Sono appassionato della storia del Rock e dei fantomatici misteri contenuti in alcuni brani che celano messaggi subliminali, creati con la tecnica del backmasking; veri e propri messaggi nascosti, talvolta incompensabili o addirittura di matrice satanica, 

Questa particolare tecnica si sviluppa ispirandosi al suo inventore, Thomas Edison che notò che, girando all’indietro i cilindri del grammofono, da lui inventato, si poteva ascoltare tranquillamente una canzone al contrario. 

Alcuni gruppi che hanno fatto la storia della musica, già negli anni sessanta del secolo scorso, si “divertirono” per così dire a lasciare messaggi criptici, lasciando ai posteri il compito di interpretarli. Probabilmente i primi furono i Beatles, che nella penultima traccia dal titolo Revolution 9 , dell’LP “White Album”, inserirono una frase che ascoltata al contrario recitava “Turn me on, dead man”, chiaro riferimento al bassista del gruppo Paul McCatrney, dove il 9 stava a indicare il numero delle lettere del suo cognome, nonché al giorno della sua ipotetica morte, ovvero il 9 novembre 1966. 

Da qui in poi entriamo nella teoria dei complottisti che sostengono che il vero Paul McCartney sia morto in un incidente stradale (schianto contro un albero) in compagnia di una certa Rita, autostoppista poco prima rimorchiata e che avendolo riconosciuto in un secondo momento, lo avesse distratto alla guida in preda ad una crisi isterica da fan, normale per l’epoca. Come ben sappiamo il mistero si infittisce in un secondo tempo con la pubblicazione dell’album Abbey Road del 1969, unica copertina di un disco dei Beatles dove non compaiono né il tiolo, né il nome del gruppo, ma unicamente i componenti intenti ad attraversare strisce pedonali diventate un vero e proprio cult, meta di pellegrinaggi londinesi da tutto il mondo.

In testa c’è John Lennon, vestito di bianco, che dovrebbe rappresentare il ministro celebrante la funzione funebre;

dietro di lui Ringo star, vestito di nero, il portatore della bara;

Paul McCartney (per i complottisti il sosia), è il morto, unico a piedi nudi, visto che in Inghilterra si è soliti seppellire i morti senza scarpe. Tra l’altro, lui mancino, tiene la sigaretta sulla destra e a differenza degli altri è fuori tempo con il passo;

in coda George Harrison, vestito di jeans, colui che scaverà la fossa.

Altri due dettagli particolari, ovvero la targa del Maggiolino parcheggiato sulla sinistra LMW 281F indicherebbe Linda McCartney widow (Linda McCartney vedova ) e che Paul avrebbe 28 anni se fosse stato ancora vivo. In ultimo, sul lato opposto della strada un furgone nero parcheggiato, ricorda quello utilizzato dalla Polizia mortuaria londinese negli incidenti stradali……Vero o non vero, il mistero della presunta morte di Paul, dato dalla frase ascoltata al contrario, unita alla foto del celeberrimo album del ’69, continuano ad alimentare congetture, dibattiti e discussioni che permettono alla mitica band di mantenere quell’alone di mistero ancora oggi, per la gioia dei fans.

ABBEY ROAD

Alla stessa stregua, ma per fortuna senza che ci scappasse il morto, mi sono imbattuto in un vino che serba un alone di mistero, ad iniziare dal nome della azienda vincola e a quello del suo vino. Siamo in Georgia, culla del vino, presente già 8.000 anni fa e dimostrato dal ritrovamento di alcuni reperti che stabiliscono con certezza questa data. 

L’azienda si chiama Pheasant’s Tears, letteralmente “lacrime di fagiano”, nata da un’idea condivisa dal viticoltore Gela Patalishvili e dal pittore John Wurdeman presa a prestito da  un’antica leggenda che racconta che solo qualcosa di bellissimo può far piangere un fagiano…..di sicuro non è la morte, che sia il vino???? Mistero….

Il nome del vino è ancora più misterioso, visto che più che un nome sembra un codice fiscale …MTSVANE, che celi anche lui qualcosa di incomprensibile??? Non lo so, ma degustandolo, forse ne potremo capire qualcosa di più. 

In questa parte del mondo (siamo nella regione denominata Kakheti) per fare vino, si inizia estraendo argilla per la fabbricazione del Qvevri, una grande anfora di terracotta che viene posta sottoterra e nella quale verrà fatto fermentare ed affinare. Le stesse anfore di cui si è innamorato anni fa il buon Gravner e che utilizza ancora oggi per i suoi vini. Qui tutto trasuda di storia e tradizione secolare. I vini bianchi sono particolari perché sono vinificati con lunghe macerazioni sulle bucce, generando un colore davvero unico e non solo. Ma veniamo alla degustazione, di questo Amber wine, ovvero l’alter ego degli Orange wine, in uso negli ultimi anni  alle nostre latitudini, ma qui presenti da millenni.

Purtroppo, il tappo si è sfaldato in due all’apertura, ma non ha pregiudicato né la conservazione né il contenuto.

Versato in ampio ballon si presenta di color ambra antica limpidissima; lasciato ossigenare a dovere e servito ad una temperatura quasi da rosso, fa emergere sensazioni inizialmente contrastanti e a tratti veramente misteriose. Avverto ginger, buccia d’arancia, note di tea nero, sentori di smalto e di erbe essicate al sole d’oriente. Ho un po’ timore a portarlo alla bocca……

Non resto deluso, ma al contrario mi imbatto in un vino molto impegnativo a livello gustativo, che nella cavità orale incalza progressivamente con una debordante acidità, con una sottile ma percettibile astringenza su di un corollario di sapidità notevole e mutevole al palato. 

Persistente e con una leggera punta ossidativa che lo rende a tratti scontroso e gentile allo stesso tempo. 

Un vino non per tutti, da assaporare da solo, magari concentrati ed intenti a risolvere gli enigmi ed i misteri più disparati.