Ancora inebriati dalle soavi bollicine di champagne, ci eravamo messi in testa di concludere in bellezza le nostre scorribande francesi, ripromettendoci di visitare quell'ultimo lembo di terra ancora sconosciuto che ha per nome Valle de la Loire. Dopo aver amabilmente assaporato l'effervescenza impareggiabile del pinot nero vinificato col rinomato metodo champenois e dopo aver effettuato degustazioni mitiche, ci saremmo ancora una volta dedicati prevalentemente ai vini bianchi, in questo caso, però, decisamenti secchi, imbattendoci comunque, on the road, in alcuni vini rossi di levatura mondiale. Devo essere sincero; quando prendemmo la decisione di programmare il viaggio nella Loira mi sono alquanto preoccupato perchè inesperto di un territorio, ma soprattutto di vini in parte sentiti nominare,
A onor del vero, penso che la Loira (intesa come regione) sia conosciuta più che per il vino, per molti altri aspetti; inevitabilmente l'associazione Castelli=Loira è forse quella più naturale, seguita per il fatto di avere dato i natali ad alcuni personaggi famosi nel campo letterario quali Proust,Balzac e Descartes. Poi, a seguire, il fiume stesso, uno dei più lunghi di Francia (c.ca 900 km.) ed infine, forse, viene il vino.
Non solo; il territorio della regione della Loira, molto ampia, con un'estensione da ovest ad est e con ben 53 zone vinicole differenti, in un primo momento mi ha completamente disorientato e costretto ad un full-immersion coadiuvato da riviste del settore e dal proverbiale sapere di internet. Ho chiesto aiuto al libro scritto magistralmente da Andrea Scanzi "Il vino degli altri", ma in qualche modo le mie preoccupazioni sono aumentate dopo aver letto la frase che testualmente riporto:" Così come la mano di Mario Brega in Bianco Rosso e Verdone può essere fèro o piuma, questi vini possono essere deliziosi o ciofeche."
A fronte di questa affermazione e valutando quanto asserito dallo Scanzi (giornalista-scrittore molto affidabile) l'individuare i produttori da visitare risultava di fondamentale importanza per non vanificare 5 giorni di viaggio. Come sempre vorremmo trarre le migliori esperienze attraverso percorsi gustativi che lascino un segno indelebile nella nostra continua sete di conoscenza enologica.
Mai come questa volta diventava necessario rileggere quella che definisco la Bibbia dei vini d'oltralpe, ovvero il libro "Vini Francesi" scritto con dovizia da Robert Joseph, che per taluni versi ha il merito di avermi dato una grossa mano per non incorrere in spiacevoli sorprese.
Le cose necessarie da fare, in relazione al tempo esiguo da trascorrere nel territorio francese, erano essenzialmente due:
1) identificare tre territori fondamentali per poter comprendere la tipicità dei vini della Loira, dando la priorità a quelli più rinomati;
2) una volta identificati, scandagliare il ventaglio di scelta di quei produttori vivamente consigliati da chi, prima di noi, ha vagabondato da una cantina all'altra.
Notoriamente la Loira è terra di vini bianchi e di vitigni quali lo chenin blanc ed il sauvignon, ma nella zona dello Saumur fa bella mostra di sè il Cabernet Franc, rosso austero, di spessore ed è su questi vitigni che abbiamo gettato le fondamenta per la riuscita del nostro viaggio.
Le zone che visiteremo saranno le seguenti:
ad ovest il Saumur ed il Vouvray, ad est la zona di Pouilly sur Loire e Sancerre e nel ritorno verso casa faremo una breve sosta nella regione dello Jura per assaporare il vino bianco secco più longevo al mondo, ovvero lo Chateau Chalon.
Come sempre, l'organizzazione del viaggio viene svolta a fine gennaio e devo dire che anno dopo anno mi appassiono sempre di più perchè ogni volta è come se cercassi di creare una nuova opera d'arte che lentamente si materializza fino ad apparire in tutta la sua bellezza, nonostante le insidie e le difficoltà incombenti lungo il cammino.
Quest'anno, il tempo purtroppo non ci darà una mano. Le previsioni scaricate da internet sono pessime in quanto danno maltempo costante per tutto il soggiorno stabilito; pazienza, sappiamo che in Francia, in aprile inoltrato, trovare giornate calde ed assolate come quelle avute in Champagne o nelle campagne di Bordeaux è decisamente difficile e fortunoso.
Nonostante ciò, carichi e vogliosi di fare come non mai, ci ritroviamo alle 6,00 in punto di domenica 22 aprile a casa del Gran Priore Mario pronti a vivere l'ennesima avventura, speriamo foriera delle migliori soddisfazioni. Il viaggio scorre decisamente bene; dobbiamo percorrere circa 900 km. per raggiungere la città di Tours, situata nel cuore della regione della Loira, punto di partenza per un paio di giorni delle nostre avventure enologiche.
Il tempo regge sino all'imbocco del tunnel del Monte Bianco, spartiacque tra il territorio italiano e quello francese. Tra l'altro, viste lo condizioni atmosferiche, alcuni chilometri prima dell'imbocco del tunnel mi preoccupo per non avere a bordo della mia nuova hyundai ix35 catene da neve, ma per fortuna, sia il manto stradale in ottime condizioni, nonostante una spruzzata di neve del giorno prima, sia un cartello liberatorio che indica l'obbligo di pneumatici da neve o catene dal 15 ottobre al 15 aprile compreso, mi confortano e mi tranquillizzano per il proseguo del viaggio.
Entrati in territorio francese iniziano le prime gocce di pioggia che ci accompagneranno sino al nostro ritorno in Italia.
Guido per 650 km. circa, dopodichè Paolo mi concede il cambio sino a destinazione.
Verso le 16.00 siamo a Tours e precisamente all'hotel Citotel Criden sito in Boulevard Heurteloup, arteria principale che taglia in due questa ridente cittadina. Il tempo di parcheggiare l'auto, di sistemarci nella nostra camera tripla spaziosa e confortevole, per poi sgranchirci le gambe attraverso le vie cittadine, nonostante l'incombere di nuvole minacciose cariche di pioggia.
E' doveroso spendere alcune parole sul tempo e precisamente sul radicale mutare delle condizioni atmosferiche nell'arco di ogni 15 minuti. Nella fattispecie, soffia un vento gelido di matrice atlantica che sposta ad una velocità impressionante le nuvole portando dapprima pioggia a secchiate della durata di 10 minuti massimo, alternate a schiarite con sprazzi di sole, a tratti addirittura fastidioso. Di certo non fa caldo ed il povero Paolo, nonostante la sua proverbiale sciarpetta stile duca di Windsor, lamenta un'inevitabile sindrome cervicale, fastidiosa e logorante. Da lì in poi, inizierà la ricerca del cappello perduto, per certi versi fantozziana, visto che siamo in primavera e trovare un cappello di lana equivale a cercare un ago in un pagliaio. Paolo non demorderà sino alla fine, col risultato di aver sofferto stoicamente e di aver maledetto il fatto di non averlo messo in valigia, ma soprattutto di non averlo trovato nonostante le soste in vari Intermarchè.
Tours è una città di quasi 140.000 abitanti situata nel dipartimento dell'Indre e Loire; è una città antica che fa parte della storia della Francia, fondata dai romani all'incirca nel 50 a.C. Ho respirato una buona atmosfera, un senso di pace, poca congestione urbana e bei edifici a cominciare dalla Cattedrale di Saint-Gatien, in stile gotico a tre navate del XIII secolo, terminata nel XVII. Lo stile gotico convive a tratti con quello rinascimentale e all'interno fanno bella mostra di sè meravigliose vetrate originali del XII secolo. Vagabondando per le vie di Tours, con l'ombrello che si apriva e si chiudeva a ripetizione, ci avviciniamo alla Loira e ad una serie di ponti che, causa il forte vento, una volta percorsi, ci danno quella sensazione fastidiosa di dondolio da mal di mare. Nonostante il tempo, la città ha un suo fascino particolare.
Siamo comunque infreddoliti e rientriamo per una sana doccia calda prima di prepararci alla cena, che pregustiamo, visto che siamo in piedi con un panino trangugiato in un autogrill transalpino.
Nei nostri viaggi francesi, abbiamo potuto constatare che il cibo rappresenta sempre un'incognita in quanto il territorio a livello gastronomico non offre un'omogeneità di buoni standard qualitativi; mi ero informato e sapevo che avremmo trovato pesce in abbondanza, quali trote, carpe e lucci pescati nella Loira e pesce proveniente dall'atlantico in particolare crostacei, mentre relativamente alla carne, vitello e selvaggina di piume. La speranza era di poter fare un passo in avanti rispetto a quanto degustato mestamente in champagne. E' andata bene, sin dalla prima sera.
