Sono affascinato dal periodo che va sotto il nome di Medioevo, buio e misterioso, dove sprazzi di luce si sono visti solamente con l’avvento dei Templari, di cui sono un cultore da sempre, ma il periodo fondamentale che fa da spartiacque tra un’epoca di barbarie e di ignoranza e quella del ritorno al classico, va sotto il nome di Rinascimento. Espressione che gli Umanisti indicarono per sottolineare il loro tempo (XIV/XV secolo), dove la cultura e l’arte assunsero il massimo del loro splendore. Rinascimento sta a rinascita, ma che significato possiamo attribuirgli? C’è un bellissimo aforisma di Pablo Neruda che recita quanto segue:

“Nascere non basta. E’ per rinascere che siamo nati. Ogni giorno….”

 Quante volte abbiamo sentito dire: “sono rinato….”; sfido chiunque che nella sua vita non abbia mai asserito qualcosa del genere. La rinascita implica sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di positivo, ma per rinascere bisogna prima morire, bisogna passare attraverso un cambiamento il più delle volte doloroso. In effetti, spesso e sovente è il cambiamento che ci frena, che non ci permette di rinascere; vivere nella propria “comfort zone” ci fa accontentare di quello che abbiamo, di situazioni, di relazioni, di stabilità che apparentemente ci lasciano tranquilli. Non è così, e questo è il duro prezzo che si deve pagare per rimanerci (bella consolazione!!).  Ma la vera vita è un’altra. La nostra vita non è nascere e morire; fosse così viaggeremmo su un binario lineare, piatto, privo di esperienze, amorfo, routinario…chiamatelo un po’ come volete. La vera vita è cadere e rialzarsi e non accontentarsi delle convenzioni che culturalmente e socialmente ci vengono iniettate dall’infanzia. 

Il passo successivo alla rinascita, ed è un passo che implica un viaggio interiore, è quella che potremmo definire “rinascita spirituale”, un vero e proprio risveglio della nostra coscienza, che ci permette di identificare la realtà per quella che veramente è. Solamente staccandosi dal corpo, l’anima rinasce ad un’energia di cui non si era consapevoli, staccandosi da quel sonno corporale e mentale dove si sogna una vita di piccole soddisfazioni.

Personalmente negli ultimi anni posso dire di essere rinato più volte e non senza patemi d’animo e sofferenze interiori, ma oggi ho la consapevolezza di non essere fermo, ma di viaggiare su di una strada chiamata vita. 

Anche enologicamente mi capita di rinascere, dopo degustazioni deludenti che lasciano una certa insofferenza e malessere e per ritornare a vita nuova o vera vita gustativa, ho solo un rimedio infallibile: stappare una bottiglia di Pinot Noir!!! Mi è successo pochi giorni fa con una bottiglia di cui preferisco non citare vitigno e produttore, dirò solo che era un rosso con ampie aspettative al riguardo. Poco importa. Per “rinascere” mi sono affidato ad una bottiglia dal nome emblematico, ovvero MOREY SAINT DENIS – Premier Cru “Cuvèe Renaissance (Rinascita)” annata 2014 di 13°Vol. del DOMAINE TORTOCHOT, che ho visitato nel 2019; un’azienda di piccole dimensioni situata a Gevrey Chambertin in piena Cote des Nuits e sapientemente diretta negli ultimi anni in primis da Gabriel Tortochot ed ora dalle figlie Brigitte e Chantal che sanno dare vita a vini tipicamente territoriali. Val la pena una visita se vi trovate da quelle parti.


Amo i vini di Morey Saint Denis, perché come afferma qualcuno, sono spesso in bilico tra l’aristocrazia e la potenza di Gevrey Chambertin e la finezza di Chambolle Musigny. Questo Premier Cru è un assemblaggio di due vigneti, il Clos des Ormes e il Clos Baulet e stappato un paio d’ore prima di essere servito nel tipico balloon stile Burgundy, si presenta visivamente di color rosso rubino mediamente carico, uniforme, limpido e in assenza di sbavature.
 Il naso infonde un senso di appagamento, facendoti quasi sospirare; gli iniziali sentori di frutta rossa matura in emersione, ciliegia, ribes e lampone, lasciano in seguito spazio a terra umida, a una leggera sensazione ematica e a speziature dolci. In bocca entra con finezza e potenza allo stesso tempo e qui non può che sovvenirmi il romanesco Mario Brega, dove in un famoso film asseriva: “….questa mano po’ esse piuma o po’ esse fero….”, ma è nel middle-palate che esprime tutta la sua ampiezza. E’ fresco, sorretto da una bella acidità; al palato si ripresenta in modo netto la frutta ed il finale, persistente,  è ingentilito da una caratteristica nota balsamica di liquirizia dolce. 

Come direbbe il mio caro amico Emanuele è un vino gourmand perché si adatta bene a svariati accostamenti culinari. Personalmente l’ho abbinato a uno stico di maiale arrosto. 

Grazie al Domaine Tortochot, posso asserire con fermezza di essere rinato.