Pochi giorni fa, ha lasciato questo mondo Diego Armando Maradona, genio calcistico del secolo scorso, da tutti considerato il migliore di ogni epoca nel suo campo. Fiumi di inchiostro si sono riversati e molti altri ne riverseranno per raccontare, a chi non ha avuto il privilegio di vederlo in azione, le gesta, le mirabolanti traiettorie delle sue punizioni e le magie con la palla, che solo lui sapeva fare. Lungi da me cimentarmi nella stesura di un suo epitaffio, ma quel che continua a riecheggiarmi è l’aver più volte sentito tirare in ballo da più parti il binomio di “genio e sregolatezza”. 

Innanzitutto dovremmo partire nell’identificare cosa si intende per genio e come sempre ci viene in aiuto il latino e più precisamente il termine genius, sostantivo derivato dal verbo geno (generare, creare), ossia una speciale attitudine naturale con finalità di produrre opere d’importante rilevanza e ci aggiungerei sempre e comunque eccezionali, quindi fuori da quella che definiamo normalità. A questo punto, bisognerebbe capire cosa sia la normalità, ma ci perderemmo nei meandri filosofici e non ne faremmo più ritorno….

Detto ciò, usando un basso profilo, possiamo considerare i geni come individui fuori dalla norma, che, spesso e sovente hanno o hanno avuto una vita difficile, per certi versi solitaria, caratterialmente instabili, con una vita sentimentale complicata e con più o meno eccessi e mi riferisco all’uso e abuso di alcool e di sostanze stupefacenti.

Molte volte il comune denominatore è un’infanzia difficile e se pensiamo a Maradona, non possiamo dimenticare il fatto che sia nato nel quartiere disagiato di Villa Fiorito, in una delle favelas della periferia di Buenos Aires e se vogliamo citare un altro esempio, mi sovviene il leggendario chitarrista Jimi Hendrix, colui che con la mitica Fender Stratocaster cambiò per sempre il modo di suonare, mischiando il blues afroamericano con il rock psichedelico e che visse la sua infanzia in una situazione familiare non delle più felici e che a 16 anni venne espulso dalla scuola per motivi razziali, vagabondando per diversi anni, prima di sfondare a livello musicale.  A parte ciò, ognuno di loro, a suo modo era un genio, non assoluto certo, ma in quel che madre natura li aveva destinati a saper fare meglio, associato a una irrefrenabile voglia di riscatto e comunque con la certezza che fossero schegge di futuro conficcate in un presente che non li apparteneva. 

Essere un genio, vuol dire avere un talento eccezionale, quello stesso talento che nella maggior parte dei casi diventa incontrollabile al punto da diventare ingestibile, tanto da sopraffare il genio stesso, il quale, sentirà il bisogno di equilibrarsi con qualcosa che lo faccia rientrare in una normalità che non sarà mai tale, destinato o forse peggio, condannato a contrastanti eccessi e privazioni e nella maggior parte dei casi da osannato ad abbandonato a una vita di solitudine.

Personalmente sono più propenso a parlare di stabilità e instabilità e non di sregolatezzaun connubio che le persone cosiddette “normali” riescono a gestire, perché mediamente dotate, a differenza dei geni che sono fenomeni nella stabilità e dannati nella instabilità. Hanno dunque in forte evidenza una spettacolare luce cosmica e allo stesso tempo un lato oscuro, impenetrabile e non c’è come un qualsiasi capolavoro di quel genio di Michelangelo Merisi, detto “il Caravaggio” che lo possa testimoniare, in cui la luce messa nei suoi quadri ne evidenzia l’eccezionale talento al pari del buio tenebroso che ha sempre identificato il suo eterno tormento. 

Girovagando nei colli tortonesi, mi sono imbattuto a Costa Vescovato in un talentuoso viticultore, a tratti geniale e con un back ground un po’ burrascoso, come da lui stesso ammesso (ma era giovane…..) e con un passato inconsueto di casellante e fino a fine anni ’90 il suo lavoro di vignaiolo era solo secondario, in aiuto del padre. Poi l’illuminazione, che solo certi geni riescono ad avere e in breve tempo, a mio modo di vedere è diventato un vero fuoriclasse. Daniele Ricci, questo è il suo nome è lungimirante nell’aver ascoltato i consigli dell’istrionico e padre putativo del Timorasso, ovvero   Walter Massa, che resta sempre il suo punto di riferimento, ma per me, nel panorama tortonese, lui  rimane unico in un’onirica interpretazione di un vitigno troppo poco considerato a livello nazionale. Rispettoso del territorio, maniacale in vigna con conduzione biologica e all’insegna della più nitida e semplice naturalità, in cui l’uva raccolta in vendemmia viene diraspata e vinificata a “chilometro zero” nelle tre anfore da 10 ettolitri cad. sotterrate ed attigue ai vigneti e riparate da una tettoia apposita. Fondamentale il suo incontro con Gravner in compagnia di Walter Massa negli anni ’90.

Quel che mi piace in Ricci è che i suoi vini sono l’espressione del suo intimismo e di una concezione olistica in cui mente, corpo ed energia non sono slegati tra loro ma sono presi nella loro totalità, tanto da diventare un universo da scoprire, rimanendo sconcertati dalla magia e dalla loro genialità, come la degustazione del suo Timorasso In…Stabile 2017 di 15,0°vol che rappresenta la vera sublimazione della concettualità di un vino nato da una mente geniale. Vino da uve surmature e con macerazione sulle bucce, si presenta di colore ambrato limpido e brillante. Appena stappato, al naso avverto un accenno di riduzione; lasciato opportunamente ossigenare risulta a tratti un po’ scontroso, quasi oscuro, tenebroso, restio a mostrarsi anche se a poco a poco iniziano a sentirsi note cerose, sbuffi solfurei e di smalto, a cui seguono note fruttate di pesca matura, prugna gialla e sul finale un richiamo di semi di finocchio.


Olfattivamente ha quasi dato l’impressione di una certa instabilità che mette un po’ in apprensione l’approccio gustativo, ma in realtà non è affatto così, in quanto è al palato che questo Timorasso ha qualcosa di geniale, di sfacciatamente stabile, entrando in modo assolutamente appagante, con un equilibrio gustativo notevolissimo, dove freschezza, acidità e mineralità si amalgamano in un corollario di soave dolcezza che attraversa come una rasoiata il palato, donando nel contempo eleganza, persistenza e soprattutto pulizia estrema. Non avverto la sua alcoolicità e continuo, quasi misticamente, a berne sorso dopo sorso. Ricci, come Maradona e Jimi Hendrix hanno la capacità di farti sentire bene e questa è l’unica cosa che realmente importa. 

Il nome di questo vino è tutto un programma, un lampo di luce che esemplifica il concetto, a volte usato impropriamente di “ genio e sregolatezza” , al quale preferisco di gran lunga l’assioma di  In….Stabile!!!