In un ristorante abbastanza informale, abbiamo mangiato un assiette de charcuterie (piatto di salumi nostrani) e per seguire un piatto di gambas (gamberoni) su un letto di tagliatelle al sugo di sambuca, il tutto accompagnato da del buon sauvignon, tanto per iniziare a farci la bocca.
Stanchi, assonnati e rinchiusi ermeticamente nei nostri giubbotti ritorniamo all'hotel per ritemprare le forze con una sana dormita in vista del giorno seguente, che aprirà le danze enologiche con una visita da antologia, ma non precorriamo i tempi.
La mattina seguente, ci svegliamo di buon ora con la speranza, non dico di un sole splendente, ma di una variabilità che ci consenta di trascorrere una giornata senza troppi grattacapi metereologici. Invece, cielo grigio, atmosfera novembrina e pioggia incessante anche se per fortuna non a scroscio.
Ci consoliamo con una ghiotta colazione, definiamo gli ultimi dettagli e poi, via verso la prima destinazione, ovvero il villaggio di Chacè in Rue de l'Eglise 15, distante una ottantina di chilometri da Tours, per far visita ai fratelli Foucault proprietari del misterioso ed enigmatico Clos Rougeard. Dentro di me ero sicuro che saremmo partiti col botto e questa convinzione l'avevo più volte condivisa con Paolo e così è stata.
Siamo nella zona del Saumur, zona di Chenin Blanc, ma nella fattispecie ancor meglio di Cabernet Franc. Avevo letto di questa cantina che mi ha incuriosito per l'opera dei due fratelli Foucault e per il fatto che di essi mi ero fatto l'idea di due piccoli orchi, un po' scorbutici, vogliosi di rimanere lontano dai riflettori, dalle mode enologiche del momento, dalle guide e dai tanti speculatori del vino. Insomma il nostro prototipo di viticoltori.
La cantina ha un telefono e un fax al quale difficilmente rispondono e non hanno un indirizzo mail. In sede di preparativi, il 23 gennaio ho tentato una richiesta di visita inviando un fax, al quale non ho mai avuto risposta. Solo due giorni prima della partenza, intestardito, ho ritentato con un ulteriore fax per certi versi strappalacrime e per miracolo Nady Foucault (il fratello si chiama Charly) mi ha gentilmente risposto confermandomi la visita alla 9.30 di lunedi' 23 aprile.
Un vero e proprio miracolo!!
Mentre parcheggio l'auto, vedo Nady, il quale ci fa cenno di attenderlo. Alcuni convenevoli e poi ci immergiamo in una delle visite più belle di questi 7 anni. La cantina ha 2000 anni di storia, è completamente scavata nel tufo ed è di epoca romana; annerita dalla muffa è colma di barriques contenente i 3 vini prodotti su un'estensione di 10 ettari e precisamente 9 per il cabernet franc ed uno per lo chenin blanc. Luce soffusa ed ambiente ideale per il lento riposo del vino adagiato nelle barriques marchiate a fuoco “Clos Rougeard”. Nei pressi dell'angolo degustazione, una miriade di monetine attaccate alle pareti con la muffa che ne ha fatto da collante. Il Foucault ci spiega che lui ed il fratello fanno parte dell'ottava generazione di vignaioli e che da sempre lavorano in vigna con metodi esclusivamente naturali in assenza di pesticidi, fertilizzanti chimici e qualsiasi altro governo artificioso che vada contro natura. Nessuna filtrazione, nè chiarificazione. Ora il bio e la biodinamica vanno di moda, ma in tempi non sospetti i due fratelli rappresentavano pura eresia per gli altri viticoltori. Passati per matti, ora sono assorti nell'olimpo dei viticoltori mitici in campo mondiale e punto di riferimento per i vignaioli della regione. Per noi è un assoluto privilegio poter discutere e visitarne la cantina millenaria.
A differenza di quanto accade nelle altre zone, qui, le degustazioni, esclusivamente effettuate direttamente dalla barrique avvengono inizialmente dai rossi per concludersi con i bianchi. E' doveroso sottolineare che il Cabernet Franc dei fratelli Foucault forse rappresenta la massima espressione di questo vitigno vinificato in purezza che, personalmente, mi ha molto più impressionato di tanti altri più rinomati che trovano dimora nella confinante terra bordolese.
Con maestria Nady si arma della pipitre e con gesta che si perdono nella notte dei tempi, cava il vino dalla barrique iniziando con il Cabernet Franc Le Poyeux nelle annate 2011 e 2008; questo vino è prodotto da vigneti che sorgono su terreno silicio-calcareo con esposizione sud-sud/est, in particolare il 2008 ha un naso marcatamente vegetale, a tratti vinoso, in bocca è potente, esuberante con un tannino fine, sapido e con un finale leggermente acidulo. Avverto peperone verde e frutta rossa surmaturata. E' un cavallo di razza, ha nerbo ed è ben fatto.
Di contro, l'altro rosso, sempre Cabernet Franc 100%, il Le Bourg, ha vigneti di 70/75 anni che crescono su terreno argillo-calcareo, stessa ottimale esposizione ed affinamento sempre in botti nuove. Lo degustiamo nelle annate 2011-2010 e 2008; il 2008, assolutamente il migliore, si apre su toni erbacei supportati da un frutto a bacche nere ben presente e da lievi note tostate. Splendido il tannino, finissimo e vellutato. La bocca è ampia e profonda con un equilibrio fantastico, grande struttura, vino complesso in grado di evolversi nel bicchiere, appagante e di assoluto piacere. Un vino che mi ha impressionato come non mai.
L'affinamento di questi vini avviene per un periodo minimo di 4 anni tra stazionamento in botti di rovere e bottiglia. Fermentazione alcolica e malolattica svolta tutta naturalmente. La differenza tra il Le Poyeux e il Le Bourg è esclusivamente data dal terroir, ossia il Le Poyeux è un vino dotato di meno acidità e quindi destinato a un minor invecchiamento, al contario il Le Bourg, cavallo di battaglia dell'azienda, è un vino sontuoso che potrà invecchiare a lungo nella giusta cantina.
Abbiamo capito, che qui il terroir è tutto; il fatto che i vigneti siano impiantati su terreni di provenienza giurassica, ovvero del periodo intermedio dell'era mesozoica, rappresentano il valore aggiunto a vini completati seguendo il naturale ciclo vegetativo ed i fratelli Foucault in questo, hanno trovato la giusta alchimia; terreni che nel giurassico erano ricoperti dal mare e che con il lento arretramento hanno lasciato sostanze ideali per la coltivazione di vini straordinari. Ho capito che i Foucault hanno nel loro cognome un segno del destino, così come il più famoso pendolo è come se fossero custodi del tempo necessario per l'evoluzione dei vini che producono. Nady, ci dice che nel 2000, ha aperto una bottiglia di Le Bourg annata 1900 ancora in perfette condizioni. Tutto ciò la dice lunga sul potenziale di questo vitigno, in questo particolare territorio e sulla cantina che ha una escursione termica tra estate ed inverno di soli 2 gradi (temperature minimo 10° max 12°). La bottiglia più vecchia attualmente nella cave è uno Chenin Blanc annata 1870.
L'abbiamo evocato e quindi passiamo allo chenin blanc, qui denominato Brèzè, degustato nell'annata 2009; bevuto dopo la potenza dei due rossi con le papille gustative alterate diventa di difficile interpretazione. Vino bianco, secco, caratterizzato da un colore paglierino tenue con riflessi verdognoli sull'unghia, molto sapido al palato e personalmente faccio fatica ad esaltarlo. Avverto un estremo gusto citrico, forse più di lime, con accenni floreali di vaga definizione. E' di ottima fattura, lo si intuisce, ma ripeto, bevuto dopo il cabernet diventa, per degli amatori come noi, un po' arduo trarne dei valori assoluti.
A questo punto, esaltati, sia dal contesto visivo ( non dobbiamo dimenticare di trovarci forse nella cantina più vecchia da noi visitata), sia dalle degustazioni, per alcuni istanti sublimi, chiediamo al Nady, enigmatico dietro un anacronistico paio di baffi stile primi novecento, di poter passare agli acquisti.
Con nostro sommo dispiacere, ci viene detto che non ha nulla da vendere in quanto non ha ancora alcuna bottiglia dell'annata da mettere in commercio etichettata e solo per compassione, nel vedersi di fronte tre pellegrini che hanno fatto 1.000 km. per questa visita, ci viene omaggiata una bottiglia di Le Bourg annata 2008 che ci viene identificata facendo luce sul tappo indicante la denominazione dell'azienda, del vino e l'annata stessa. La stapperemo la prossima volta che ci vedremo a casa Fogliazza, magari accompagnata da una buona costata di manzo, così come suggeritoci dal Foucault.
