuntamento delle 16.00 alla Bodega Lopez de Heredia. La Bodega dista non molto lontano dall'hotel, a circa un paio di km. ed è la più antica di tutta la Rioja con i suoi 133 anni di storia alle spalle. Fondata nel 1877 da Don Rafael Lopez de Heredia y Landeta, fu in concomitanza con la calata dei vignerons bordolesi giunti in terra iberica per risolvere il problema causato dalla filossera, cercando terreni alternativi per la produzione di vino, che lo spronarono a pianificare e costruire quello che oggi è visibile ai nostri occhi.
Non è uno chateau, ma il complesso è abbastanza maestoso, così come sono imponenti le cantine fatte di circa 4 km di gallerie sotterranee in grado di assicurare le giuste condizioni di temperatura ed umidità per l'invecchiamento dei vini. A prescindere dal fatto che fosse la più antica, mi aveva incuriosito l'annata messa sul mercato a distanza di numerosi anni dalla vendemmia; si parla (nel momento in cui scrivo) del 1991 per il blanco (bianco) e del 2000 per il tinto (rosso). In cuor mio mi aspettavo veramente tanto da questa visita, forse suggestionato dalle molte recensioni su questi vini a detta dei più qualitativamente impressionanti. Ma andiamo con ordine senza anticipare i tempi.
E' un'altra favolosa giornata a livello climatico, forse la migliore con una temperatura che arriva a toccare i 27 gradi. Decidiamo di metterci una t-shirt maniche corte e una camicia leggera per lo zio; mai scelta fu così disgraziata. Siamo all'ingresso della Bodega e come sempre Paolo scatta foto a destra e a manca non curante del caldo, ne tantomeno del traffico nell'attraversamento pedonale della via maestra.
Non siamo soli. Una decina di spagnoli ci fa compagnia in attesa che la visita parti in perfetto orario. Cambiano gli stati ma non le abitudini; anche qui è una senorita di cui non ricordo il nome, tipica spagnola non molto alta, viso un po' squadrato, bel fisico, tutta pepe che ci guiderà nei meandri della bodega, logicamente visita in castillano. Si parte e prima di entrare nella cantina la vediamo infilarsi un maglioncino lasciato aperto sul davanti. Non l'avesse mai fatto!! Entriamo e percorriamo una lunga scalinata a scendere che ci porta nelle cantine e ci accorgiamo di aver commesso un errore madornale; cantine con temperatura costante di 12 gradi e tasso di umidità del 90%!!! Un freddo cane con conseguente abbassamento vocale e per alcuni istanti con sintomi di cagotto impellente!!! Ne abbiamo visitate di cantine in questi anni ma a temperatura questa le batte tutte!!
Prima di addentrarci nella specificità dei vini di Heredia, la senorita ci spiega che nella Rioja i vini vengono classificati in:
Garantia de Origen= vini non invecchiati prodotti nella regione
Crianza= vini invecchiati almeno 3 anni, dei quali almeno 1 passato in barrique
Reserva=vini scelti con invecchiamento di almeno 3 anni di cui almeno 1 passato in barrique di rovere
Gran Reserva= vini di grandi annate con invecchiamento con un minimo di 2 anni in barrique di rovere e 2 in bottiglia.
I vini di Lopez de Heredia battono tutti i primati con invecchiamento per il bianco di 19/20 anni tra barrique e bottiglia, mentre per il rosso di 10 anni tra barrique e bottiglia.
I vitigni utilizzati sono: per il bianco il viura e la malvasia, mentre per il rosso il tempranillo, la garnacha e il graciano. I bianchi sono quasi viura in purezza (90%) mentre il rosso ha necessità di essere un blend in quanto il tempranillo (varietà più diffusa) da equilibro al vino, la garnacha (alter-ego della grenache francese e del cannonau sardo) colore e tasso alcolico ed il graciano acidità. Percorriamo intirizziti dal freddo queste lunghissime gallerie sotterranee ricolme di un infinito numero di barriques che ci assicurano piene di vino; le barriques ed anche la zona contenente le bottiglie gran riserva della bodega hanno una particolarità per certi versi non esaltante. Sono ricoperte di uno spesso strato di terra, per farmi capire è come se nessuno avesse fatto mai le pulizie da 133 anni!! Siamo passati dall'estrema pulizia delle cantine degli chateaux e dei domaines bordolesi a questa particolarissima cantina, dove ci viene spiegato che questa coltre ha la caratteristica di formare un substrato che non può essere penetrato da insetti, funghi e muffa di ogni genere preservando l'invecchiamento e la bontà dei vini. Ci crediamo.
