Soffro di vertigini.
Facendo parte di una folta schiera di adepti di questa per così dire ossessione o fobia (chiamatela come volete), non potevo che rimanere attratto dai versi scritti con maestria da un poeta della canzone italiana, Lorenzo JovanottI, che recitano quanto segue:
“…la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare……”
Jovanotti, è solito porre riferimenti letterari nelle sue canzoni, in questo caso prendendo spunto da “L’Insostenibile leggerezza dell’essere” di Kundera, relativamente alla canzone Mi fido di te, tratta dall’Album Buon Sangue del 2005, oppure come successo in un album precedente, Lorenzo 1994, con la canzone Serenata Rap, dove riesce a scomodare addirittura Dante, con il verso 103 del Canto V dell’Inferno, quello dedicato a Paolo e Francesca, con la famosa citazione “Amor ch’a nulla amato amar perdona….” .
Non si tratta in questo contesto di disquisire sulle capacità linguistiche del cantautore di origini romane, ma tuttalpiù di dare un senso ad una frase che sento mi rappresenti.
Io, avverto la stessa sensazione, ovvero il vuoto, che mi fa paura, allo stesso tempo mi attrae e mi prende una strana voglia di volare, di buttarmi, ma immediatamente interviene una forza inconscia, forse mentalmente contaminante, che mi trattiene in modo imperativo.
Ho cercato di ricercare un significato più profondo; la scienza dice che la vertigine è una distorsione della percezione sensoriale dell’individuo. Tale distorsione influisce sul movimento della persona, dandogli un’errata percezione dello stesso, caratterizzato dalla perdita di equilibrio.
Il punto nevralgico è l’equilibrio!!
La vertigine è la metafora stessa della vita dell’uomo, che in determinate circostanze è posto nella condizione di dover scegliere, se buttarsi e provare a volare, oppure rimanere fermo sull’orlo del precipizio e questa situazione di incertezza è sempre fonte di un travaglio interno che può sfociare in angoscia. Il lato positivo è la libertà in senso assoluto che può permetterti di scegliere, sempre, cercando di avere quel coraggio che ti può rendere felice.
L’etichetta del Sancerre – La Cote 2014 di Gerard Boulay di 13,0°vol. riporta sopra la citazione del vino uno spuntone di roccia che da su un precipizio non disegnato ma percepito e sopra di esso un caprone intento a guardare verso il vuoto. Quando l’ho vista, per la prima volta, ho avuto la strana sensazione di essere io al suo posto, con la segreta speranza che il vino che sarei andato a degustare mi facesse venire quelle vertigini che mi avrebbero fatto letteralmente volare a livello sensoriale. Non mi sbagliavo.
Gerard Boulay, che ho avuto il privilegio di conoscere ad aprile è persona mite, gentile nei modi, ma soprattutto umile è votato completamente ad un terroir fantastico. Siamo a Chavignol, nella Loira orientale, dove, tra l’altro si può mangiare il formaggio di capra più buono di tutta la Francia. Il vitigno è il Sauvignon Blanc che trova, a mio giudizio, a queste latitudini, la massima espressione mondiale.
Alleva le uve su grandissimi suoli come i Monts Damnès, il Clos de Beaujeu, il Culs de Beaujeu ed un piccolissimo pezzo della Grande Cote, tutti sopra Chavignol ed alcuni di essi talmente ripidi da farti venire le vertigini. Terreni di tipo kimmeridgian, cura maniacale delle viti, fermentazioni naturali in quanto nessun lievito viene mai aggiunto e limitatissimo uso di zolfo. Amore per il proprio lavoro e per il vino che deve esprimere unicamente le caratteristiche dei terroirs. Questo è Gerard Boulay.
Il vino in questione, oltre ad essere stato degustato sul posto, è stato fonte di una squisita serata conviviale con i miei compagni di avventura enologica che ci ha visti stappare una magnum donataci gentilmente da monsieur Gerard a margine della visita, in cui abbiamo fatto incetta dei suoi avvincenti vini bianchi.
Versato rigorosamente in ampio balloon si apre ai nostri occhi con un colore visibilmente dorato e brillante. Lasciato ossigenare a dovere emergono immediatamente profumi di pietra focaia e roccia bagnata (quella dell’etichetta) inframezzati da lievi accenni sulfurei ed a seguire un tripudio di agrumi iniziando dal lime, per passare al bergamotto, al pompelmo e a tracce di buccia d’arancia. E’ un naso delicato e opulento allo stesso tempo, particolare e di sicuro impatto olfattivo. In bocca, entra carezzevole, sorretto da una bella acidità e da una sapidità che ricorda le brezze marine, in un ventaglio gustativo di agrumi amari che ti lasciano una bocca tutta da ricordare. E’ un vino di impatto, si sente in bocca, si aggrappa alla lingua e al palato, ha struttura e lascia intravedere un potenziale evolutivo di almeno 10 anni. Bevibilità imbattibile con la Magnum finita in breve tempo.
Non sempre, nella mia vita ho l’equilibrio necessario per scegliere se volare o se restare sull’orlo del precipizio, ma vi assicuro che per quanto concerne i vini di Gerard Boulay non ho bisogno di alcuna spinta né tantomeno di ripensamenti. Il mio consiglio: se potete andate a visitarlo, degustate i suoi vini e capirete cosa vuol dire volare………