Al rimpianto di non aver potuto acquistare nulla, si è aggiunto, una volta tornato a casa quello di non aver chiesto al Foucault l'indirizzo di un'enoteca vicina dove poterlo acquistare per porlo nella mia cantinetta refrigerante a temperatura costante per poterlo assaporare, chissà, magari tra qualche decennio.
Ora mi vedrò costretto ad acquistarlo in Italia e non voglio pensare a quale prezzo!!
Ci congediamo soddisfatti nonostante i mancati acquisti ed in auto, sotto l'imperversare della pioggia, oltre a trangugiare alcuni grissini per asciugare le degustazioni, continuiamo ad esprimere le sensazioni gustative ed emotive della visita appena conclusa. Siamo nuovamente on the road e nel giro di una quindicina di minuti ci appresteremo ad effettuare la seconda visita della giornata.
Quando programmammo il viaggio, avevamo posto molta importanza all'incontro con Clos Rougeard, ma sapendo delle difficoltà e della probabilità che tutto ciò non avvenisse, avevamo inevitabilmente cercato una cantina "di scorta", che prontamente ci aveva risposto confermandoci l'appuntamento. Ci tengo a precisare che l'appellativo "di scorta" non sta a significare la presenza di una cantina di scarsa qualità anche perchè inserita tra le aziende selezionate dal Robert Joseph citato pocanzi.
In cuor nostro sapevamo che, quanto ci accingevamo a visitare, non avrebbe avuto i connotati, nè storici, nè squisitamente gustativi del leggendario Clos Rougeard e per taluni versi il nostro sentiment risultava un po' mesto e meno coinvolgente. Forse, sapere che la cantina che avremmo visitato in seguito non potesse tenerne il passo ci ha psicologicamente posto nella situazione di adottare un atteggiamento per certi versi passivo. In parte ci siamo sentiti giustificati; calcisticamente parlando è come aver assistito alla finale di Champions League e subito dopo aver obliterato il biglietto per una partita di serie A non troppo di cartello. Tra l'altro, l'incontro con il Domaine Filliatreau, è avvenuto in un momento di pessima attività metereologica che ha accresciuto ulteriormente un errato approccio influendo negativamente sul gusto della visita.
Col senno del poi, i vini degustati (se non avessimo avuto l'ingombrante paragone dei f.lli Foucault) erano di buona fattura.
La zona è di ugual vocazione vinicola ed i vini proposti sono il cabernet franc e lo chenin blanc nelle versioni Saumur Champigny Rouge e Blanc con i relativi cru aziendali. I terreni sono esclusivamente argillo-calcarei con unica eccezione per il Saumur Blanc -Imago posto in terreno con aggiunta di silicio. Il domaine si vede direttamente dalla strada principale, sia perchè leggermente arroccato, sia perchè è identificato con una scritta a caratteri cubitali.
Mentre Paolo sente il bisogno di fumarsi una Marlboro (prima o poi ci dovrà spiegare come fa a capire il gusto dei vini con ancora in bocca i sentori di nicotina ), io e lo zio entriamo dove ad accoglierci c'è un esponente della famiglia Filliatreau che, senza preamboli ci pone due bicchieri da degustazione, pronto a servirci tutto ciò che vogliamo. Faccio notare che ci manca il terzo compare e lui, un po' stizzito, mi dice in francese:" je vue deux personnes et je mis deux verres!!" - ho visto due persone e ho messo due bicchieri! Facciamo finta di non aver capito, lasciamo alle spalle la sua permalosità e incominciamo ad assecondarlo nelle spiegazioni fiume dei vini del domaine.
Anche qui, viticultura esclusivamente biodinamica; nessuna fermentazione che non sia naturale, nessuna crio-macerazione od altre tecniche artificiose, fertilizzanti organici, assenza di pesticidi, se non utilizzo solo in caso di necessità di zolfo in vigna e se necessario in cantina.
Vini degustati in successione:
Saumur Champigny Rouge nelle versioni Tradition - Vieilles Vignes - La Grande Vignolle, Saumur Chateau Fouquet e Saumur Blanc nelle versioni L'Imago e Moeulleux.
Il Tradition 2007 è il base dei rossi dell'azienda, cabernet franc 100%, rosso rubino intenso, fresco e dal gusto squisitamente fruttato e vagamente vegetale, pronto da beva, non oltrepassa il decennio; il Vieilles Vignes, sempre 2007, lo dice il nome stesso è prodotto con le vigne più vecchie del domaine dal bel colore, fruttato con accenni erbacei ed in bocca dimostra una buona persistenza aromatica , ma me lo sarei aspettato, più potente e più ampio. Quello che ci aggrada maggiormente è il "La Grande Vignolle" annata 2006 che si dimostra un vino a tratti possente, con un tannino non finissimo ma neanche invadente, chiuso da un buon finale e che lascia intravedere la possibilità di potersi evolvere per ancora alcuni anni in cantina. E' in questo vino, che personalmente, ho riscontrato le caratteristiche peculiari del cabernet franc dell'azienda.
Viceversa, il Chateau Fouquet annata 2006, cabernet franc 100% cuvèe di differenti territori vinificati separatamente e poi assemblati, mi ha incuriosito in quanto vino abbastanza ruffiano di pronta beva ma che può anche invecchiare in cantina, a detta del nostro interlocutore, per numerosi anni, sprigionando alla sua apertura nuovi profumi terziari e nuovi e differenti aromi. Lo prendo in parola e lo aggiungo al carrello.
Per quanto concerne i bianchi, ci viene stappata una bottiglia di chenin blanc versione L'Imago annata 2000 e immediatamente ti accorgi delle potenzialità di invecchiamento del vitigno. Vino molto fruttato con nuances di miele d'acacia , morbido, con tenui note di grassezza in bocca, ben strutturato e con una persistenza aromatica indiscutibile. L'etichetta, una volta tornati a casa, mi ha incuriosito e rivedendomi il sito internet ufficiale, incarna una doppia passione ovvero il vino e la pesca alla mosca. L'Imago è il nome dell'insetto acquatico che danza a pelo d'acqua preparando il volo nuziale proprio nel momento stesso in cui diviene preda delle trote. E' come se l'Imago fosse il vino morte naturale dei piatti cucinati a base di pesce.
In ultimo, richiedo personalmente l'assaggio di un chenin blanc versione moeulleux (dolce) che acquisto per due ragioni:
1) sono abbastanza fanatico dei vini dolci e per certi versi è un controsenso per chi nella vita non mangia dolci come me;
2) avverto in bocca un gusto di miele selvatico molto appagante ed un retrogusto di lime sul finale molto intrigante.
A mente fredda, nonostante le difficoltà contestuali e la poca simpatia di chi ci ha guidato nelle degustazioni devo affermare che comunque ci siamo trovati di fronte a dei vini, non mitici. ma che di certo non sfigureranno sulle nostre tavole. Una visita che non rimarrà un caposaldo nella nostra memoria ma che comunque ci ha dato un diverso termine di paragone su chi fa vino nel territorio, se messo a confronto con il top offerto dai fratelli Foucault.
La giornata non finisce qui. Ci sposteremo dalla zona classificata come Anjou-Saumur per fare ritorno verso Tours ma con destinazione Vouvray per visitare l'omonima zona di appellation ed in particolare una delle cantine più rinomate nella coltivazione, produzione e vendita di chenin blanc, ovvero il Domaine Huet sito in Rue de la Croix Busèe al nr. 11.
Lungo il cammino, quasi esclusivamente autostradale, ci fermiamo doverosamente ad un autogrill per fare rifornimento sia di gasolio sia di cibarie che possano alimentare la nostra autonomia e fare il pieno di energie psico-fisiche per terminare al meglio la giornata.
Vouvray è situato ad est di Tours sulla riva destra della Loira, l'Aoc Vouvray è stata creata nel 1936 e si estende su una superficie di 2000 ettari; l'unico vitigno autorizzato ad essere coltivato è lo chenin blanc, un vitigno autoctono qui chiamato anche pineau de la Loire.
Da almeno un decennio, il Domaine Huet si è convertito all'agricoltura biodinamica e i risultati ottenuti sono molto positivi. Arriviamo al Domaine sfortunatamente in un momento particolare; sono praticamente intenti ad imbottigliare e tutto ciò non ci permetterà, se non per pochi minuti, di poter visitare la cantina.