Per un istante risaliamo ad un clima umano dirigendoci a visitare il reparto in cui vengono costruite le botti. E' sicuramente un'arte ed è l'ultima vineria rimasta in tutta la Rioja a fare ancora questo. Forse il gioco non vale la candela, ma quantomeno è l'unico modo per essere sicuri che le botti abbiano tutte le stesse caratteristiche. Ritorniamo nella ghiacciaia e ci viene spiegato che il vino post fermentazione viene travasato sfruttando la sola forza di gravità, per caduta e pompato a mano nelle botti. Vengono fatti continui travasi che in qualche modo chiarificano il vino ancorchè in ultimo la chiarificazione venga fatta classicamente col bianco d'uovo. La cosa incredibile è che l'imbottigliamento viene fatto a mano direttamente dalle botti.
Per alcuni istanti usciamo all'aria aperta. Mentre ne approfittiamo per riscaldarci al sole, abbiamo la possibilità di vedere oltre al fiume Ebro parte dei 170 ettari di vigneti che ogni anno forniscono una produzione di 800.000 chili di uva.
Rientriamo per ripercorrere all'inverso una serie di gallerie che per fortuna ci portano come destinazione ultima alla sala di degustazione. Dopo circa 45 minuti di ipertrofia glaciale e di castillano sparato a raffica ci apprestiamo a degustare due vini, ovvero:
il vina Tondonia Reserva Blanco ed il vina Tondonia Reserva Tinto nelle annate 1991 per il bianco e 2000 per il rosso entrambi di 12°vol.. Nonostante il freddo accumulato siamo carichi e personalmente non vedo l'ora di assaporarli, ma la senorita guardandoci, smonta un po' i nostri ardori. Ci spiega, prima della degustazione, che se pensiamo, soprattutto noi italiani, di trovarci di fronte, visto l'invecchiamento, a dei vini con grande struttura, con sentori olfattivi e gustativi di frutta rossa, tostatura/speziatura per il rosso e di vaniglia e frutta bianca per il bianco, siamo fuori strada. Questi sono due vini secchi, vinosi e secchi. Niente altro. Non voglio crederci.
Iniziamo con il Reserva Blanco. Al naso è un vino che non si apre, non sento particolari profumi; roteo più volte il vino nel bicchiere ma il risultato non cambia. In bocca avverto immediatamente una punta di maderizzazione tendente quasi all'ossidazione ma che non mi disturba affatto, anzi penso che sia la caratteristica peculiare di questo bianco che per il resto mi lascia un po' dubbioso, quasi esterrefatto. E' un vino che mi disorienta, non riesco a capire come sia possibile che un bianco con quasi 20 anni di invecchiamento sia ancora così giovane e secco. non ho parole. E' un vino strano che ha il suo perchè. Di sicuro fuori dai normali canoni di come concepiamo il vino noi italiani, tanto è vero che nel bel paese di questo vino non vi è traccia. E' per così dire un vino di nicchia da veri esperti.
Passiamo al Tondonia tinto e il risultato non cambia. Qui non avvertiamo alcuna maderizzazione e nonostante i 10 anni di invecchiamento sembra quasi ereticamente un novello. Forse questi spagnoli hanno trovato la formula di fermare il tempo nell'invecchiamento.
Questi vini rappresentano un mistero e un cruccio allo stesso tempo, visto la mia incapacità interpretativa. Nonostante tutto, un paio di bottiglie me le sono acquistate per vedere se reggeranno ancora molto tempo con la speranza che nel momento in cui li riproverò potrò avvertire migliori sensazioni che mi possano far meglio comprendere le caratteristiche.
Un po' disorientati e con una punta di delusione girovaghiamo con l'auto alla spasmodica ricerca di altri vigneti sparsi per il territorio, per certi versi un po' brullo e desolante. Ci fermiamo in un paesino in cima ad una dolce collina; tira un ventaccio e lasciata l'auto davanti alla chiesa principale ci sgranchiamo le gambe passeggiando per la via principale, osservando dei bambini che beatamente giocano incuranti delle grida delle madri che di tanto in tanto li riprendono.
