Negli ultimi anni mi capita spesso di valutare la grandezza di un artista quasi sempre dalle sue ultime opere, forse perché riassuntive di un percorso o meglio ancora perché fanno emergere gli obiettivi e le speranze che, quasi sempre, al crespucolo della propria esistenza non sono stati completamente raggiunti o rivelate in quanto tali. 

In questo tragico periodo di segregazione domestica da Covid-19, dove si trascorre inevitabilmente più tempo a casa, sto riscoprendo o per meglio dire cerco di ripercorrere le tappe musicali di grandi artisti che ci hanno lasciato, ma che continuano a mantenere un posto costante nelle nostre vite. Uno di questi è senza dubbio il”Duca Bianco”, quel genio di David Bowie, eclettico trasformista, che con il secondo album “Space Oddity” del 1969 strabiliò tutta la critica al punto tale da considerarlo non di questo mondo, ma un vero e proprio extraterrestre, visto la sua imprevedibile verve artistica quasi anacronistica per gli standard dell’epoca, 

Ho cercato volutamente di ascoltare gli ultimi album, in particolare “The next day” uscito il 2 marzo 2013, dopo una lunga pausa di riflessione musicale di 10 lunghi anni, dove i più hanno pensato avesse smarrito la sua vena poetica ed il sound che lo aveva contraddistinto in tutta la carriera. Mi sono soffermato sulla traccia “Where are we now” (Dove siamo adesso….), a mio modo di vedere un capolavoro, molto distante dall’alieno di “Ziggy Stardust” o dalla crisi esistenziale di “Heroes”, in cui distrutto da droga e alcool sembrava fosse prossimo alla fine. “Where are we now” è purtroppo per Bowie un distaccato e struggente ritorno in una Berlino che ha poco della magia e delle speranze di un tempo. Si perde nella giungla (Dschungel), discoteca frequentata con l’amico Iggy Pop a fine anni settanta, ritorna nelle vicinanze del Kadewe, grande magazzino berlinese e al Bosebrucke, punto di transito tra Berlino Est ed Ovest. Attraversa “Postdamer Platz” simbolo della caduta del muro e come lui migliaia di altre persone attraversano quella piazza, in parte come sospesi nel tempo e in parte già morti. La caduta del muro sembrava l’inizio di un percorso per l’umanità ben presto abbandonato ed ora è inevitabile chiedersi: “dove siamo???

Forse questa sorta di pessimismo cosmico e di nostalgica malinconia è da ricercare nello stato di salute del cantante, il cancro lo avrebbe consumato da li a poco e sembrerebbe la disfatta degli ideali rincorsi ed in apparenza raggiunti, ma è sul finale che Bowie lascia aperto uno spiraglio, una sorta di grido di speranza…..


Il testo recita:


as long as there’s sun

as long as there’s rain

as long as there’s fire

as long as there’s me

as long as there’s you


finchè ci sarà il sole

finchè ci sarà la pioggia

finchè ci sarà il fuoco

finchè ci sarò io

finchè ci sarai tu


"We are we now..."


https://www.youtube.com/watch?v=QWtsV50_-p4

https://youtu.be/QWtsV50_-p4


Queste parole mi hanno riportato alla mente le stesse pronunciate in un contesto diverso, ma dal similare significato da uno degli ultimi grandi vecchi di Langa, il Cav. Lorenzo Accomasso di La Morra. Parlandomi dei suoi incontri con i giovani vignaioli langaroli mi specificò il fatto che li spronasse a non arrendersi alle difficoltà, a non farsi sopraffare dalle speranze infrante, dagli ideali calpestati da una società malata, ma a guardare continuamente avanti ad un futuro migliore, in sintesi finchè c’è vita c’è speranza.

Parole che in questo particolare momento sanno di conforto ed è per questo, che per scacciare la malinconia accumulata in questi lunghi giorni, sono sceso in cantina e ho tolto dallo scaffale una sua bottiglia di Barbera D’Alba “Pochi Filagn” 2012 di 15,0° vol. ed ho voluto fare mia per ritemprarmi, quasi a voler assumere un antidoto alle continue brutture di questo periodo maledetto.

“Pochi Filagn”, perché nel riassetto dei terreni vitati di proprietà dell’Accomasso la Barbera ha ceduto il passo al ben più rinomato Nebbiolo da Barolo, ma state certi che i “pochi filari” rimasti danno vita a qualcosa di veramente sublime…..

Stappato un paio d’ore prima di essere servito, tappo ben saldo di 5,1 cm, si presenta di un bel colore rubino molto intenso con lievissimi riflessi aranciati sull’unghia.

Il naso è un caleidoscopio di profumi molto intensi di frutta rossa matura, ciliegia marasca e prugna, per poi virare a inconfondibili sentori di cuoio, pellame, goudron, tartufo bianco, humus, corteccia di sottobosco e sul finale speziature dolci e cioccolato,

La bocca, nonostante iniziali tratti di autentica rusticità, è pervasa da una sottile astringenza che non disturba e con un tannino che si sta ancora affinando e col tempo emerge una sobrietà e una freschezza da non credere nonostante ci si aspetterebbe una classica botta di alcool, visto quanto dichiarato in etichetta, Beva mai banale e sicuramente appagante, col tempo trasforma l’iniziale matrice rurale in un sorso decisamente aristocratico che mai ti aspetteresti da una Barbera e da un produttore come il Cav. Accomasso, gran vecchio di Langa, dal viso solcato da rughe profonde di fatica e da mani ruvide come la carta vetrata. I suoi vini e questa Barbera in particolare non mentono, talmente è vera e schietta. 

Il mio iniziale "dove sono...." è stato ben presto soverchiato da un senso di gioia. 

Abbinato a un piatto di ossibuchi, per rivendicare le mie origini Longobarde, in un momento dove più che mai l’attaccamento alla mia terra non è mai stato così forte e dove un sorso di questo rosso, per alcuni istanti, ha riacceso le speranze di una auspicabile ed imminente risoluzione alla pandemia.