Ci consentono comunque di fare degustazioni facendoci accomodare in una bella sala ariosa, con ampie vetrate a vista ed un design che fonde il moderno con la tradizione architettonica del resto del domaine. In un angolo alcuni contenitori oblunghi di plexiglass contenenti le varietà dei terroirs dove sono impiantati i vigneti del domaine. Caratteristici e di sicuro effetto.
Si presentano due giovani che, una volta chiestaci la nazionalità, molto educatamente ci invitano ad iniziare le degustazioni partendo da un vouvray petillant solo per preparare la bocca; un vino esclusivamente da aperitivo, molto minerale con un finale citrino.
Passiamo direttamente al Vouvray sec -Le Haut Lieu annata 2008 proveniente da terreno argillo-calcareo molto profondo, con argilla scura in superficie. Al naso sentori di frutta tropicale, su tutte il mango e molto sapido; in bocca sempre frutta esotica con un finale che accenna a toni di zafferano. Secondo il nostro palato italico è sicuramente un ottimo vino che incontra il nostro gusto molto più orientato sul fruttato che all'asettico secco. Ci è talmente piaciuto che ne acquistiamo due cartoni da 6.
Continuiamo con il demi-sec nelle versioni Haut Lieu 2007 e Le Mont 2008, fruttati, con sentori d'ananas e frutta esotica, forse troppi minerali e con un retrogusto tendente al caramello dolce che, in parte ci infastidisce. Di pregevole fattura, ma che sinceramente abbiamo trovato leggermente stucchevoli, con sensazioni ritrovate in altri vini di matrice alsaziana che non ci avevano convinti pienamente.
Non in sintonia con l'assaggio dei moelleux, sono l'unico a richiedere di degustare il Vouvray moelleux 1èRE Trie annata 2008, prodotto su terreno calcareo con aggiunta di pietrisco siliceo, che si presenta con un bel colore dorato, al naso sentori di miele selvatico e di note leggermente tostate, in bocca frutta bianca surmaturata e un finale molto, molto lungo. Un vino da lungo invecchiamento, che si accosta alla grande al fois gras e ai formaggi erborinati. Prezzo non invitante, 40 euro la bottiglia, ma lo zio si fa promotore di uno slancio di generosità acquistandolo, dicendoci che verrà servito dopo il Clos Rougeard, nella cena di degustazione abituale che faremo di ritorno in Italia, accompagnato con una bella forma di gorgonzola, stagionato a dovere.
La visita al Domaine Huet, pur dimezzata dall'impossibilità di visitarne le cantine, ci ha rivelato un vitigno talentuoso, dalle enormi potenzialità e da una capacità di invecchiamento inaspettata, sempre secondo quanto asseritoci da chi ce lo serviva; di sicuro un grande vino bianco, molto diverso per caratteristiche ampelografiche e gustative rispetto ai bianchi italiani con una mineralità ed una sapidità molto più accentuata.
Sono convinto che nella zona del Vouvray abbiamo degustato vini prodotti da una delle migliori aziende che fa della biodinamica il proprio credo e direi con successo visto l'alta qualità e la bevibilità assoluta.
La degustazione, seppur breve, è stata accompagnata da un timido sole che ha fatto capolino non appena ha smesso di piovere. Il cielo non è confortante, ma finchè dura ne approfittiamo per visitare i dintorni andando a perlustrare a una decina di chilometri da Vouvray la città di Amboise, sede del famoso castello, borgo medioevale.passato alla storia anche per la vita vissuta per un certo periodo storico dal grande Leonardo da Vinci.
Nonostante il tempo, affollata dai turisti ed immersa in un magnifico scenario naturale con il corso della Loira da una parte e sullo sfondo il castello, dall'altra.
Paolo ne approfitta finchè c'è luce del sole per immortalare un congruo numero di fotografie, ma il vento, sempre presente, sta riportando nubi minacciose e da li a poco dovremo riaprire l'ombrello in un rituale che oramai sembra diventare una sgradevole abitudine. 40 minuti circa di visita e poi di ritorno a Tours per una doccia e un riposo doveroso con la speranza di ripetere la cena del giorno precedente.
Ceniamo in un ristorantino classicamente moderno, arredato con quadri di varia natura astratta e con una clientela molto variegata. Si va dal tavolo occupato da tre donne attempate che hanno ordinato esclusivamente verdure, presumo per la linea, a quello dove una donna single e un po' in carne, si sporca barbaramente la maglietta bianca obbligandosi a chiudere il maglioncino bleu aperto sul davanti, per finire alla coppietta di fronte al povero Mario, che limonava incurante dei possibili sguardi altrui.
Mangiato discretamente bene, con il solito entrèe seguito da una entrecote da 350 grammi, un po' bruciacchiata per i miei gusti e una montagna di patatine fritte. Alla faccia del colesterolo.
Siamo stanchi, ma mentalmente preparati ad offrontare la giornata seguente che ci vedrà pronti ad effettuare il trasferimento nella zona di produzione di altri due bianchi secchi molto famosi, ovvero il Pouilly fumè ed il Sancerre.
Nei nostri viaggi cerchiamo sempre di abbinare alle degustazioni anche un po' di cultura e quindi sul percorso del trasferimento verso le zone vocate al sauvignon faremo sosta per una doverosa visita al castello di Chenonceau. Tanto per cambiare la mattina del 24 aprile piove e la giornata atmosfericamente parlando non lascia presagire niente di buono. Il castello è situato a una quarantina di chilometri da Tours, immerso paesaggisticamente tra querce secolari e prati lussureggianti.
Il castello di Chenonceau, uno dei più famosi e più belli di tutta la Loira, fu costruito nel XVI secolo dal tesoriere dei re Carlo VIII, Luigi XII e Francesco I, ovvero Thomas Bohier, che lo diede in dono alla moglie Catherine Briconnet, demolendo la fortezza precedente e mantenendone intatto solo quella che viene chiamata Torre dei Marques (precedenti proprietari). Alla morte del Bohier, il figlio dovette cedere il castello alla corona per saldare i debiti del padre. Il successore, il re Enrico II, lo regalò alla sua amante Diana di Poitiers, la quale completò l'opera di ristrutturazione ed ampliamento del castello nell'epoca in cui divenne una delle donne più influenti di tutta la Francia.
Dopo la morte di Enrico II, la vedova Caterina dè Medici, scacciò l'amante del marito, prese in possesso il castello che attraversò il suo massimo splendore. Alla sua morte passò di mano in mano a diversi proprietari sino al XVIII secolo in cui venne acquistato dal duca di Borbone ed in seguito nei primi del novecento dalla famiglia di industriali del cioccolato Menier. Nella prima guerra mondiale il castello venne trasformato in ospedale, mentre nella seconda venne usato come via di fuga dalla zona di Vichy occupata dai nazisti.
Per quel poco che conosciamo a livello architettonico, il castello, che possiede una linea molto particolare, nasce sui fasti dello stile rinascimentale; entrando dal portone principale in legno e finemente scolpito lo visitiamo utilizzando un percorso guidato che ci offre la possibilità di vedere al piano terreno oltre all'attigua sala delle guardie, la sontuosa camera di Diana di Poitiers tappezzata da meravigliosi arazzi fiamminghi, seguita da una galleria rischiarata da 18 finestre, con un pavimento di tufo di ardesia ed utilizzata come sala da ballo; le cucine, enormi, contenenti camini impressionanti ed un girarrosto automatico composto da un marchingegno meccanico degno del gran Leonardo. Stupende le camere di Fancesco I ed il salone Luigi XIV, chiamato così in ricordo della visita del re il 14 luglio 1650 impreziosita da un enorme quadro riportante il suo ritratto e inserito in una cornice finemente intarsiata. Al piano superiore la camera delle cinque regine con altri arazzi fiamminghi e quadri del Rubens, la camera di Caterina dè Medici, di Gabrielle d'Estrèes e di Luisa di Lorena, vedova del re Enrico III assassinato per mano del monaco Jacques Clèment. Una camera lugubre per una vedova penitente rinchiusa in assidua preghiera; lo confermano un Cristo gotico ed un inginocchiatoio in stile.
Esterni et attigui al Castello, che sorge sul fiume Cher, i magnifici giardini versailleggianti, finemente curati, ma che al momento della nostra visita plumbea non riusciamo ad esaltarne i colori, offuscati dal tempo pietosamente inclemente.
Il colpo d'occhio è comunque magnifico e la mente è come se andasse a ritroso nel tempo immaginando una lunga colonna di carrozze colme di nobili che ad andatura leggera percorrevano il lungo viale alberato che conduce all'ingresso del castello, per partecipare a chissà quale inutile festa, a sfarzi, sprechi ed ostentazioni artefici tra l'altro di quella rivoluzione che cambiò radicalmente la Francia. Anche noi, oggi, pellegrini nelle terre di Bacco percorriamo a piedi lo stesso infinito viale inzuppati d'acqua ed infreddoliti. La visita al costo di euro 13,00 è durata c.ca 90 minuti, seguita da un doveroso thè caldo e da una cioccolata per Paolo, per poi risalire di corsa in auto per riscaldare il corpo dall'umidità penetrata nelle ossa.