Torniamo all'ovile. Ho selezionato la "Taverna de Haro" per la cena della sera, ma riguardando gli appunti inseriti nel mio preziosissimo faldone rosso mi accorgo che la stampa tratta dal sito internet mi rivela un'inquietante verità: la "Taverna de Haro" esiste, ma è un caratteristico locale di New York. Maledizione ed ora dove si va a cenare? Per fortuna le senoritas della reception sono così cordiali da consigliarci il ristorante Beethoven sito a poche decine di metri dalla piazza centrale di Haro. Ci andiamo. In Spagna si cena alle 21.00 e fino a quell'ora giriamo a zonzo. Non c'è in giro troppa gente, forse sono tutti in casa a guardarsi la semifinale di Champions League tra Barcellona e Inter. Poco importa e alle 21.00 in punto siamo all'ingresso del Beethoven II (il Beethoven era chiuso). E' praticamente vuoto, siamo i primi avventori ma veniamo accolti in modo molto cordiale. La proprietaria è tifosa sfegatata del Real Madrid e quella sera godrà un mondo nel sentire che il Barca verrà eliminato dai nostri "maledetti" cugini interisti. Optiamo tutti quanti per un entre'e di paella proseguendo poi con il "cordero", che intendiamo sia carne ma che solo a distanza di tempo e grazie allo zio, scopriamo che si trattasse di cosciotto di agnello, tra l'altro ben cucinato.
Non ampiamente soddisfatti della visita pomeridiana, chiediamo alla ristoratrice di procurarci un vino tinto che abbia un po' di struttura e magari con una gradazione tendente ai 14° gradi, da abbinare a quanto stiamo mangiando; veniamo accontentati e ci viene servito il Reserva Sierra Cantabria, di sicuro un vino più consono al nostro palato, giustamente tannico, pieno, di corpo e con sentori e profumi fruttati, morbido al palato e con buona persistenza gustativa. Viene prodotto a San Vicente de Sansierra, a pochi chilometri da Haro, dove ci recheremo il giorno seguente per acquistarne alcune bottiglie, però di Gran Reserva.
La serata fluisce lenta ma con molta giovialità. Ci permettiamo di finire la cena sorseggiando del buon Cardinal Mendoza in balloon adatti per l'occasione accompagnati da un sigaro toscano portato da Paolo dall'Italia.
Felicemente alcolici, rientriamo in hotel e ci lasciamo andare in un sonno profondo, ritemprando le forze, in attesa di rientrare in Fancia, destinazione Pezenas. Un viaggio di 684 km che ci porterà nella Languedoc Roussillon, la regione con la più vasta estensione di vigneti al mondo e che ci permetterà di visitare il Prieurè de Saint Jean de Bebian produttore dell'omonimo vino in versione rouge e blanc.
Lasciando la Rioja abbiamo la sensazione di esserci imbattuti in vini di difficile interpretazione, che forse non incontrano il gusto di noi italiani anche se sembrerebbe ci sia da parte di nuovi viticoltori la tendenza di andare oltre la tradizione venendo incontro al palato d’oltre confine con vini più strutturati e con un tasso alcolico più marcato.
Il viaggio di trasferimento dalla Rioja alla Languedoc-Roussillon è abbastanza stancante; obbligatoriamente sarà un giorno in cui non potremo, per ovvi motivi temporali, programmare alcuna visita con i produttori della zona, ma che comunque ci darà l'occasione di dare al viaggio una connotazione storico-culturale visitando lungo il tragitto, nei pressi di Carcassonne, la citè, fortificazione medioevale.
Il sito, abitato sin dai tempi antichi era protetto da cinte murarie gallo-romane che non impedirono agli invasori, in successione Visigoti, Saraceni e Franchi di impossessarsi ogni volta dei territori. La cittadina fortificata ebbe il suo splendore nel XII° secolo; in questa regione la religione dei catari era molto sviluppata e nel 1208 papa Innocenzo III iniziò la crociata contro gli Albigesi, definiti eretici, e Carcassonne venne presa d'assedio capitolando dopo parecchio tempo. Conquistata e sterminati i catari, venne annessa ai territori reali nel 1226 e la città assunse il ruolo di sentinella della frontiera tra Francia ed Aragona. Nel XIX secolo venne restaurata restituendole il suo aspetto medioevale che possiamo ammirare ancora oggi. Carcassonne è iscritta nel patrimonio universale dell'Unesco. Devo dire che questa tappa ci ha permesso in primis di ossigenarci dandoci una doverosa pausa dalle degustazioni e poi, un po' di cultura non guasta. La cittadina è caratteristica ed è il ricettacolo di numerosissimi negozi di souvenir medioevali, dalle spade, agli scudi agli elmi ai vasi di ceramica e a tutto quanto attinente al contesto di quel tempo. C'è moltissima gente nonostante il periodo non propriamente vacanziero. Visitiamo pagando 8 euro a testa l'interno della fortificazione e devo dire che in qualche modo ne sia valsa a pena.
