Il vitigno Savagnin ha origini antiche, valenti storici sostengono che provenga dal Tirolo, in Austria e che faccia parte della famiglia dei Traminer e del Gewurztraminer alsaziano. Fonti certe, ci dicono che nel  XVI°secolo, il territorio francese dello Jura fosse  una provincia appartenente agli Asburgo e gli scambi commerciali all’interno del regno portò il Savagnin ad essere coltivato su larga scala.

Recentemente però sono stati prelevati resti da un sito medioevale di Orleans corrispondenti al Savagnin con datazione risalente a circa  900 anni fa; tutto ciò fa presupporre ben più antica la sua collocazione francese e addirittura qualcuno è convinto che il vitigno sia stato portato nello Jura, nei vigneti dell’Abbazia di Chateau Chalon, da monaci ungheresi durante l’epoca delle crociate.

E’ probabile che questi monaci si fossero insediati nell’Abbazia verso la fine del X° secolo d.C. intorno all’anno 1000, dopo la calata degli ungheresi, facenti parte delle popolazioni barbariche, nel 954 d.C., i quali attraversarono completamente lo Jura fino ad arrivare all’attuale Cote du Rhone (Valle del rodano).

Abbaye de Chateau Chalon

Nelle mie ricerche storiche mi sono imbattuto in un’altra Abbazia medievale facente parte dell’odierno dipartimento dello Jura, l’Abbazia di Gigny fondata nell’894 da una nobile famiglia borgognona, probabilmente per assicurarsi il paradiso. Nel corso degli anni il re di Borgogna Rodolfo I assicurò a Gigny anche l’Abbazia di Baume, il Priorato di Saint Lothain, il villaggio di Chavenay sous Montaigu e quello di Clemency. 

Nonostante le innumerevoli teorie su questo vitigno, una cosa è certa e che trattasi di un vitigno autoctono francese che da vita a vini particolarissimi.

Quando ho ricercato le origini, nel mio navigare in google, mi è balzato all’occhio il Priorato di Saint Lothain e non ho potuto fare altro che dirigermi in cantina prelevando una bottiglia di Savagnin di Didier Grappe, viticoltore biologico illuminato e certificato Ecocert che ha la sua attività proprio a Saint Lothain, località che dista solo 11 km da quel Chateau Chalon dove si dice sia stato coltivato per la prima volta il Savagnin. La bottiglia in questione è uno Savagnin Ouillè 2017 di 13,0° vol. Innanzitutto, parliamo di un Ouillè nel senso che è stato utilizzato il metodo della colmatura della botte evitando così il passaggio di ossigeno che di norma in questa regione da origine ai più famosi Vin Jaune ossidati (metodo sous voile) e che non incontrano molto il gusto italico.

Per me è una scoperta, perché nel recente passato ho solo degustato Vin Jaune. Stappato e versato in ampio balloon, tappo compatto di 4,7 cm, si presenta di un colore tendente all’oro opaco; il naso è veramente intrigante, nel senso che dopo un iniziale sprigionarsi di note muschiate e di pirite, lasciandolo ossigenare per almeno una decina di minuti, il vino vira su sensazioni agrumate di limone dolce, per poi lasciare il posto a mela verde. Roteato più volte nel bicchiere emergono nuances fumose, boisè e di pepe bianco.

In bocca è diretto, teso e vibrante ed emerge da subito una mineralità che dona al vino un’immediata piacevolezza di beva che lo rende al contempo estremamente accattivante. Buona la corrispondenza naso/bocca anche se a dominare sono le note agrumate con un retrogusto sul finale di noisette. Sapidità marina a iosa che sa ben alternarsi alla dolcezza del frutto, si dimostra un vino complesso, energico, mai banale e decisamente delizioso. 

Abbinato a un sautè di frutti di mare, ma lo avrei visto volentieri con un cesto di ostriche e anche con carni bianche. Una piacevole sorpresa questo Savagnin che mi ha obbligato a fare un salto indietro nel tempo, facendo risaltare ancora una volta l’importanza dei monaci nell’evoluzione dell’ampelografia francese.