Nella zona sud-occidentale della Sicilia, esiste un’area archeologica che conserva i resti di una antichissima città greca che va sotto il nome di Selinunte. Fondata nel VII secolo a.C. è situata esattamente tra la Valle del Belice e la Valle del Modione. Come tante altre città greche esposte sul mediterraneo, ebbe un rapido sviluppo demografico raggiungendo circa centomila abitanti, ma ebbe anche breve vita in quanto distrutta nel 409 a.C. ad opera dei Cartaginesi, che avevano rotto un’antica alleanza.
Il nome della città, deriva probabilmente dal fiume Selinon, oggi chiamato Modione, che in greco antico significa prezzemolo selvatico, pianta che divenne il simbolo di Selinunte, tanto da ritrovarlo su antiche monete che lo raffigurano.
Il parco archeologico di Selinunte, sotto il comprensorio del comune di Castelvetrano, ha un’estensione di 270 ettari tanto da essere considerata l’area archeologica più grande d’Europa che conserva resti importantissimi relativamente a quella che va sotto il nome di architettura dorica. Una delle zone più interessanti è costituita dai templi orientali, che si trovano sul territorio dove iniziarono gli scavi promossi dai due archeologi Harris e Angell, ed effettuati nel 1823, quando riscoprirono Selinunte, riportando alla luce quei reperti che vanno sotto il nome di metope, ovvero quei fregi architettonici utilizzati in architettura come decorazione e che oggi vengono custoditi nel Museo Archeologico di Palermo.
Più specificatamente per metope, si intende una lastra rettangolare di pietra, marmo o terracotta, o talune volte come per il caso di Selinunte di calcare, liscia dipinta o decorata a rilievo, inserita tra i triglifi (elemento architettonico decorativo quadrangolare, sporgente, che nel fregio dorico si alterna alle metope. Il triglifo è percorso verticalmente da due scanalature (glifi), di solito triangolari, con talvolta l'aggiunta di due mezze scanalature che smussano gli spigoli) nel fregio del tempio greco di ordine dorico.
Manufatti che ci sono stati lasciati in eredità e che sono vere e proprie opere d’arte realizzate dalle mani sapienti di scalpellini, intarsiatori, veri e propri scultori, che hanno saputo tramandare un’arte a pochi eletti e che per lunghi periodi ha resistito alle pieghe del tempo. La manualità umana, a volte lascia esterrefatti e spesso ci si domanda come possano essere state concepite opere architettoniche che sono delle vere e proprie opere d’arte.
Non lontano da Selinunte, nell’area di Menfi, quindi a una ventina di chilometri circa, ritroviamo a distanza di 2400 anni una donna, un’eroica vignaiola siciliana, tale Marilena Barbera che ha fatto della manualità la sua arma vincente, al pari dei suoi predecessori greci. Sembrerebbe che sia stata folgorata sulla via di Damasco una decina di anni fa, degustando una vecchia annata di una Coulèe de Serrant di Nicolas Joly (padre della biodinamica francese) che l’ha illuminata a tal punto da rivoluzionare il suo modo di fare vino.
Nasce un vino straordinario, fatto unicamente di uva e mani e grazie all’amico William (francese di nascita ma italiano di adozione) che me lo fa conoscere, anche io vengo letteralmente folgorato dal suo vino Ammàno Vino bianco #6 (sesta annata di produzione di 1996 bottiglie) di 13,5 ° vol. , un vino artigianale fatto senza macchinari e additivi, prodotto con uve Zibibbo e che ti conquista sorso dopo sorso.
Ho letto, che intervistata, sulle 3 bottiglie che porterebbe con sé su un’isola deserta, ha risposto: “una bottiglia di Arbois, una di Marsala non fortificato ed ovviamente una bottiglia di Ammàno….” (come darle torto…..).
Ma veniamo alla degustazione. Stappato e versato nell’apposito bicchiere, si presenta di un colore affascinante che non può non ricordare il sole della Sicilia. Dorato e leggermente torbido, un bellissimo colore dato dalla macerazione di una settimana circa e la sua bellezza sta proprio qui.
Al naso è un tripudio di fiori d’arancio che si alternano a frutta gialla molto matura, susina su tutte ed a seguire note leggermente balsamiche con accenni a resina di pino e vaghe sensazioni di erbe della macchia mediterranea, quella selvatica e spontanea, forse proprio il basilico di Selinunte; ma è in bocca che si completa diventando epico, con una morbidezza che accarezza il palato in modo estremamente sensuale e in breve si è avvolti da un caleidoscopio gustativo di fiori d’arancio, frutta gialla a go go e permane una bella sensazione di freschezza e sul finale, ampio e persistente, un tocco salmastro che conferisce un pizzico di salinità che lo contraddistingue in modo particolare.
Un vino naturalissimo, da bersi a secchiate talmente è invitante, al pari del canto delle sirene per Ulisse. Difficile resistergli !!. In questo vino, dove si sente il vero connubio tra natura e mano dell’uomo, emerge la femminilità di Marilena e oserei dire anche una sensibilità fuori dal comune, perché ha saputo creare un vino apparentemente di facile beva ma che rimane ben impresso nella memoria. Un vino da assaporare con la propria amata , all’ombra di un albero secolare, in una calda giornata estiva dove si ode solo il frinire dei grilli e dove l’aria è tersa e ti fa sentire vivo e tra un sorso e l’altro, fare l’amore sarà ancora più bello.