Ci attendono c.ca 190 chilometri per raggiungere la destinazione di Pouilly sur Loire, ridente cittadina, artefice del tanto acclamato vino che ha per nome Pouilly fumè. Verso le 12.30 arriviamo a destinazione e precisamente all'hotel Logis le Relais de Pouilly, che in un primo momento confondiamo con un altro Relais, un po' inquietante, stile psyco e distante circa un chilometro da quello prenotato. E' senza dubbio il miglior hotel di Pouily sur Loire ed il rapporto qualità prezzo è davvero ottimo. Unica nota negativa la madame alla reception, piccola, bruttina e confusionaria, che dopo un'infinita discussione con la manovalanza dell'hotel riesce a consegnarci la nostra camera tripla posta a piano terra e dotata di piccola veranda con vista su un immenso prato verde in quel momento ben innaffiato da una pioggia incessante.
Prendiamo la saggia decisione di pranzare al ristorante dell'hotel, carinamente tipico, dove degustiamo delle salades e devo dire che quella mangiata da me, con trota affumicata e uova di salmone era davvero ottima. Un discreto caffè seguito dall'ennesima Marlboro per Paolo, come digestivo, chiudono il bel siparietto gastronomico ed immediatamente ci concentriamo per l'appuntamento del primo pomeriggio con lo Chateau de Tracy per una nuova degustazione, speriamo interessante.
L'azienda vinicola Chateau de Tracy dista 11 km. da Pouilly e precisamente a Tracy sur Loire, piccolo villaggio immerso nei vigneti.
Produttori dal XV° secolo (esiste un documento datato 1396 che testimonia che il territorio fosse già coltivato a vigneti), ll castello, di bell'aspetto e d'impatto coreografico non indifferente è di proprietà privata, non visitabile.
Per fortuna ha smesso di piovere e tra le nuvole irrompe un bel sole che certamente potrà accontentare Paolo nei suoi reportage fotografici. Ci accoglie molto amabilmente la sig.na Aurore Joulin con la quale avevo intrattenuto corrispondenza mail. Molto professionalmente ci spiega che i vigneti sorgono su terroir argillo-siliceo che donano al vino la caratteristica di essere possente e ben strutturato; il calcare è il Kimmèridgen (tipico dell'epoca jurassica) che caratterizza il vino per la sua eleganza, mineralità e complessità aromatica. La proprietà, conta attualmente 31 ettari vitati con applicazione anche qui di agricoltura biodinamica in perfetta armonia con la natura.
Siamo all'interno di una sala di degustazione che denota particolari architettonici tipici di una casa colonica ben ristrutturata a nuovo; iniziamo le degustazioni cominciando dal Chateau de Tracy annata 2010 che si presenta di un bel colore giallo paglierino con leggeri riflessi verdastri, al naso si esprime su toni aromatici ed è dominato da sentori tipicamente agrumati e di frutta esotica, un misto di limone, arancio e mango; in bocca un inconfondibile sapore di pompelmo rosa e pesca-noce. Finemente aromatico, rotondo, minerale e leggermente sapido, si chiude in un buona persistenza in bocca.
Passiamo all'assaggio seguente, ovvero al Mademoiselle de T annata 2010, di ugual colore e aromaticamente intenso. Fruttato ma anche con sentori floreali, ne avverto la struttura ma non mi convince il finale un po' corto, forse dipeso dall'annata assai giovane.
Finiamo con il 101 Rangs annata 2008, di sicuro la punta di diamante dell'intera azienda. Alla vista è dotato di un giallo oro antico, brillante e limpidissimo. Al naso è un'esplosione di profumi che vanno dal burro, a finissime note legnose e all'inevitabile pompelmo; in bocca si sente un gran bel equilibrio, si avvertono note grasse, burrose ma non invadenti, frutta bianca quasi surmaturata ed il finale e veramente lungo con una forte persistenza aromatica. Un vino con una notevole struttura. sinonimo di un buon invecchiamento e di un'evoluzione dei profumi terziari di sicuro avvenire. Il prezzo è significativo, ben 60 euro la bottiglia, ma un errore l'avevamo già commesso in Borgogna con un ben più noto Aloxe Corton Charlemagne e quindi lo acquistiamo senza battere ciglio.
Ci congediamo, dopo aver tentato invano di farci omaggiare dalla mademoiselle, del coperchio in legno raffigurante lo chateau posto a copertura delle casse di vino, da poter appendere nelle nostre cantine, ma dobbiamo rimarcare che nella Loira sembrano avere tutti il braccino corto; nessuno sconto, nè un cadeau per gli italiani che si sono sparati oltre 1.000 km. per una degustazione con conseguente acquisto. Chiediamo se possiamo fotografare lo chateau da vicino, ma ci viene negato anche questo per via della proprietà privata. Ci pieghiamo, ma non ci spezziamo e furtivamente con l'auto giriamo attorno al castello e penetrando con passo felpato tra i vigneti, facendo molto attenzione, scattiamo delle amene fotografie per suggellarne il ricordo. Fantastico! E' andata anche questa.
Il resto della giornata ci vedrà girovagare turisticamente attraverso le sconfinate campagne e con il corso della Loira a farci compagnia; ne approfittiamo per far visita alla cittadina di La Charitè, caratteristico borgo medioevale nel passato punto obbligato di ristoro sulla via per Santiago di Compostela, al nostro arrivo soleggiata e abbastanza animata sotto il profilo della viabilità. Per raggiungerla attraversiamo un ponte che ha la caratteristica di essere stato costruito a metà esatta della lunghezza complessiva della Loira. Urge una fotografia che ne possa immortalare il nostro storico passaggio.
Di ritorno a Pouilly sur Loire i miei soci non fanno altro che chiedermi dove andremo a cenare. Non li ho mai visti così affamati come quest'anno!! Organizzando il viaggio avevo scovato su internet, nel villaggio di Chavignol, piccolo borgo nelle vicinanze di Sancerre, famoso per la produzione del miglior formaggio di capra di tutta la Francia, un ristorantino che faceva al caso nostro: La Bonne Auberge. Ottime le recensioni, accoglienza ed ambiente ruspante con cucina semplice ma tradizionale e una carta dei vini competitiva. Nel tragitto verso Chavignol, percorrendo per alcuni chilometri un tratto autostradale, scorgiamo da lontano la magnificenza dello Chateau du Nozet sede del domaine de Ladoucette che Paolo vorrebbe fotografare di sera nel dopo cena, ma purtroppo il tempo non ce lo permetterà. La malasorte ci fa trovare chiuso il ristorante prescelto. A quel punto, sono passate le 20 ed i nostri stomaci si ribellano ogni minuto che passa e quindi decidiamo di dirigerci a Sancerre, dove, all'entrata del paese ci fermiamo in un ristorante che fa anche da pensione, per rifocillarci a dovere. Ceniamo discretamente bene con un entrèe di salade con salumi nostrani, seguiti da medaglioni di vitello con patate, il tutto nonostante la carne, innaffiato da un discreto sauvignon selection du mois. Nonostante la temperatura ambiente sia abbastanza fresca e il ristorante vuoto per tre quarti, passiamo comunque una bella serata distensiva. Di ritorno all'hotel, ci propiniamo l'immancabile partita di calcio, godendo per l'eliminazione del Barcellona in Champions League per mano del meno quotato Chelsea; un toscano fumato in veranda accompagnato da un sorso di armagnac per concludere degnamente la serata e poi a nanna, visto che il giorno seguente dovremo affrontare la giornata più intensa del nostro viaggio che, allo stesso tempo si dimostrerà anche la più emozionante.
Il mattino seguente ci sveglia il crepitio delle gocce di pioggia che picchiano lentamente sui vetri delle finestre che danno sulla veranda. Tanto per cambiare piove, ma oggi è una giornata talmente importante che il fattore metereologico, per certi versi, passa in secondo piano.
Verso le 11.00 abbiamo fissato appuntamento con lo Chateau Nozet, sede del domaine de Ladoucette, per antonomasia il produttore vinicolo più importante di Pouilly Fumè versione classica e del più rinomato cru Baron de L , acclamato da tutte le guide enologiche internazionali. Madame Carole, nella corrispondenza mail intrattenuta ci aveva gentilmente garantito la degustazione ma non la visita delle cantine riservate unicamente a professionisti del settore. Nel nostro piccolo, dopo aver girato in lungo e in largo la Francia enologica ci sentiamo in qualche modo professionisti ad honorem ma purtroppo non sembra essere sufficiente per esaudire le nostre richieste.
