Nel 1516, il re francese Francesco I, grande ammiratore di quel genio di Leonardo da Vinci, gli chiese espressamente di prendere dimora ad Amboise, in Loira, accettando il titolo di “primo pittore, architetto ed ingegnere del re”. 

In quello stesso anno, il Maestro, sessantaquattrenne, attraversò le Alpi insieme ai due discepoli: Francesco Melzi e tale Batista de Vilanis. Si stabilì a Chateau du Cloux, oggi conosciuto come Chateau du Clos-Lucè, situato a soli 400 metri dalla residenza regale dello Chateau d’Amboise. 

Questo maniero, residenza secondaria del re di Francia, fu l’ultima dimora di Leonardo che si spense al suo interno il 2 maggio 1519; qui, il Da Vinci scrisse il suo testamento ed affidò i suoi disegni, i bozzetti, gli appunti e i suoi quaderni al fidato Melzi. Si dice che Leonardo non arrivò a mani vuote, ma portò con sé, tra le tante cose, anche la Gioconda e La Vergine delle rocce; gli storici sostengono, che dopo la sua morte il re di Francia acquistò i due dipinti da Gian Giacomo Caprotti, detto Salai, un discepolo di Leonardo, forse il suo amante, al quale il genio italiano li aveva affidati.

Nello Chateau du Cloux, Leonardo sarebbe stato libero di sognare, di pensare e di lavorare, termini espressi dal re, anche se, data l’avanzata età, molti dei suoi lavori vennero appena iniziati e mai ultimati. Di tutto ciò, il re se ne fece una ragione, a lui bastava saperlo nelle vicinanze e poterlo raggiungere agevolmente in qualsiasi momento attraverso una galleria segreta che collegava lo Chateau d’Amboise alla dimora di Leonardo. Il re lo invitò a corte per la sua grandissima ammirazione, per consentirgli “una onorata pensione”, avendo l’ opportunità di poterlo vivere e goderne della sua immensa cultura. 

La famiglia  d’Amboise, diventa proprietaria dello Chateau du Cloux alla fine del XVII secolo e lo salva da distruzione certa durante la Rivoluzione francese; nel 1854 la famiglia Saint Bris ne assume la proprietà riportandolo ai fasti di un tempo, attraverso minuziosi lavori di restauro. Il Castello è visitabile ancora oggi e percorrendo le sale, si ha la sensazione di poterlo osservare nella sua stanza, assorto in un silenzio tombale ad osservare il mondo fuori dalla grande finestra, o addirittura sembra di vederlo cenare con la fedele serva Mathurine, che gli preparava piatti unicamente vegetariani, invocando una sana alimentazione ed esortandolo a fare passeggiate in riva alla Loira, soffermandosi sempre con uno sguardo attento e voglioso di scoperta.

Lo stesso sguardo, la stessa ecletticità e genialità la riscontriamo in un enfant du pays, che di sicuro ha passato intensi momenti in riva al fiume francese per eccellenza, intento ad elaborare e a partorire mentalmente monumentali vini naturali, vere opere d’arte, al pari del genio toscano.

Jean Pierre Robinot, questo è il suo nome, scopre il vino in tarda età, a 22 anni (io l’ho scoperto verso i 10 anni imbottigliandolo con mio padre), assaggiando uno Cheval Blanc del ’64 (beato lui!!!), successivamente fonda la rivista di vino “Le Rouge et le Blanc” insieme a Michel Bettane, che ho provato ad acquistare e mi piace tremendamente perché sprovvista di pubblicità e nel 1989 apre una enoteca a Parigi “L’Ange Vin”, con una importante selezione di vini artigianali,  che gli consentiranno di conoscere Jules Chauvet e Marcel Lapierre, vere e proprie icone del Beaujolais, che gli apriranno la mente stravolgendogli la vita e convincendolo a tornare nel piccolo villaggio natio di Chahaignes, dove darà vita alla sua azienda, chiamandola con il nome della sua enoteca parigina.

Oggi, alleva 10 ettari tra Tours e le Mans, vigne su terreni argillosi e calcari di età tra i 70 e gli 80 anni e vitati unicamente a Chenin Blanc per i bianchi  e Pineau d’Aunis per i rossi, vitigni autoctoni che riflettono il suo modo di essere e di pensare. Da subito il Robinot, si è convertito a una agricoltura biodinamica, niente prodotti di sintesi ma unicamente preparati naturali ed in cantina fermentazioni lentissime con lieviti indigeni ed affinamenti in vecchie botti; nessuna filtrazione ne aggiunta di solfiti tanto che ogni etichetta riporta la dizione “Vins S.A.I.N.S.”, ovvero Sans Aucun Intrant Ni Sulfite (senza alcun aggiunta di solfiti).


Ma veniamo alla degustazione:

versato nell’apposito ballon si presenta di color rosso ciliegia, accattivante e quasi impenetrabile, se non addirittura un po’ torbido per via della mancanza di filtrazione. 

Nonostante aperto circa tre ore prima di essere servito, al naso avverto ancora una certa riduzione, segno che i vini di Robinot vanno saputi attendere.

Lasciato ossigenare a dovere, emerge inizialmente la parte fruttata, in modo quasi irriverente, con note di lamponi e ciliegia bigarreux (i nostri duroni) appena colte, ma ben presto prende il sopravvento una forte sensazione speziata, chiodi di garofano, cannella, pepe nero e sul finale un tocco originalissimo di rabarbaro.

Ma è in bocca che diventa alquanto superlativo; un vino che entra con decisa verticalità, ma che poi al palato ti esplode dentro in ampiezza, gusto e persistenza senza fine. 

Una sorpresa questo Pineau d’Aunis, che si distingue anche in mineralità, sapidità e che sa essere anche fine ed elegante allo stesso tempo.

Robinot esprime tutta la sua lucida follia disegnando un vino poliedrico , che parte inizialmente in modo molto Bohemien, ossia anticonformista e quasi fuori da ogni regola, per poi virare su una matrice tipicamente aristocratica, diventando quasi rigoroso, lineare, esaltandosi in finezza ed equilibrio e mutando nel bicchiere sorso dopo sorso regalando emozioni senza tempo.

Leonardo e Robinot, forse il paragone è eccessivo, ma quello che li lega è senza dubbio l’estro creativo e la capacità di dar vita a vere e proprie opere d’arte.