Il tempo è ancora abbastanza gradevole nonostante inizi a spirare un vento che non promette niente di buono. Riprendiamo il tragitto e verso le 18,15 arriviamo alla cittadina di Pezenas. Hotel Genieys in Avenue Aristide-Briand, via che taglia in due il paese e che a quell'ora della sera è abbastanza congestionata. Entriamo in un angusto portone e posteggiamo l'auto che rimarrà ricoverata e carica di vino sino al mattino seguente. La madame della reception ci ha assicurato la chiusura notturna del portone di ingresso e ciò ci rende tranquilli; il nostro prezioso carico è al riparo da qualsiasi manomissione. La camera dell'hotel è molto ampia ma infonde un po' di tristezza; l'arredamento è scarno, c'è poca luce ed il bagno, inteso come wc è staccato dal corpo doccia/lavabo e come spesso accade è stretto e cieco, ma in fondo dovremo passarci solo una notte e ci adattiamo di conseguenza. Per cena ho selezionato il ristorante "Le Pannequet" in rue A. France, 15 sperando che almeno questo sia aperto. Per trovarlo abbiamo circumnavigato a piedi Pezenas accorgendoci che la cittadina non ha nulla di caratteristico, tra l'altro poco ordinata, poco pulita, un po' sciatta ed in cuor nostro avremmo di sicuro pronosticato un ristorante che si fosse adeguato ai canoni appena intravisti. Per fortuna nulla di tutto questo. Il ristorante "Le Pannequet" è veramente carino con una quindicina di coperti, sapientemente guidato da una coppia di mezza età, con il marito in cucina, abile chef e la moglie dotata di un savoir-faire fuori dal comune. Molto gradevole ed arredato in classico stile provenzale è di sicuro una piccola gemma in un panorama veramente desolante. Abbiamo iniziato con un entrèe di mousse di asparagi finemente servita, a seguire una Pressè de crabe et pommes de terre en chaud et froid, vinagrette aux herbes, ovvero un piatto di predominanza crostacei serviti su un letto di verdure alla julienne condite con erbe provenzali; a seguire un Blanquette e filet de dorade (pesce di fiume) aux sait-Jacques sur brunoise de legumes, il tutto innaffiato da un muscadelle provenzale di buona beva. Come al solito i miei soci si sono buttati sul dolce, mentre io ho preferito chiudere con un bicchiere di passito molto simile al nostro vin santo e servito in un calice colorato abitualmente usato in queste zone. Siamo soddisfatti, forse il ristorante in cui abbiamo cenato meglio con una cucina abbastanza ricercata, lontana dai soliti piatti servitici nelle sere precedenti. Siamo veramente stanchi. I chilometri macinati sono davvero tanti. il giorno seguente sarà quello del rientro in Italia, non prima di aver fatto visita in mattinata a un produttore locale selezionato e sulla via del ritorno lungo i 730 km da percorrere faremo una doverosa capatina a Cairanne nella Cote du Rhone, dal vigneron Marcel Richaud del quale abbiamo ampiamente parlato nel nostro viaggio del 2009 per fare rifornimento di Ebrescade e di qualche bottiglia di Cairanne Blanc.
Il tempo sta lentamente cambiando, forse è triste, come noi del resto che ci accingiamo a concludere la nostra ennesima avventura. La mattina seguente, dopo una frugale colazione a base di the, yogurt e brioches, ci lasciamo alle spalle il centro di Pezenas e ci allontaniamo di qualche chilometro destinazione il Prieurè de Saint Jean de Bebian. L'azienda è situata in quella che viene definita Coteaux du Languedoc, una zona in cui i vigneti erano già presenti al tempo in cui Giulio Cesare conquistò la Gallia; fu nel XVIII secolo che i vini prodotti in questa zona raggiunsero il massimo splendore ma come per tante altre zone a fine secolo la maggior parte dei vigneti vennero distrutti dalla filossera. Oggi questa zona è ritornata in auge in quanto vengono prodotti vini molto interessanti che tengono testa ai più rinomati Chateauneuf du Pape ubicati nei territori confinanti della Valle del Rodano. Il Prieurè, è una piccola azienda che negli ultimi anni si sta togliendo grosse soddisfazioni e noi sulla via del ritorno non ce la facciamo scappare. Per arrivarci ci mettiamo un po' di tempo in quanto il navigatore non legge a dovere le indicazioni dell'azienda. Solo la cortesia di un passante alla fermata del bus, ci consente di trovare la giusta direzione. Iniziano a scappare le prime goccioline di pioggia. Il tempo è perturbato ma la temperatura, tutto sommato è ancora discreta.