Piove ininterrottamente ed in hotel non riusciamo più a starci; sarà l'impazienza, sarà quel che sarà ma ben presto paghiamo il soggiorno, carichiamo i nostri scarni bagagli e ci mettiamo in viaggio impazienti come non mai.
A una decina di chilometri da Pouilly sur Loire, a poche centinaia di metri dall'uscita autostradale, si apre ai nostri occhi lo Chateau Nozet, castello rinascimentale dall'effetto impagabile, maestoso ed architettonicamente ben costruito, di proprietà in origine della famiglia Comtes Lafond che dal XVIII° secolo possiede i più importanti e rinomati vigneti completamente vocati al Pouilly Fumè. Il discendente Barone Patrick de Ladoucette ha continuato la tradizione puntando sulla qualità e sulla produzione di un grande vino bianco conosciuto in tutto il mondo, riferimento primario del vitigno sauvignon. Siamo in anticipo e da bravo paggetto aiuto Paolo riparandolo con un ombrello per poter immortalare fotograficamente il castello e l'immensità degli ettari vitati che lo circondano a tutto tondo. E' spettacolare il colpo d'occhio nonostante il tempo inclemente ed è assolutamente difficile poter spiegare a parole lo scenario che si apre ai nostri occhi. Mario, più furbo di noi preferisce restare in auto godendosi il panorama all'asciutto.
Da buoni italiani ci facciamo qualche fotografia vicino ai paracarri serigrafati Ladoucette e sotto l'insegna "L" prima dell'entrata allo chateau e poi di corsa ci dirigiamo verso il punto accoglienza. Ad attenderci madame Carole, una biondina di bell'aspetto, non molto alta, ma ben proporzionata, con un bel fondo schiena e molto dolce nei modi di fare; c'è poco da dire, il fascino delle donne francesi è sempre molto accattivante.
Dopo tanta sfortuna metereologica, ci attende una notizia meravigliosa. Con estrema gentilezza, Carole ci riferì che stava ancora attendendo la visita di un gruppo di professionisti italiani che sarebbero dovuti arrivare alle 10.00 ma che purtroppo, per alcuni imprevisti erano in ritardo e sarebbero arrivati a breve. Eccezionalmente e visto che nei primi convenevoli aveva intuito che fossimo realmente degli appassionati e fini conoscitori della materia, ci offri l'opportunità di effettuare la degustazione insieme a loro concedendoci anche la visita delle cantine. Felicissimi per il privilegio concessoci attendemmo con impazienza l'arrivo della comitiva.
Si trattava di una decina di persone nelle quali facevano spicco il presidente dell'A.I.S. delle regione Umbria, un consigliere nazionale dell'A.I.S., il presidente del Perugia calcio, il vice presidente del Gubbio calcio, il rappresentante italiano della casa importatrice Sagna ed alcuni ristoratori umbri di diverse città, da Assisi, a Spello, Todi etc., accompagnati da un traduttore. Erano reduci (beati loro!!!) il giorno precedente da una visita al leggendario Romanèe Conti prenotata 4 anni prima per una verticale di 11 annate diverse.
C'è voluto poco ad entrare in sintonia con loro e ben presto abbiamo iniziato la visita accompagnati dal viso angelico di Carole. Innanzitutto, togliamoci dalla mente che il termine "fumè" nel Poully non sia dato da eventuali note affumicate/tostate del vino ma esclusivamente per il fatto che quando si vendemmia l'acino è rivestito da una leggera patina fumosa; detto questo visitiamo le cantine, estremamente pulite dove troviamo solamente contenitori in inox e l'assenza di legno. Il pouilly è un vino secco che deve essere esaltato dalla sua naturalità e non dalla presenza di effetti gustativi prodotti dal contatto con il legno delle barriques.
Una volta vendemmiato a mano, i trattori portano le uve allo chateau e vengono scaricate in apposite botole dove per gravità vanno a depositarsi nei locali di diraspamento. Qui viene effettuato il completo diraspamento con a seguire la pressatura soffice degli acini; di norma avvengono 3 pressature per ogni terroir di proprietà dello chateau ed ognuna viene messa da parte. Precisamente sono 4 i terroir così formati da: silicio, marna,calcare-argilloso e graves.
Parte quindi la fermentazione separata per ogni terroir a temperatura controllata e con inibizione a freddo della malolattica che non viene mai svolta per mantenere un'adeguata acidità. A seguire verrà effettuato l'assemblaggio con una percentuale di circa il 25% di ogni terroir, in seguito filtrazione, chiarificazione con bianco d'uovo e poi il vino viene posto in particolari celle per l'affinamento. Visto che l'azienda tiene in deposito mediamente 4/5 annate e per ogni annata vengono prodotte circa 25 cuvèe, hanno a disposizione 100/125 celle in vetro-resina per l'affinamento di ciascuna di esse.
Niente è lasciato al caso, è sicuramente un vino creato ad arte, per certi versi costruito nei minimi particolari quasi in modo maniacale e di certo non in modo artigianale. Traspare un evidente venir meno di quell'eroismo enologico dei fratelli Foucault ad un rapporto più asettico con il vino e meno sentimentale anche se nelle degustazioni poi si avverte molto meno. Andiamo quindi a fare una mini verticale di 3 annate di Pouilly Fumè partendo dal 2009, a scendere al 2005 particolare per il 200° anniversario della fondazione del Domaine, per terminare con l'annata 2003.
L'annata 2009, dal colore dorato verde pallido si caratterizza per essere molto ruffiano, fresco, minerale, sapido e di facile beva, ideale per la sua giovinezza ad essere abbinato quale aperitivo con un irrinunciabile desiderio sorso dopo sorso di continuare a bere.
Il 2005 si presenta nel bicchiere con un bel colore non troppo discordante dall'annata precedente, ma a differenza di quest'ultimo al naso si apre con una notevole intensità di profumi eleganti che ingentiliscono le narici. Sentori di fiori di campo, di glicine ed erbe aromatiche di macchia mediterranea, in bocca minerale con un attacco molto pulito, ampio, rotondo e con frutta verde e agrumata al palato. Un vino veramente notevole che ci ha conquistati anche per il finale convincente e dotato di una complessità e di una persistenza aromatica non indifferente. Peccato che questa annata non sia in vendita.
Terminiamo con il 2003, dal colore più dorato, inficiato dall'annata caratterizzata da un clima estremamente caldo che ne ha inevitabilmente marchiato il vino. I profumi sono ancora più intensi, esplodono quasi soffocandoti e in bocca si avverte una concentrazione potente di frutta surmaturata che quasi ti scalda, talmente avvolgente che svanisce nell'arco di brevi istanti, a tratti grasso, opulento e come se ci fosse il sole dentro. Poco fine.
Peccato che la degustazione finisca qui e non ci venga data la possibilità di poter degustare la punta di diamante dell'azienda ovvero il "Baron de L" che ci viene descritto come un vino superbamente espresso da magnifici profumi di fiori di sambuco, limone, pere e note di miele, fresco, ricco, corposo e con sapori intensi di limone, ananas e pere, dal finale estremamente lungo. Non lo abbiamo assaggiato ma ci fidiamo della notorietà e lo acquistiamo nell'annata 2008. Per quanto concerne il vino base, in assenza del 2005 ripieghiamo al 2009 con l'augurio che alcuni anni nelle nostre cantine possano affinarlo ulteriormente. Nell'attesa che la madame ci prepari quanto ordinato, mai sazi, richiediamo la degustazione di un cognac di produzione del domaine, in una non precisata località nell'omonima regione, in bella vista ed aperto, estremamente fine al palato e con aromi intensissimi come non mai, dal costo "irrisorio" (si fa per dire) di 400 euro la bottiglia. Fantastico.
Questa visita, coreograficamente scenica ma allo stesso tempo interessante sotto il profilo squisitamente tecnico ha confermato in noi (se ancora ce ne fosse bisogno) la consapevolezza di aver fatto in questi anni notevoli passi avanti che ci hanno portato a tenere testa a coloro che si definiscono "professionisti" del settore. Tra l'altro il fatto di poter colloquiare in lingua madre senza l'ausilio di un traduttore ha rappresentato un segno distintivo e ho notato, con piacere, che non sia passato inosservato all'occhio della comitiva che ci ha fatto compagnia in questa suggestiva visita.
