La mia anima musicale alberga negli anni ‘70 e specificatamente in quell’epoca che potremmo definire come British Invasion , dove alcune band di riferimento hanno fatto la storia, ponendo le basi per le generazioni a venire ed influenzando le future correnti musicali degli anni ‘80 e ‘90. Mi riferisco in particolar modo ai Led Zeppelin , quelli di Robert Plant  e Jimmy Page, autentiche pietre miliari dell’ Hard-Rock. 

All’interno del loro quarto album pubblicato nel 1971, è annoverato, a mio avviso, un capolavoro ineguagliabile dal titolo Starway to Heaven, che contiene uno dei più famosi assoli di chitarra elettrica magistralmente interpretati da quel genio di Page, impareggiabile virtuosista dello strumento.


Robert Plant & Jimmy Page dei Led Zeppelin

Ma la canzone (forse è riduttiva chiamarla così), viene ricordata anche per il testo composto da Robert Plant, cantante solista e leader del gruppo, che ha sempre manifestato la sua indole di ispirazione mistica con inevitabili influenze ermetiche ed esoteriche.

Si può dire che il testo sia incentrato inizialmente con la presenza di una donna che intende acquistare una scala per il paradiso, certa di trovare oro in tutto ciò che luccica.

Non è ben chiaro se Plant abbia preso spunto dall’immagine della scalinata verso il cielo che si ritrova in un passo della Genesi all’interno della Bibbia; più avanti, compare un pifferaio che, al contrario della donna, indica un doppio percorso, una scelta, probabilmente quella tra il bene e il male, ricordando che si è sempre in tempo a cambiare quello che si sta percorrendo. 

La tematica, viene ripresa emblematicamente nel testo con i seguenti versi:

“Cause you know sometimes words have two meanings” (perché come sai a volte le parole hanno due significati), indicando quel dualismo che contraddistingue le scelte dell’uomo dalla sua comparsa sulla terra.

Ed ancora: “There’s a feeling i get when i look to the west” (c’è un sentimento che provo quando guardo verso ovest), qui l’ovest è visto come il sole che muore ed il sentimento e di poter entrare in paradiso.

Quando scendo in cantina per prelevare una bottiglia da degustare, quasi sempre non sono io che scelgo, ma è la bottiglia che si fa scegliere e questa volta, avevo in animo il pensiero di poter sorseggiare un vino con la speranza che mi potesse concedere sensazioni paradisiache ed inevitabilmente il pensiero è andato a Starway to Heaven. 

Quasi per magia, è comparso il Gevrey Chambertin annata 2005 di Claude Dugat, straordinario interprete della Borgogna vincola, al pari dei Led Zeppelin, icona del terroir di Gevrey , con i suoi 6 ettari di vigneti coltivati con metodo biologico e lavorati da sempre con l’aiuto del cavallo e dalle cui viti, si ottengono vini estremamente eleganti, fini e longevi.



Mi avrebbe permesso di salire la scalinata verso il paradiso??? Dovevo solo stapparlo e degustarlo.

Pur non essendo un Premier cru o un Grand Cru, ma “solo” un Vilage, lo stappo delicatamente con ossequiosa reverenza perché Dugat è un Maestro e i suoi vini meritano rispetto. Tappo compatto, granitico, versato nel bicchiere rigorosamente Burgundy, si presenta di un rosso rubino scuro e denso, quasi impenetrabile e visivamente, se non conoscessi la bottiglia, farei fatica a pensare a un Pinot Noir, di solito mediamente più scarico, anche se il terroir di Gevrey Chambertin, si presta a vini dal colore più intenso. 

L’annata è di quelle spettacolari, la 2005 è bevibile da oggi, ma date le caratteristiche, potrebbe ancora evolversi per parecchi anni nella sua terziarietà.



Atteso per un’ottimale ossigenazione, con una certa emozione ci metto il naso ed immediatamente vengo rapito da un tripudio di sensazioni olfattive che mi proiettano realmente in un’aurea paradisiaca.

Sono in trance olfattiva ed avverto inizialmente abbondanza di funghi champignon, che si alternano a decise sensazioni ematiche ed a un susseguirsi di frutti neri e rossi, su tutti la ciliegia marasca ed i mirtilli selvatici ed un continuo evolversi di sottobosco da cui fuoriescono finissime matrici terrose.

Il naso è talmente magico che, per alcuni istanti, mi sono isolato dal resto del mondo, ritrovandomi tra i vigneti collinari di Gevrey, al limitare del bosco, sospeso tra sensazioni uniche ed irripetibili.

Ritorno in me, a fatica, lo guardo nel bicchiere e lo riguardo per cercare di capirlo; lo ascolto ed aspetto un po’ prima di portarlo alla bocca.

Entra estremamente carezzevole, quasi in punta di piedi, per poi esploderti dentro, attraversandoti con un tannino setoso e ben levigato ma ancora presente, quasi dominante. Morbidissimo ed ammaliante, a tratti medicamentoso, risveglia di continuo le papille gustative, anche quelle più restie, che devono impegnarsi per arginare una potenza preannunciata da un’iniziale finezza ingannatrice. 

Qui, la frutta la fa da padrona e la ciliegia matura si erge incontrastata e per qualche istante il vino quasi si mastica, talmente è presente in una bocca in cui la persistenza aromatica si fa eterna.

Sento il bisogno di fermarmi, come se fossi un po’ spossato ed inebriato dal tiurbillon di emozioni che sto provando.

Jimmy Page, nel corso di un’intervista con la BBC, ha rivelato che, la finezza dell’iniziale chitarra acustica insieme al suono del flauto ed alla voce di Plant, in un misto di cantato e recitato, unitamente alla progressiva intensità dell’indimenticabile assolo finale di chitarra elettrica, siano serviti a dare al brano una spinta emozionale difficilmente ripetibile.

La stessa spinta, l’ho ritrovata nel Gevrey Chambertin di Claude Dugat, che come Starway to Heaven , racchiude un’iniziale pacatezza, che nel proseguo, per la sua struttura, incalza sempre di più lasciandoti l’anima sospesa dal primo all’ultimo sorso, facendoti pensare seriamente di ritrovarti in paradiso.