L'azienda ha subito una svolta nel 1975 grazie ad Alain Roux, vigneron che ha apportato sensibili modifiche, piantando vigneti a base Sirah, Grenache, Mourvedre ed aggiungendo altri vigneti tradizionalmente allevati a Chateauneuf du Pape, vale a dire il Roussane, il Marsanne, il Clairette e la Grenache gris. Attualmente la proprietà è di un fondo di investimento svizzero che cerca di salvaguardare il rigore seguito e l'alta qualità. Entriamo nel domaine, deserto in mattinata e ci imbattiamo in una donna di circa 45 anni, non bella, ma che si rivelerà in tutta la sua competenza di enologa del domaine. Di origini australiane, ci dice di aver lavorato nella Cote Rotie alle dipendenze di Marcel Guigal e nell'Hermitage da Chapoutier, un biglietto da visita veramente impeccabile. Il nome del domaine è da riferirsi alla chiesetta del XII° secolo facente parte della proprietà, in parte diroccata e secondo la madame in procinto di essere restaurata.
Il domaine non ha grandi dimensioni; è composto da un corpo laterale adibito a locale di diraspatura e pressatura delle uve con attiguo locale di fermentazione con tini di acciaio di buone dimensioni. Da un corpo centrale composto da abitazione e locali ad uso amministrativo con sala degustazione e cantina contenente una discreta quantità di barriques poste una sopra l'altra, con un metodo mai visto sin d'ora, abbastanza rivoluzionario. Le barriques sono fisse su un binario e collegate ad un gancio che permette con un semplice gesto delle mani di spostarle o meglio ancora di rotearle quasi facessimo una specie di remuage stile champagne. Una bella trovata veramente interessante.
La durata della visita nei vari settori di produzione e stoccaggio si esaurisce nell'arco di una ventina di minuti ed in breve veniamo accompagnati nella sala degustazione per assaggiare i vini di punta del domaine ovvero il Prieurè de St Jean de Bebian Coteaux du Languedoc Rouge e Blanc anche se per farci la bocca non disdegniamo di degustare anche "La chapelle" che non troviamo così interessante forse perchè la nostra visita era mirata al Prieurè e forse perchè mentalmente siamo già sulla via del ritorno verso casa.
Iniziamo con il Prieurè Blanc, uvaggio 60% roussanne,15% picpoul,15% clairette e 10% grenache blanc, un vino che nasce su terreni calcari lacustri affinato in botti di rovere della zona dei vosges, elegante, al naso sentori di frutta bianca, fiori di campo e speziatura dolce, in bocca leggermente vanigliato e finemente acidulo. A mio parere un buon bianco, tra l'altro nella versione 2007 da noi acquistata, con ben 14° vol.
Passiamo al rosso, uvaggio Sirah, mourvedre e grenache. La Grenache è la componente essenziale di questo vino, è quella che gli conferisce un colore veramente carico, pieno ed un indiscutibile tasso alcolico di 14,5° vol.Facciamo roteare più volte il vino nel bicchiere che sprigiona sentori speziati di frutta nera (ribes e mora selvatica), in bocca è ampio, morbido con suadenze alcoliche importanti,con un leggero retrogusto mentolato ed un finale veramente lungo. Un pregevolissimo vino di matrice rodaniana. Davvero bravi. Ci convincono ed acquistiamo per impreziosire le nostre cantine ed i nostri palati nelle prossime italiche degustazioni.
In Languedoc, la nostra è stata la classica toccata e fuga che ci ha permesso comunque di intravedere le enormi potenzialità del territorio, che, al di là dell’estensione vitata sembra cercare una propria identità pur utilizzando uvaggi di matrice rodaniana. Uno su tutti la già citata Grenache che, come nella valle del Rodano dimostra di possedere grandi qualità.
Soddisfatti riprendiamo la via del ritorno. Piove, la Francia piange i 3 amatori italiani che malinconicamente rientrano all'ovile.
Qui finiscono 5 anni di pellegrinaggi in terre mitiche, in zone ad alta vocazione enologica che ci hanno aperto la mente ma anche il cuore; 5 anni di bellissime sensazioni olfattive e gustative senza tralasciare l'aspetto umano, ovvero il privilegio di aver conosciuto donne e uomini che hanno messo il loro destino nella terra e nella vite che, se trattata nel modo giusto non tradisce mai, sempiterna dispensatrice di quel liquido vivente che indiscutibilmente unisce l'uomo alla natura.
Noi, non ci fermiamo, perchè la sete del sapere e dell'apprendere è troppo forte e siamo già pronti a riprendere il viaggio di pellegrini nelle terre di Bacco.