Soddisfatti, ci congediamo dai compagni italiani e dalla bella Carole con il pensiero rivolto alla prossima degustazione del pomeriggio e con una parte dello stomaco che inizia a chiedere l'assunzione di sostanze nutritive adeguate, che non siano solo a base di alcool. Ne approfittiamo per ritornare a Chavignol, dove pranzeremo ed accompagneremo lo zio nell'acquisto del miglior formaggio di capra di tutta la Francia. Verso le 13,15 il villaggio di Chavignol è deserto, il ristorante "La Bonne Auberge" è ancora chiuso e l'unico aperto è al completo. Non ci resta che trangugiare un pacchetto di grissini aspettando l'orario di apertura del negozio Dubois-Bouloy per l'acquisto del formaggio. Il formaggio di capra viene commercializzato in piccole forme clindriche leggermente bombate ed in tre formati a seconda della stagionatura: si parte dal dèmi-sec, giovane e dal gusto delicato, per passare al leggermente bleu con un inizio di muffa nobile che lo ricopre e che gli dona un leggero retrogusto di funghi champignon, per terminare al bleu, dal colore grigio-blu con sentori di bosco dominanti. Lo zio ne fa man bassa per accontentare la consorte Paola, notoria divoratrice.
Prima di congedarci con destinazione Sancerre, lasciamo il villaggio di Chavignol con questa enigmatica domanda alla quale, forse, non avremo mai risposta : "Ma se non abbiamo visto neanche una capra brucare un filo d'erba, con cosa fanno questi formaggi?"
Tanto per cambiare piove ancora, ma la distanza che separa Chavignol a Sancerre è realmente esigua, il tempo di percorrere alcuni chilometri a valle per poi risalire dolcemente sino ai piedi del paese sede della prossima visita con degustazione. Non amo arrivare in ritardo e personalmente, se posso, preferisco la puntualità o addirittura presentarmi con un giusto anticipo. Purtroppo, il depistaggio di alcuni nativi sull'ubicazione della cave di Alphonse Mellot rischiava di farci arrivare in ritardo all'appuntamento che si percepiva interessante come non mai per la contemporanea presenza di un giornalista italiano della rivista Spirito Divino (Marco Tonelli) accompagnato da un fotografo free-lance professionista (Stefano Triulzi). Nella mail di richiesta visita, la figlia di Alphonse Mellot, Emmanuelle, ci aveva fatto questa piacevole sorpresa che avremmo cercato di sfruttare al meglio sia sotto l'aspetto tecnico sia sotto quello puramente degustativo.
Dopo i primi inevitabili convenevoli relativi anche al fatto di poter colloquiare con altri italiani dopo alcuni giorni di full imersion transalpino, senza perdere ulteriore tempo ci addentravamo a scoprire la cantina, ma soprattutto la filosofia di questa azienda attraverso le spiegazioni di Emmanuelle e le domande in serie per lo più rivolte dal giornalista, intervallate comunque da qualche nostra infiltrazione, sempre garbata. La cantina, estremamente pulita nella parte più antica riveste un sicuro fascino visivo, costellata da innumerevoli botti di rovere contenenti sancerre blanc e rouge di diverse annate e di diversi cru aziendali; il passo nei locali di imbottigliamento e di fermentazione è breve ed è in questi luoghi che per incanto si materializza il padrone di casa, monsieur Alphonse Mellot, autentico francese, con piglio sicuro, forte e con fierezza da vendere. Curato e ben vestito con una giacca di fustagno che lo rende per certi versi più giovane dei suoi 62 anni. Il Triulzi inizia ad inanellare una serie impressionante di fotografie che poi potremmo ritrovare sulla rivista.
Sprizza vitalità da ogni poro nell'esprimere che il suo lavoro gli permette di elevare l'animo e lo spirito, si sente un artigiano del vino e in alcuni frangenti con feroce campanilismo asserisce che il vero vino si fa a Sancerre e non a Pouilly. Ci dice che alla base di tutto c'è il terroir, la materia prima che qui è eccezionale, grazie a terreni di epoca jurassica ideali per la coltivazione della vite effettuata unicamente attraverso la biodinamica, alla costante ricerca di un equilibrio perfetto tra natura e uomo. Il terroir è come la carta d'identità dell'uomo, è esso stesso radice genetica, mentre il lavoro è il mezzo per ottenere il massimo dai due vitigni principi del territorio di Sancerre, ovvero il Sauvignon ed il Pinot Noir. Il duro lavoro in vigna, seguito da vendemmie esclusivamente a mano in piccole casse e pressature soffici degli acini, accompagnate da fermentazioni effettuate con cura, rimontaggi, follature, assemblaggi mirati e dovizia di piccoli particolari tesi alla produzione di vini d'eccellenza rappresentano il marchio di fabbrica del domaine. Per Alphonse il vino è arte, sentimento, emozione, è come una bella donna che non smetteresti mai di ammirarla e se possibile, meglio ancora, possederla. Ha un debole per le belle donne e in un momento di esplosione di felicità, dovuto principalmente alla serie infinita di degustazioni, lo dimostrerà facendoci un bel disegno di un particolare femminile su una delle tante barrique disseminate nella cave.
Iniziamo dunque le degustazioni esclusivamente e direttamente dalle barrique, di diverse annate di Sancerre blanc nelle versioni "La Moussiere", Gènèration XIX, Edmond,e di Pinot Noir nella versione " En Grands Champs".
La pietra angolare del domaine è il Sancerre Blanc "La Moussiere" estratto da un vigneto che cresce su terreno Kimmèridgen (marna e calcare), unico a Sancerre di epoca jurassica con esposizione sud-sud-ovest. Colore paglierino con riflessi verdognoli sull'unghia, al naso floreale e fruttato, in bocca seduce per la sua mineralità, per la freschezza e per le note di dolcezza di fiori di campo e di frutta agrumata, lime su tutti. Il Generation XIX, che nasce su ugual terreno ma come per l'Edmond con viti di circa 80 anni di età, presenta una maggior complessità aromatica rispetto alla "La Moussière" con sentori di limone maturo, miele d'acacia e note che virano verso la menta e la frutta secca e con un attacco in bocca più ampio, ma quello che ha destato in me le sensazioni migliori è senza orma di dubbio l'Edmond. Il Mellot, ha voluto sorprenderci stappandoci l'annata 1994, 18 anni di vino con la V maiuscola. A cominciare dal colore, più intenso ma allo stesso tempo limpidissimo e con un'esplosione di profumi floreali, di frutta, di miele e vaniglia ed in bocca l'apoteosi, potente, seducente, ancora con un'acidità giovanile ed un equilibrio perfetto dove il limone maturo si fonde con dolci note di vaniglia, di pepe e di note leggermente speziate. Un vino che potrebbe invecchiare ancora per alcuni anni, decisamente lontano dal raggiungimento del suo apice di maturazione.
Unico vino bianco prodotto su una particella piccola con terroir completamente silicio è quello denominato Satellite, particolare per una marcata acidità e per note speziate evidenti. I vini prodotti hanno un invecchiamento medio tra botte e bottiglia di circa 48 mesi prima di essere posti in vendita.
Dopo aver degustato i bianchi mai più avrei immaginato di poter bere un grande pinot noir che regge splendidamente il confronto con i più rinomati cugini borgognoni. Il "En Grand Champs" annata 2008 è un cavallo di razza a cominciare dal colore, rosso rubino intenso non abituale per un pinot noir, limpidissimo ed al naso frutta rossa matura, note legnose e speziate, al palato voluttuoso, suadente è pervaso da potenti note di frutta, mora su tutte, che ben si fondono con evidenti toni di pepe rosa e con una persistenza aromatica ben presente.. Un vino da grande invecchiamento. E' evidente che la presenza del giornalista italiano ci ha dato la possibilità di poter ottenere un trattamento speciale tanto che ho tenuto il conto delle degustazioni fino alla ventunesima, poi il tasso alcolico andato di certo oltra la soglia legale ha completamente oscurato l'angolo della memoria cerebrale e meno male che disponevamo di un secchio al seguito dove sputare, ad arte, l'eccesso di vino degustato.
Alphonse era un fiume in piena e tutti noi, compreso il giornalista professionista eravamo ammaliati e un po' "in gaina", ma anche lui, del resto, che non si era sottratto ad alcuna degustazione iniziava a camminare a due metri da terra cominciando a dispensarci perle di saggezza enologica. Alla domanda, in cui chiedevamo se nella storia della famiglia Mellot ci fosse stato qualche astemio, molto spavaldamente asserì che era impossibile in quanto l'essere astemio equivaleva ad essere malato.
Nel tourbillon delle degustazioni, dopo aver assaggiato direttamente dalle barriques due sauvignon annata 1984 e 1989 un po' maderizzati e quindi non consoni al nostro palato e nel continuo girovagare da una botte all'altra (almeno 200 in cantina), ci ritrovammo per incanto in una saletta dove il Mellot teneva ammassate miriadi di bottiglie che amici viticoltori di tutta la Francia gli regalavano in visita; fu in quel frangente che ci aprì un Riesling Alsaziano annata 1991 del quale non ricordo il produttore (ero un po' annebbiato) ma di ottima fattura e poi, all'apice del fanatismo enologico percepimmo che, per un'istante (per me durato un secolo, forse solo per la speranza!) monsieur Mellot sembrava fosse intenzionato a stappare una bottiglia di Cheval Blanc annata 1947, ovvero il miglior Saint Emilion in circolazione. L'avesse fatto, giuro, mi sarei prostrato in adorazione, eternamente grato. Purtroppo è bastato avere ancora una cellula sobria per rinsavirlo e per fargli riporre la bottiglia al suo posto. Parliamo sempre di un vino che dovrebbe avere un valore di almeno 3.000 euro la bottiglia, visto l'ottima annata vintage. Tanto per rendere l'idea, Robert Parker, guru enologico di fama mondiale l'ha definito in questo modo:" il 1947 è perfetto, con un carattere incredibilmente untuoso, ricco e complesso, uno dei più grandi risultati del secolo. E' stato dopo aver degustato un Cheval Blanc del 1947, impeccabile nella magnum, che ho avuto la consapevolezza della fortuna di fare un lavoro simile":
Un fenomeno, il Mellot è un autentico fenomeno. Ti rapisce con il suo entusiasmo e con una giovialità fuori dal comune. Al culmine della visita lo sentito uno di noi, con la sua prorompente spontaneità e con tanta voglia di vivere e di godersi la vita e devo dire che l'immagine che più mi è rimasta impressa e l'abbraccio fraterno allo zio nel momento dei saluti. Commovente. Sembravano due amici da sempre!!
E' stata una bellissima esperienza sotto tutti gli aspetti. Sperando che l'appello al giornalista, nel dedicare una riga dell'articolo a tre pellegrini italiani nelle terre di bacco, possa essere accolto e salutando calorosamente il Mellot ed il fotografo Stefano, gran compagnone ed eccellente bevitore, ci lasciamo per dirigerci verso Lons Le Saunier, nella regione dello Jura, distante ben 310 km. Siamo in grande ritardo; la visita sarebbe dovuta durare un'ora ma è andata avanti per almeno 3 ore e trenta e solo perchè abbiamo chiesto di acquistare per poter dirigerci verso la nuova meta, altrimenti saremmo ancora là a degustare chissà per quanto tempo ancora. Siamo felici ma mi rendo anche conto che le degustazioni hanno lasciato il segno. Per fortuna ho bevuto meno degli altri e non sono preoccupato più di tanto per la guida. I miei compagni hanno un atteggiamento diverso; lo zio è a mille, gli senti addosso una felicità pura, genuina, come se fosse tornato bambino e per almeno mezz'ora esterna tutta la gioia che ha nel cuore, mentre Paolo, offuscato dai fumi dell'alcool e da una cervicale che lo attanaglia da alcuni giorni si lascia andare in un sonno profondo.
Lasciando alle mie spalle, chilometro dopo chilometro, i territori della Valle de la Loire, a poco a poco la nostalgia mi assaliva e nella mia mente cercavo di ripercorre questi pochi giorni che vissuti così intensamente erano già carichi di ricordi, che avrei voluto già imprimere sulla carta.
Ho sentito la stanchezza nell'ultima mezz'ora di auto, ma grazie a Dio siamo arrivati a destinazione verso le 21.30 c.ca, senza pioggia, ma con un vento freddo e fastidioso. Paolo ha preferito entrare subito in hotel, farsi una doccia calda e rilassarsi, mentre io ho accompagnato lo zio, che si sentiva in vena, al casinò dell'hotel per fare qualche puntatina alla roulette , senza fortuna. Il ristorante chiuso, data l'ora, ci fa rifugiare in camera per riposare le nostre stanche e avvinate membra in questa giornata tutta da ricordare.
Il mattino seguente, abbiamo poca voglia di parlare, pervasi da un misto di compiacimento e tristezza allo stesso tempo, con la voglia, come per tutti i viaggi che finiscono, di fare presto rientro a casa, anche se sulla via del ritorno faremo un'ultima sosta nel villaggio di Arlay nel cuore dello Jura per degustare un vino di nicchia, lo Chateau-Chalon. Michel - Jack Chasseuil (il più grande collezionista di vino al mondo) l'ha definito come "un vino che sfida il passare del tempo e in bocca risulta potente, dominatore, con note di nocciola, noce, miele e resina". Leggendo il suo libro " 100 bottiglie straordinarie" mi ero imbattuto su uno Chateau-Chalon annata 1895 della cantina Jean Bourdy che lo Chasseuil era riuscito ad avere dal produttore direttamente dalla cave du trèsor di famiglia e che a detta di costui può invecchiare ancora per cento anni. Praticamente un vino indistruttibile. Volevo a tuti i costi degustarlo e a gennaio mi sono rivolto direttamente via mail a monsieur Bourdy che ci ha dato appuntamento il 26 aprile alle ore 10.00.
Produttore da 25 generazioni, Jean Bourdy ci accoglie benevolmente nella cantina di famiglia, piccola e molto antica e incomincia a parlarci del terroir in cui viene prodotto lo Chateau-Chalon, 50 ettari totali, tra cui il suo appezzamento, costituiti essenzialmente da marne calcaree blu-grigie, che si avvantaggiano del riparo delle falesie garantendo un'ottima maturazione delle uve. La resa per ettaro e limitata a 20 ettolitri. Il vitigno è uno sconosciuto Savagnin, rigorosamente autoctono. Questo vino, una volta svolta la fermentazione affina in barrique per un minimo di 6 anni, senza colmatura delle botti, periodo nel quale si forma in superficie un velo di lieviti Saccharomyces oviformis che ne fanno quasi da camicia a riparo dall'ossidazione del tempo. E' come se per certi versi avvenga una maderizzazione del vino consentendogli un lunghissimo invecchiamento, tanto è vero che il Bourdy ci dice che la bottiglia, da degustare preferibilmente ad una temperatura di 16/18°, può rimanere aperta per svariate settimane senza che vengano alterate le qualità gustative. Bottiglie denominate clavelins esclusivamente di 62 cl.
Lo assaggiamo. Noto negli occhi dei miei compari un alone di delusione. L'annata è il 2004 di 13,7°vol. , di un bel colore giallo dorato con profumi di difficile interpretazione e un po' evanescenti, al palato è un vino estremamente secco con quella punta marsalata che infastidisce il palato italico, che culturalmente ci fa desumere che il vino stia virando verso la sua morte naturale, ma in questo caso non è così. Profonde note di nocciola e soprattutto di mallo di noce lo rendono molto particolare ma di non facile beva. Sono l'unico ad acquistarlo essenzialmente per due motivi:
il primo è per poterlo annoverare con altre bottiglie facenti parte delle 100 più straordinarie della collezione più esclusiva del mondo che ho avuto il piacere di assaporare o di avere ancora nella mia cantina, vale a dire Sassicaia, Brunello di Montalcino Biondi Santi, Sauterne Chateau d'Arche e molto presto anche il Cote-Rotie di Marcel Guigal;in secondo luogo, perchè sentendomi un po' sperimentatore e un po' San Tommaso, mi piacerebbe stappare la bottiglia fra una ventina d'anni per verificare se, come dicono, questo vino non risenta del fattore tempo. Degustiamo, per la cronaca, anche un Cotes du Jura Rouge annata 2007, molto beverino che il Bourdy ci assicura possa andare avanti tranquillamente per molti e molti anni. Sembra che tutto quanto venga vitato in questo territorio venga investito del dogma della longevità e dell'elisir di eterna giovinezza che rendono questi vini enigmatici e misteriosi al pari di quelli degustati in Spagna, nella Rioja alla Bodega Lopez de Heredia nel 2010. Termina così questo viaggio dai densi significati enologici e non solo, visto che ha segnato la conclusione del peregrinare in terra di Francia, girata in lungo e in largo nell'esplorazione di tutte le più importanti zone vinicole; avevamo già prefissato per il 2013 di orientarci in Mosella alla scoperta dei bianchi teutonici, ma veniamo pervasi da una nostalgica attrazione verso il bel paese e molto presumibilmente, l'anno che verrà, ci vedrà impegnati ad approfondire le zone vocate a quel gran vino rosso che ha per nome Amarone. Chi vivrà vedrà! Un brindisi a noi, sempre più innamorati del vino e di tutto il mondo che lo circonda.